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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO QUINTO

Ultima storietta puerile.

 

Era venuto in vacanza in Asti il mio fratello maggiore, il marchese di Cacherano, che da alcuni anni si stava educando in Torino nel collegio de' Gesuiti. Egli era in età di circa anni quattordici al piú, ed io di otto. La di lui compagnia mi riusciva ad un tempo di sollievo e d'angustia. Siccome io non lo avea mai conosciuto prima (essendomi egli fratello uterino soltanto), io veramente non mi sentiva quasi nessun amore per esso; ma siccome egli andava pure un cotal poco ruzzando con me, una certa inclinazione per lui mi sarebbe venuta crescendo con l'assuefazione. Ma egli era tanto piú grande di me; avea piú libertà di me, piú danari, piú carezze dai genitori; avea già vedute piú assai cose di me, abitando in Torino; aveva spiegato il Virgilio; e che so io, tante altre cosarelle aveva egli, che io non avea, che allora finalmente io conobbi per la prima volta l'invidia. Ella non era però atroce, poiché non mi traeva ad odiare precisamente quell'individuo, ma mi faceva ardentissimamente desiderare di aver io le stesse cose, senza però volerle togliere a lui. E questa credo io, che sia la diramazione delle due invidie, di cui, l'una negli animi rei diventa poi l'odio assoluto contro chi ha il bene, e il desiderio d'impedirglielo, o toglierglielo, anche non lo acquistando per sé; l'altra, nei non rei, diventa sotto il nome di emulazione, o di gara, un'inquietissima brama di ottenere quelle cose stesse in eguale o maggior copia dell'altro. Oh quanto è sottile, e invisibile quasi la differenza che passa fra il seme delle nostre virtú e dei nostri vizi!

Io dunque, con questo mio fratello ora ruzzando, ora bisticciando, e cavandone ora dei regalucci, ora dei pugni, mi passava tutta quella state assai piú divertito del solito, essendo io fin allora stato sempre solo in casa; che non v'è pe' ragazzi maggior fastidio. Un giorno tra gli altri caldissimo, mentre tutti su la nona facevano la siesta, noi due stavamo facendo l'esercizio alla prussiana, che il mio fratello m'insegnava. Io, nel marciare, in una voltata cado, e batto il capo sopra uno degli alari rimasti per incuria nel camminetto sin dall'inverno precedente. L'alare, per essere tutto scassinato e privo di quel pomo d'ottone solito ad innestarvisi su le due punte che sporgono in fuori del camminetto, su una di esse mi venni quasi ad inchiodare la testa un dito circa sopra l'occhio sinistro nel bel mezzo del sopraciglio. E fu la ferita cosí lunga e profonda, che tuttora ne porto, e porterò sino alla tomba, la cicatrice visibilissima. Dalla caduta mi rizzai immediatamente da me stesso, ed anzi gridai subito al fratello di non dir niente; tanto piú che in quel primo impeto non mi parea d'aver sentito nessunissimo dolore, ma bensí molta vergogna di essermi cosí mostrato un soldato male in gambe. Ma già il fratello era corso a risvegliare il maestro, e il romore era giunto alla madre, e tutta la casa era sottosopra. In quel frattempo, io che non avea punto gridatocadendorizzandomi, quando ebbi fatti alcuni passi verso il tavolino, al sentirmi scorrere lungo il viso una cosa caldissima, portatevi tosto le mani, tosto che me le vidi ripiene di sangue cominciai allora ad urlare. E doveano essere di semplice sbigottimento quegli urli, poiché mi ricordo benissimo, che non sentii mai nessun dolore sinché non venne il chirurgo e cominciò a lavare a tastare e medicare la piaga. Questa durò alcune settimane, prima di rimarginare; e per piú giorni dovei stare al buio, perché si temeva non poco per l'occhio, stante la infiammazione e gonfiezza smisurata, che vi si era messa. Essendo poi in convalescenza, ed avendo ancora gl'impiastri e le fasciature, andai pure con molto piacere alla messa al Carmine; benché certo quell'assetto spedalesco mi sfigurasse assai piú che non quella mia reticella da notte, verde e pulita, quale appunto i zerbini d'Andalusía portano per vezzo. Ed io pure, poi viaggiando nelle Spagne la portai per civetteria ad imitazione di essi. Quella fasciatura dunque non mi facea nessuna ripugnanza a mostrarla in pubblico: o fosse, perché l'idea, di un pericolo corso mi lusingasse; o che, per un misto d'idee ancora informi nel mio capicino, io annettessi pure una qualche idea di gloria a quella ferita. E cosí bisogna pure che fosse; poiché, senza aver presenti alla mente i moti dell'animo mio in quel punto, mi ricordo bensí che ogniqualvolta s'incontrava qualcuno che domandasse al prete Ivaldi cosa fosse quel mio capo fasciato; rispondendo egli, ch'io era cascato; io subito soggiungeva del mio: facendo l'esercizio.

Ed ecco, come nei giovanissimi petti, chi ben li studiasse, si vengono a scorgere manifestamente i semi diversi delle virtú e dei vizi. Che questo certamente in me era un seme di amor di gloria; ma, né il prete Ivaldi, né quanti altri mi stavano intorno, non facevano simili riflessioni.

Circa un anno dopo, quel mio fratello maggiore, tornatosene in quel frattempo in collegio a Torino, infermò gravemente d'un mal di petto, che degenerato in etisia, lo menò alla tomba in alcuni mesi. Lo cavarono di collegio, lo fecero tornare in Asti nella casa materna, e mi portarono in villa perché non lo vedessi; ed in fatti in quell'estate morí in Asti, senza ch'io lo rivedessi piú. In quel frattempo il mio zio paterno, il cavalier Pellegrino Alfieri, al quale era stata affidata la tutela de' miei beni sin dalla morte di mio padre, e che allora ritornava di un suo viaggio in Francia, Olanda e Inghilterra, passando per Asti mi vide; ed avvistosi forse, come uomo di molto ingegno ch'egli era, ch'io non imparerei gran cosa continuando quel sistema d'educazione, tornato a Torino, di a pochi mesi scrisse alla madre, che egli voleva assolutamente pormi nell'Accademia di Torino. La mia partenza si trovò dunque coincidere con la morte del fratello; onde io avrò sempre presenti alla mente l'aspetto i gesti e le parole della mia addoloratissima madre, che diceva singhiozzando: «Mi è tolto l'uno da Dio, e per sempre: e quest'altro, chi sa per quanto!». Ella non aveva allora dal suo terzo marito se non se una femmina; due maschi poi le nacquero successivamente, mentre io stavo in Accademia a Torino. Quel suo dolore mi penetrò altamente; ma pure la brama di veder cose nuove, l'idea di dover tra pochi giorni viaggiar per le poste, io che usciva di fresco dall'aver fatto il primo mio viaggio in una villa distante quindici miglia da Asti, tirato da due placidissimi manzi; e cento altre simili ideuzze infantili che la fantasia lusinghiera mi andava apprestando alla mente, mi alleggerivano in gran parte il dolore del morto fratello, e dell'afflittissima madre. Ma pure, quando si venne all'atto di dover partire, io mi ebbi quasi a svenire, e mi addolorò di dover abbandonare il maestro don Ivaldi forse ancor piú che lo staccarmi dalla madre.

Incalessato poi quasi per forza dal mio fattore, che era un vecchio destinato per accompagnarmi a Torino in casa dello zio dove doveva andare da prima, partii finalmente, scortato anche dal servitore destinatomi fisso, che era un certo Andrea, alessandrino, giovine di molta sagacità e di bastante educazione secondo il suo stato ed il nostro paese, dove il saper leggere e scrivere non era allora comune. Era di luglio nel 1758, non so qual giorno, quando io lasciai la casa materna la mattina di buonissima ora. Piansi durante tutta la prima posta; dove poi giunto, nel tempo che si cambiava i cavalli, io volli scendere nel cortile, e sentendomi molto assetato senza voler domandare un bicchiere, né far attinger dell'acqua per me, accostatomi all'abbeveratoio de' cavalli, e tuffatovi rapidamente il maggior corno del mio cappello, tanta ne bevvi quanta ne attinsi. L'aio fattore, avvisato dai postiglioni, subito vi accorse sgridandomi assai; ma io gli risposi, che chi girava il mondo si doveva avvezzare a tai cose, e che un buon soldato non doveva bere altrimente. Dove poi avessi io pescate queste idee achillesche, non lo saprei; stante che la madre mi aveva sempre educato assai mollemente, ed anzi con risguardi circa la salute affatto risibili. Era dunque anche questo in me un impetino di natura gloriosa, il quale si sviluppava tosto che mi veniva concesso di alzare un pocolino il capo da sotto il giogo.

E qui darò fine a questa prima epoca della mia puerizia, entrando ora in un mondo alquanto men circoscritto, e potendo con maggior brevità, spero, andarmi dipingendo anche meglio. Questo primo squarcio di una vita (che tutta forse è inutilissima da sapersi) riuscirà certamente inutilissimo per tutti coloro, che stimandosi uomini si vanno scordando che l'uomo è una continuazione del bambino.


 




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