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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO SETTIMO

Ripatriato per un mezz'anno, mi do agli studi filosofici.

 

Tale fu il primo mio viaggio, che durò due anni e qualche giorni. Dopo circa sei settimane di villeggiatura con mia sorella, restituendosi ella in città, tornai in Torino con essa. Molti non mi riconoscevano quasi piú attesa la statura che in quei due anni mi si era infinitamente accresciuta; tanto era il bene che mi aveva fatto alla complessione quella vita variata, oziosa, e strapazzatissima. Nel passar di Ginevra io avea comprato un pieno baule di libri. Tra quelli erano le opere di Rousseau, di Montesquieu, di Helvetius, e simili. Appena dunque ripatriato, pieno traboccante il cuore di malinconia e d'amore, io mi sentiva una necessità assoluta di fortemente applicare la mente in un qualche studio; ma non sapeva il quale, stante che la trascurata educazione coronata poi da quei circa sei anni di ozio e di dissipazione, mi avea fatto egualmente incapace di ogni studio qualunque. Incerto di quel che mi farei, e se rimarrei in patria, o se viaggierei di bel nuovo, mi posi per quell'inverno a stare in casa di mia sorella, e tutto il giorno leggeva, un pochino passeggiava, e non trattava assolutamente con nessuno. Le mie letture erano sempre di libri francesi. Volli leggere l'Eloisa di Rousseau; piú volte mi ci provai; ma benché io fossi di un carattere per natura appassionatissimo, e che mi trovassi allora fortemente innamorato, io trovava in quel libro tanta maniera, tanta ricercatezza, tanta affettazione di sentimento, e poco sentire, tanto calor comandato di capo, e gran freddezza di cuore, che mai non mi venne fatto di poterne terminare il primo volume. Alcune altre sue opere politiche, come il Contratto sociale, io non le intendeva, e perciò le lasciai. Di Voltaire mi allettavano singolarmente le prose, ma i di lui versi mi tediavano. Onde non lessi mai la sua Enriade, se non se a squarcetti; poco piú la Pucelle, perché l'osceno non mi ha dilettato mai; ed alcune delle di lui tragedie. Montesquieu all'incontro lo lessi di capo in fondo ben due volte, con maraviglia, diletto, e forse anche con un qualche mio utile. L'Esprit di Helvetius mi fece anche una profonda, ma sgradevole impressione. Ma il libro dei libri per me, e che in quell'inverno mi fece veramente trascorrere, dell'ore di rapimento e beate, fu Plutarco, le vite dei veri grandi. Ed alcune di quelle, come Timoleone, Cesare, Bruto, Pelopida, Catone, ed altre, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All'udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva sentire e pensare. In quello stesso inverno studiai anche con molto calore il sistema planetario, ed i moti e leggi dei corpi celesti, fin dove si può arrivare a capirle, senza il soccorso della per me inapprendibile geometria. Cioè a dire ch'io studiai malamente la parte istorica di quella scienza tutta per sé matematica. Ma pure, cinto di tanta ignoranza, io ne intesi abbastanza per sublimare il mio intelletto alla immensità di questo tutto creato; e nessuno studio mi avrebbe rapito e riempiuto piú l'animo che questo, se io avessi avuto i debiti principii per proseguirlo.

Tra queste dolci e nobili occupazioni, che dilettandomi pure, accresceano nondimeno notabilmente la mia taciturnità, malinconia e nausea d'ogni comune divertimento, il mio cognato mi andava continuamente istigando di pigliar moglie. Io, per natura, sarei stato inclinatissimo alla vita casereccia; ma l'aver veduta l'Inghilterra in età di diciannove anni, e l'aver caldamente letto e sentito Plutarco all'età di venti anni, mi ammonivano, ed inibivano di pigliar moglie e di procrear figli in Torino. Con tutto ciò la leggerezza di quella stessa età mi piegò a poco a poco ai replicati consigli, ed acconsentii che il cognato trattasse per me il matrimonio con una ragazza erede, nobilissima, e piuttosto bellina, con occhi nerissimi che presto mi avrebbero fatto smettere il Plutarco, nello stesso modo che Plutarco forse avea indebolito in me la passione della bella olandese. Ed io confesserò di aver avuto in quel punto la viltà di desiderare la ricchezza piú ancora che la bellezza di codesta ragazza; speculando in me stesso, che l'accrescere circa di metà la mia entrata mi porrebbe in grado di maggiormente fare quel che si dice nel mondo buona figura. Ma la mia buona sorte mi serví in questo affare assai meglio che il mio debile e triviale giudizio, figlio d'infermo animo. La ragazza, che da bel principio avrebbe inclinato a me, fu svolta da una sua zia a favore d'altro giovinotto signore, il quale essendo figlio di famiglia con molti fratelli, e zii, veniva ad essere allora assai men comodo di me, ma godeva di un certo favore in corte presso il duca di Savoia erede presuntivo del trono, di cui era stato paggio, e dal quale ebbe in fatti poi quelle grazie che comporta il paese. Oltre ciò, il giovine era di un'ottima indole, e di un'amabile costumatezza. Io, al contrario, aveva taccia di uomo straordinario in mal senso, poco adattandomi al pensare, ai costumi, al pettegolezzo, e al servire del mio paese, e non andando abbastanza cauto nel biasimare e schernire quegli usi; cosa, che (giustamente a dir vero) non si perdona. Io fui dunque solennemente ricusato, e mi fu preferito il suddetto giovine. La ragazza fece ottimamente per il bene suo, poiché ella felicissimamente passò la vita in quella casa dove entrò; e fece pure ottimamente per l'util mio, poiché se io incappava in codesto legame di moglie e figli, le Muse per me certamente eran ite. Io da quel rifiuto ne ritrassi ad un tempo pena e piacere; perché mentre si trattava la cosa io spessissimo provavo dei pentimenti, e ne avea una certa vergogna di me stesso che non esternava, ma non la sentiva perciò meno; arrossendo in me medesimo di ridurmi per danari a far cosa che era contro il mio intimo modo di pensare. Ma una picciolezza ne fa due, e sempre poi si moltiplicano. Cagione di questa mia non certo filosofica cupidità, si era l'intenzione che già dal mio soggiorno in Napoli avea accolta nell'animo di attendere quando che fosse ad impieghi diplomatici. Questo pensiere veniva fomentato in me dai consigli del mio cognato, cortigiano inveterato; onde a desiderio di quel ricco matrimonio era come la base delle future ambascierie, alle quali meglio si fa fronte quanto piú si ha danari. Ma buon per me, che il matrimonio ito in fumo, mandò pure in fumo ogni mia ambasciatoria velleità; né mai feci chiesta nessuna di tale impiego, e per mia minor vergogna questo mio stupido e non alto desiderio nato e morto nel mio petto, non fu (toltone il mio cognato) noto a chicchessia.

Appena iti a vuoto questi due disegni, mi rinacque subito il pensiero di proseguire i miei viaggi per altri tre anni, per veder poi intanto quello che vorrei fare di me. L'età di venti anni mi lasciava tempo a pensarci. Io aveva aggiustati i miei interessi col curatore, dalla di cui podestà si esce nel mio paese al suonar dei venti anni. Venuto piú in chiaro delle cose mie, mi trovai esser molto piú agiato che non m'avea detto il curatore fino a quel punto. Ed egli in questo mi giovò non poco avendomi piuttosto avvezzato al meno che al piú. Perciò d'allora in poi quasi sempre fui giusto nello spendere. Trovandomi dunque allora circa duemila cinquecento zecchini di effettiva spendibile entrata, e non poco danaro di risparmio nei tanti anni di minorità, mi parve pel mio paese e per un uomo solo di essere ricco abbastanza, e deposta ogni idea di moltiplico mi disposi a questo secondo viaggio, che volli fare con piú spesa e maggiori comodi.

 

 

 




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