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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO QUARTO.

Sviluppo dell'indole indicato da alcuni fattarelli.

 

L'indole, che io andava manifestando in quei primi anni della nascente ragione, era questa. Taciturno e placido per lo piú; ma alle volte loquacissimo e vivacissimo; e quasi sempre negli estremi contrari; ostinato e restío contro alla forza, pieghevolissimo agli avvisi amorevoli; rattenuto piú che da nessun'altra cosa di essere sgridato; suscettibile di vergognarmi fino all'eccesso, e inflessibile se io veniva preso a ritroso.

Ma per meglio dar conto ad altrui e a me stesso di quelle qualità primitive, che la natura mi avea improntate nell'animo, fra molte sciocche istoriette accadutemi in quella prima età, ne allegherò due o tre di cui mi ricordo benissimo e che ritrarranno al vivo il mio carattere. Di quanti gastighi mi si potessero dare, quello che smisuratamente mi addolorava, e da segno di farmi ammalare, e che perciò non mi fu dato che due volte sole, era di mandarmi alla messa colla reticella da notte in capo; assetto che nasconde quasi interamente i capelli. La prima volta ch'io ci fui condannato (né mi ricordo piú del perché) venni dunque strascinato per mano dal maestro alla vicinissima Chiesa del Carmine; chiesa abbandonata, dove non si trovavano mai quaranta persone radunate nella sua vastità: tuttavia fattamente mi afflisse codesto gastigo, che per piú di tre mesi poi rimasi irreprensibile. Tra le ragioni ch'io sono andato cercando in appresso entro di me medesimo, per ben conoscere il fonte d'un simile effetto, due principalmente ne trovai, che mi diedero intiera soluzione del dubbio. L'una si era, che io mi credeva gli occhi di tutti doversi necessariamente affissare su quella mia reticella, e ch'io doveva esser molto sconcio e difforme in codesto assetto, e che tutti mi terrebbero per un vero malfattore vedendomi punito cosí orribilmente. L'altra, si era ch'io temeva di esser visto cosí dagli amati novizi; e questo mi passava veramente il cuore. Or mira, o lettore, in me omiccino il ritratto e tuo e di quanti anche uomoni sono stati o saranno; che tutti siam pur sempre, a ben prendere, bambini perpetui.

Ma l'effetto straordinario in me cagionato da quel gastigo, avea riempito di gioia i miei parenti e il maestro; onde ad ogni ombra di mancamento, minacciatami la reticella abborrita, io rientrava immediatamente nel dovere, tremando. Pure, essendo poi ricaduto al fine in un qualche fallo insolito, per iscusa del quale mi occorse di articolare una solennissima bugia alla signora madre, mi fu di bel nuovo sentenziata la reticella; e di piú, che in vece della deserta Chiesa del Carmine, verrei condotto cosí a quella di S. Martino, distante da casa, posta nel bel centro della città e frequentatissima su l'ora del mezzo giorno da tutti gli oziosi del bel mondo. Oimè, qual dolore fu il mio! pregai, piansi, mi disperai, tutto invano. Quella notte ch'io mi credei dover essere l'ultima della mia vita, non che chiudessi mai occhio, non mi ricordo mai poi di averne in nessun altro mio dolore passata una peggio. Venne alfin l'ora; inreticellato, piangente, ed urlante mi avviai stiracchiato dal maestro pel braccio, e spinto innanzi dal servitore per di dietro, e in tal modo traversai due o tre strade, dove non era gente nessuna; ma tosto che si entrò nelle vie abitate, che s'avvicinavano alla piazza e chiesa di San Martino, io immediatamente cessai dal piangere e dal gridare, cessai dal farmi strascinare; e camminando anzi tacito, e di buon passo, e ben rasente al prete Ivaldi, sperai di passare inosservato, nascondendomi quasi sotto il gomito del talare maestro, al di cui fianco appena la mia statura giungeva. Arrivai nella piena chiesa, guidato per mano come orbo ch'io era; che in fatti chiusi gli occhi all'ingresso, non gli apersi piú finché non fui inginocchiato al mio luogo di udir la messa; né, aprendoli poi, li alzai mai a segno di potervi distinguere nessuno. E rifattomi orbo all'uscire, tornai a casa con la morte in cuore, credendomi disonorato per sempre. Non volli in quel giorno mangiare, né parlare, né studiare, né piangere. E fu tale in somma e tanto il dolore, e la tensione d'animo, che mi ammalai per piú giorni; né mai piú si nominò pure in casa il supplizio della reticella, tanto era lo spavento che cagionò alla amorosissima madre la disperazione ch'io ne mostrai. Ed io parimenti per assai gran tempo non dissi piú bugia nessuna; e chi sa s'io non devo poi a quella benedetta reticella l'essere riuscito in appresso un degli uomini i meno bugiardi ch'io conoscessi.

Altra storietta. Era venuta in Asti la mia nonna materna, matrona di assai gran peso in Torino, vedova di uno dei barbassori di corte, e corredata di tutta quella pompa di cose, che nei ragazzi lasciano grand'impressione. Questa, dopo essere stata alcuni giorni con la mia madre, per quanto mi fosse andata accarezzando moltissimo in quel frattempo, io non m'era per niente addimesticato con lei, come selvatichetto ch'io m'era; onde, stando essa poi per andarsene, mi disse ch'io le doveva chiedere una qualche cosa, quella che piú mi potrebbe soddisfare, e che me la darebbe di certo. Io, a bella prima per vergogna e timidezza ed irresoluzione, ed in seguito poi per ostinazione e ritrosia, incoccio sempre a rispondere la stessa e sola parola: niente; e per quanto poi ci si provassero tutti in venti diverse maniere a rivoltarmi per pure estrarre da me qualcosa altro che non fosse quell'ineducatissimo niente, non fu mai possibile; né altro ci guadagnarono nel persistere gl'interrogatori, se non che da principio il niente veniva fuori asciutto, e rotondo; poi verso il mezzo veniva fuori con voce dispettosa e tremante ad un tempo; ed in ultimo, fra molte lagrime, interrotto da profondi singhiozzi. Mi cacciarono dunque, come io ben meritava, dalla loro presenza, e chiusorni in camera, mi lasciarono godermi il mio cosí desiderato niente, e la nonna partí. Ma quell'istesso io, che con tanta pertinacia aveva ricusato ogni dono legittimo della nonna, piú giorni addietro le avea pure involato in un suo forziere aperto un ventaglio, che poi celato nel mio letto, mi fu ritrovato dopo alcun tempo; ed io allora dissi, com'era vero, di averlo preso per darlo poi alla mia sorella. Gran punizione mi toccò giustamente per codesto furto; ma, benché il ladro sia alquanto peggior del bugiardo, pure non mi venne piúminacciatodato il supplizio della reticella; tanta era piú la paura che aveva la mia madre di farmi ammalare di dolore, che non di vedermi riuscire un po' ladro; difetto, per il vero, da non temersi poi molto, e non difficile a sradicarsi da qualunque ente non ha bisogno di esercitarlo. Il rispetto delle altrui proprietà, nasce e prospera prestissimo negl'individui che ne posseggono alcune legittime loro.

E qui, a guisa di storietta, inserirò pure la mia prima confessione spirituale, fatta tra i sette ed otto anni. Il maestro mi vi andò preparando, suggerendomi egli stesso i diversi peccati ch'io poteva aver commessi, dei piú de' quali io ignorava persino i nomi. Fatto questo preventivo esame in comune con don Ivaldi, si fissò il giorno in cui porterei il mio fastelletto ai piedi del padre Angelo, carmelitano, il quale era anche il confessore di mia madre. Andai: né so quel che me gli dicessi, tanta era la mia natural ripugnanza e il dolore di dover rivelare i miei segreti fatti e pensieri ad una persona ch'io appena conosceva. Credo, che il frate facesse egli stesso la mia confessione per me; fatto si è che assolutomi m'ingiungeva di prosternarmi alla madre prima di entrare in tavola, e di domandarle in tal atto pubblicamente perdono di tutte le mie mancanze passate. Questa penitenza mi riusciva assai dura da ingoiare; non già, perché io avessi ribrezzo nessuno di domandar perdono alla madre; ma quella prosternazione in terra, e la presenza di chiunque vi potrebbe essere, mi davano un supplizio insoffribile. Tornato dunque a casa, salito a ora di pranzo, portato in tavola, e andati tutti in sala, mi parve di vedere che gli occhi di tutti si fissassero sopra di me; onde io chinando i miei me ne stavo dubbioso e confuso ed immobile, senza accostarmi alla tavola, dove ognuno andava pigliando il suo luogo; ma non mi figurava per tutto ciò, che alcuno sapesse i segreti penitenziali della mia confessione. Fattomi poi un poco di coraggio, m'inoltro per sedermi a tavola; ed ecco la madre con occhio arcigno guardandomi, mi domanda se io mi ci posso veramente sedere; se io ho fatto quel ch'era mio dovere di fare; e se in somma io non ho nulla da rimproverare a me stesso. Ciascuno di questi quesiti mi era una pugnalata nel cuore; rispondeva certamente per me l'addolorato mio viso; ma il labbro non poteva proferir parola; né ci fu mezzo mai, che io volessi non che eseguire, ma né articolareaccennar pure la ingiuntami penitenza. E parimente la madre non la voleva accennare, per non tradire il traditor confessore. Onde la cosa finí, che ella perdé per quel giorno la prosternazione da farglisi, ed io ci perdei il pranzo, e fors'anco l'assoluzione datami a duro patto dal padre Angelo. Non ebbi con tutto ciò per allora la sagacità di penetrare che il padre Angelo aveva concertato con mia madre la penitenza da ingiungermi. Ma il core servendomi in ciò meglio assai dell'ingegno, contrassi d'allora in poi un odietto bastantemente profondo pel suddetto frate, e non molta propensione in appresso per quel sagramento ancorché nelle seguenti confessioni non mi si ingiungesse poi mai piú nessuna pena pubblica.

 

 

 




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