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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO SESTO

Viaggio in Inghilterra e in Olanda. Primo intoppo amoroso.

 

Partii dunque di Parigi verso il mezzo gennaio, in compagnia di un cavaliere mio paesano, giovine di bellissimo aspetto, di età circa dieci o dodici anni piú avanzato di me, di un certo ingegno naturale; ignorante, quanto me; riflessivo, assai meno, e piú amatore del gran mondo che conoscitore o investigatore degli uomini. Egli era cugino del nostro ambasciatore in Parigi, e nipote del principe di Masserano allora ambasciatore di Spagna in Londra, in casa del quale egli doveva alloggiare. Benché io non amassi gran fatto di legarmi di compagnia per viaggio, pure per andare a un determinato luogo e non piú, mi ci accomodai volentieri. Questo mio nuovo compagno era di un umore assai lieto e loquace, onde con vicendevole soddisfazione io taceva e ascoltava, egli parlava e lodavasi, essendo egli fortemente innamorato di sé, per aver piaciuto molto alle donne; e mi andava annoverando con pompa i suoi trionfi amorosi, ch'io stava a sentire con diletto, e senza invidia nessuna. La sera all'albergo, aspettando la cena, giuocavamo a scacchi, ed egli sempre mi vinceva, essendo io stato sempre ottusissimo a tutti i giuochi. Si fece un giro piú lungo per Lilla, e Douay, e Sant'Oméro, per renderci a Calais; ed era il freddo eccessivo, che in un calesse stivatissimo coi cristalli, ed inoltre un candelotto che ci tenevamo acceso, ci si agghiacciò in una notte il pane, ed il vino stesso; e quest'eccesso mi rallegrava, perché io per natura poco gradisco le cose di mezzo.

Lasciate finalmente le rive della Francia, appena sbarcavamo a Douvres, che quel freddo, si trovò scemato per metà, e non trovammo quasi punta neve fra Douvres e Londra. Quanto mi era spiaciuto Parigi al primo aspetto, tanto mi piacque subito e l'Inghilterra, e Londra massimamente. Le strade, le osterie, i cavalli, le donne, il ben essere universale, la vita e l'attività di quell'isola, la pulizia e comodo delle case benché picciolissime, il non vi trovare pezzenti, un moto perenne di danaro e d'industria sparso egualmente nelle province che nella capitale; tutte queste doti vere ed uniche di quel fortunato e libero paese, mi rapirono l'animo a bella prima, e in due altri viaggi, oltre quello, ch'io vi ho fatti finora, non ho variato mai piú di parere, troppa essendo la differenza tra l'Inghilterra e tutto il rimanente dell'Europa in queste tante diramazioni della pubblica felicità, provenienti dal miglior governo. Onde, benché io allora non ne studiassi profondamente la costituzione, madre di tanta prosperità, ne seppi però abbastanza osservare e valutare gli effetti divini.

In Londra essendo molto maggiore la facilità per i forestieri di essere introdotti nelle case, di quel che non sia in Parigi, io, che a quella difficoltà parigina non avea mai voluto piegarmi per ammollirla, perché non mi curo di vincere le difficoltà da cui non me ne ridonda niun bene, mi lasciai allora per qualche mesi strascicare da quella facilità, e da quel mio compagno di viaggio, nel vortice del gran mondo. Contribuí anche non poco ad infrangere la mia naturale rusticità e ritrosia la cortese e paterna amorevolezza verso di me del principe di Masserano, ambasciatore di Spagna, ottimo vecchio, appassionatissimo dei piemontesi, essendo il Piemonte la sua patria, benché il di lui padre si fosse già traspiantato in Ispagna. Ma dopo circa tre mesi, avvedendomi che in quelle veglie e cene e festini io mi ci seccava purtroppo, e niente imparavaci, scambiatami allora la parte, in vece di recitare da cavaliere nella veglia, mi elessi di far da cocchiere alla porta di essa, e incarrozzava e scarrozzava di qua e di per tutto Londra il mio bel Ganimede compagno, a cui solo lasciava la gloria dei trionfi amorosi; e mi era ridotto a far bene e disinvoltamente il mio servizio di cocchiere, che anche di alcuni di quei combattimenti a timonate che usano tra i cocchieri inglesi all'uscire del Renelawgh, e dei teatri, ne uscii con un qualche onore, senza rottura di legnodanno dei cavalli. In tal guisa dunque terminai i miei divertimenti di quell'inverno, col cavalcare quattro o cinqu'ore ogni mattina, e stare a cassetta due o tre ore ogni sera a guidare, per qualunque tempo facesse. Nell'aprile poi col mio solito compagno si fece una scorsa per le piú belle province d'Inghilterra. Si andò a Portsmouth e Salsbury, a Bath, Bristol, e si tornò per Oxford a Londra. Il paese mi piacque molto, e l'armonia delle cose diverse, tutte concordanti in quell'isola al massimo ben essere di tutti, m'incantò sempre piú fortemente; e fin d'allora mi nascea il desiderio di potervi stare per sempre a dimora; non che gli individui me ne piacessero gran fatto, (benché assai piú dei francesi, perché piú buoni e alla buona), ma il local del paese, i semplici costumi, le belle e modeste donne e donzelle, e sopra tutto l'equitativo governo, e la vera libertà che n'è figlia; tutto questo me ne faceva affatto scordare la spiacevolezza del clima, la malinconia che sempre vi ti accerchia, e la rovinosa carezza del vivere.

Tornato poi da quel giretto che mi avea rimesso su le mosse, io già di bel nuovo mi sentiva incalzato dal furore dell'andare, e con gran pena differii ancora sino ai primi di giugno la mia partenza per l'Olanda. E allora poi, per la via di Harwich imbarcatomi per Helvoetsluys, con un rapidissimo vento in dodici ore vi approdai.

La Olanda è nell'estate un ameno e ridente paese; ma mi sarebbe piaciuta anche piú, se l'avessi visitata prima dell'Inghilterra; atteso che quelle stesse cose che vi si ammirano, popolazione, ricchezza, lindura, savie leggi, industria ed attività somma, tutte vi si trovano alquanto minori che in Inghitterra. Ed in fatti poi, dopo molti altri viaggi e molta piú esperienza, i due soli paesi dell'Europa che mi hanno sempre lasciato desiderio di sé, sono stati l'Inghilterra e l'Italia; quella, in quanto l'arte ne ha per cosí dire soggiogata o trasfigurata la natura; questa, in quanto la natura sempre vi è robustamente risorta a fare in mille diversi modi vendetta dei suoi spesso tristi e sempre inoperosi governi.

Nel mio soggiorno nell'Haia, che riuscí assai piú lungo che non avea disegnato, io incappai finalmente nell'amore, che mai fin allora non mi avea potuto raggiungereafferrare. Una gentil signorina, sposa da un anno, piena di grazie naturali, di modesta bellezza, e di una soave ingenuità, mi toccò vivissimamente nel cuore; ed il paese essendo piccolo, e poche le distrazioni, nel rivederla io assai piú spesso che non avrei voluto da prima, tosto poi mi venni a dolere di non poterla veder abbastanza. Mi trovai preso, senza quasi avvedermene, in una terribile maniera; talché già stava ruminando in me stesso niente meno che di non mi muover mai piúvivomorto dall'Haia, persuadendomi che mi sarebbe impossibilissima cosa di vivere senz'essa. Apertosi il mio indurito cuore agli strali d'Amore, egli avea ad un tempo stesso dato adito alle dolci insinuazioni dell'amicizia. Ed era il mio nuovo amico, il signor Don Iosé D'Acunha, ministro allora di Portogallo in Olanda. Egli era uomo di molto ingegno e piú originalità, di una bastante coltura, e di un ferreo carattere; magnanimo di cuore, di animo bollente ed altissimo. Una certa simpatia fra le nostre due taciturnità ci avea già quasi allacciati vicendevolmente, senza che ce ne avvedessimo; la franchezza poi e il calore dei nostri due animi ben tosto ebbe operato il di piú. Io dunque mi trovava felicissimo nell'Haia, dove per la prima volta in vita mia mi occorreva di non desiderare altra cosa al mondo nessuna, oltre l'amica, e l'amico. Amante io ed amico, riamato da entrambi i soggetti, traboccava da ogni parte gli affetti, parlando dell'amata all'amico, e dell'amico all'amata; e gustava cosí dei piaceri vivissimi incomparabili, e fino a quel punto ignoti al mio cuore, benché tacitamente pur sempre me li fosse egli andato richiedendo, e additando come in confuso. Mille savi consigli mi dava continuamente quel degnissimo amico; e quello massimamente, di cui non perderò mai la memoria, si fu del farmi con destrezza ed efficacia arrossire della mia stupida oziosa vita, del non mai aprir un libro qualunque, dell'ignorar tante cose, e piú che altro i nostri, pur tanti e ottimi, italiani poeti ed i piú distinti (ancorché pochi) prosatori e filosofi. Tra questi, l'immortal Niccolò Machiavelli, di cui null'altro sapeva io che il semplice nome, oscurato e trasfigurato da quei pregiudizi con cui nelle nostre educazioni ce lo definiscono senza mostrarcelo, e senza averlo i detrattori di esso né letto, né inteso se pur mai visto l'hanno. L'amico D'Acunha me ne regalò un esemplare, che ancora conservo, e che poi molto lessi, e alcun poco postillai, ma dopo molti e molti anni. Una stranissima cosa però (la quale io notai molto dopo, ma che allora vivamente sentii senza pure osservarla) si era, che io non mi sentiva mai ridestare in mente e nel cuore un certo desiderio di studi ed un certo impeto ed effervescenza d'idee creatrici, se non se in quei tempi in cui mi trovava il cuore fortemente occupato d'amore; il quale, ancorché mi distornasse da ogni mentale applicazione, ad un tempo stesso me ne invogliava; onde io non mi teneva mai tanto capace di riuscire in un qualche ramo di letteratura, che allorquando avendo un oggetto caro ed amato mi parea di potere a quello tributare anco i frutti del mio ingegno.

Ma quella mia felicità olandese non mi durò gran tempo. Il marito della mia donna, era un ricchissimo individuo il di cui padre era stato governatore di Batavia; egli mutava spessissimo luogo, ed avendo recentemente comprata una baronia negli Svizzeri, voleva andarvi a villeggiare in quell'autunno. Nell'agosto egli fece colla moglie un viaggietto all'acque di Spa; ed io dietro loro, non essendo egli gran fatto geloso. Nel tornare poi di Spa verso l'Olanda, si venne insieme sino a Mastricht, e mi fu forza lasciarla, perché ella dovea andar in villa con la di lei madre, mentre il marito andava egli solo verso la Svizzera. Io non conosceva la di lei madre, e non v'erapretestomezzo decente e plausibile per intromettermi in casa altrui. Codesta prima separazione mi spaccò veramente il cuore; ma rimanevaci pure ancora una qualche speranza di rivederci. Ed in fatti, tornato io all'Haia, e partito il marito per la Svizzera, di a pochi giorni ricomparí l'adorata donna nell'Haia. La mia contentezza fu somma, ma fu un lampo momentaneo. Dopo dieci giorni in cui veramente mi tenni ed era beato sopra ogni uomo, non sentendosi ella il cuore di dirmi qual giorno dovesse ripartire per la villa, né avendo io il coraggio di domandarglielo; una mattina ad un tratto mi venne a vedere l'amico D'Acunha, e nel dirmi ch'ell'era sforzatamente dovuta partire, mi diede una sua letterina che mi colpí a morte, benché tutta spirasse affetto ed ingenuità nell'annunziarmi l'indispensabile necessità in cui si trovava, di non poter piú senza scandalo differire la di lei partenza alla volta del marito, che le avea ingiunto di raggiungerlo. L'amico soavemente aggiungeva in voce, che non v'essendo rimedio, bisognava dar luogo alla necessità ed alla ragione.

Non sarei forse reputato veridico, se io volessi annoverare tutte le frenesie dell'addolorato disperato mio animo. A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse sangue, venne, e me lo cavai. Uscito appena il chirurgo, io finsi di voler dormire, e chiusomi fra le cortine del letto io stava qualche minuti fra me ruminando a quello ch'io stava per fare, poi principiai a sfasciare la sanguigna avendo fermo in me di cosí dissanguarmi e perire. Ma quel non meno sagace che fido Elia, che mi vedea in tale violento stato, e che anche dall'amico era stato addottrinato prima di lasciarmi, simulando che io lo avessi chiamato mi tornò alla sponda del letto rialzando la cortina ad un tratto; onde io sorpreso e vergognoso ad un tempo, forse anche pentito o mal fermo nel mio giovenile proposto, gli dissi che la fasciatura mi s'era disfatta; egli finse di crederlo, e me la rifasciò, né piú mi volle perder di vista un momento. Ed anzi, fatto di nuovo cercar l'amico, egli corse da me, ed ambedue quasi mi sforzarono ad alzarmi da letto, e l'amico mi volle portare a casa sua dove mi vi trattenne per piú giorni, nei quali mai non mi abbandonò. Il mio dolore era cupo e taciturno; o sia che mi vergognassi, o che mi diffidassi, non l'ardiva esternare; onde o taceami, ovvero piangeva. Frattanto ed il tempo, e i consigli dell'amico, e le piccole divagazioni a cui egli mi costringeva, e un qualche raggio d'incerta speranza di poterla rivedere; di ritornare in Olanda l'anno dopo, e piú ch'ogni cosa forse la natural leggerezza di quella età di anni diciannove, mi andarono a poco a poco sollevando. Ed ancorché il mio animo non si risanasse per assai gran tempo, la ragione mi rientrò pure intera nello spazio di pochi giorni.

Cosí alquanto rinsavito, ma dolentissimo, fermai di partire alla volta d'Italia, riuscendomi ingratissima la vista di un paese e di luoghi ai quali io ridomandava il mio bene perduto quasi ad un tempo che posseduto. Mi doleva però assaissimo di staccarmi da un tale amico; ma egli stesso, vedendomi gravemente piagato, mi incoraggí al partire, essendo ben convinto che il moto, la varietà degli oggetti, la lontananza ed il tempo infallibilmente mi guarirebbero.

Verso il mezzo settembre mi separai dall'amico in Utrecht, dove mi volle accompagnare, e di donde per la via di Brusselles, per la Lorena, Alsazia, Svizzera, e Savoia non mi arrestai piú sino in Piemonte, altro che per dormire; ed in meno di tre settimane mi ritrovai in Cumiana nella villa di mia sorella, dove andai subito da Susa senza passar per Torino, per isfuggire ogni consorzio umano, avendo bisogno di digerire la mia febbre nella piena solitudine. E durante tutto il viaggio, nulla vidi in tutte quelle città di passo, Nancy, Strasborgo, Basilea, e Ginevra, altro che le mura; né mai aprii bocca col fidato Elia, che adattandosi alla mia infermità, mi obbediva a cenni, e antiveniva ogni mio bisogno.

 

 

 




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