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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO OTTAVO

Secondo viaggio, per la Germania, la Danimarca e la Svezia.

 

Ottenuta la solita indispensabile e dura permissione del re, partii nel maggio del 1769 a bella prima alla volta di Vienna. Nel viaggio, abbandonando l'incarico noioso del pagare al mio fidatissimo Elia, io cominciava a fortemente riflettere su le cose del mondo; ed in vece di una malinconia fastidiosa ed oziosa, e di quella mera impazienza di luogo, che mi aveano sempre incalzato nel primo viaggio, in parte da quel mio innamoramento, in parte da quella applicazione continua di sei mesi in cose di qualche rilievo, ne avea ricavata un'altra malinconia riflessiva e dolcissima. Mi riuscivano in ciò di non picciolo aiuto (e forse devo lor tutto, se alcun poco ho pensato dappoi) i sublimi Saggi del familiarissimo Montaigne, i quali divisi in dieci tometti, e fattisi miei fidi e continui compagni di viaggio, tutte esclusivamente riempivano le tasche della mia carrozza. Mi dilettavano ed instruivano, e non poco lusingavano anche la mia ignoranza e pigrizia, perché aperti cosí a caso, qual che si fosse il volume, lettane una pagina o due, lo richiudeva, ed assai ore poi su quelle due pagine sue io andava fantasticando del mio. Ma mi facea bensí molto scorno quell'incontrare ad ogni pagine di Montaigne uno o piú passi latini, ed essere costretto a cercarne l'interpretazione nella nota, per la totale impossibilità in cui mi era ridotto d'intendere neppure le piú triviali citazioni di prosa, non che le tante dei piú sublimi poeti. E già non mi dava neppur piú la briga di provarmici, e asinescamente leggeva a dirittura la nota. Dirò piú; che quei spessi squarci dei nostri poeti primari italiani che vi s'incontrano, anco venivano da me saltati a piè pari, perché alcun poco mi avrebbero costato fatica a benissimo intenderli. Tanta era in me la primitiva ignoranza, e la desuetudíne poi di questa divina lingua, la quale in ogni giorno piú andava perdendo.

Per la via di Milano e Venezia, due città ch'io volli rivedere; poi per Trento, Inspruck, Augusta, e Monaco, mi rendei a Vienna, pochissimo trattenendomi in tutti i suddetti luoghi. Vienna mi parve avere gran parte delle picciolezze di Torino, senza averne il bello della località. Mi vi trattenni tutta l'estate, e non vi imparai nulla. Dimezzai il soggiorno, facendo nel luglio una scorsa fino a Buda, per aver veduta una parte dell'Ungheria. Ridivenuto oziosissimo, altro non faceva che andare attorno qua e nelle diverse compagnie; ma sempre ben armato contro le insidie d'amore. E mi era a questa difesa un fidissimo usbergo il praticare il rimedio commendato da Catone. Io avrei in quel soggiorno di Vienna potuto facilmente conoscere e praticare il celebre poeta Metastasio, nella di cui casa ogni giorno il nostro ministro, il degnissimo conte di Canale, passava di molte ore la sera in compagnia scelta di altri pochi letterati, dove si leggeva seralmente alcuno squarcio di classici o greci, o latini, o italiani. E quell'ottimo vecchio conte di Canale, che mi affezionava, e moltissimo compativa i miei perditempi, mi propose piú volte d'introdurmivi. Ma io, oltre all'essere di natura ritrosa, era anche tutto ingolfato nel francese, e sprezzava ogni libro ed autore italiano. Onde quell'adunanza di letterati di libri classici mi parea dover essere una fastidiosa brigata di pedanti. Si aggiunga, che io avendo veduto il Metastasio a Schoenbrunn nei giardini imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella di uso, con una faccia servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di contrarreamiciziafamiliarità con una Musa appigionata o venduta all'autorità despotica da me caldamente abborrita. In tal guisa io andava a poco a poco assumendo il carattere di un salvatico pensatore; e queste disparate accoppiandosi poi con le passioni naturali all'età di vent'anni e le loro conseguenze naturalissime, venivano a formar di me un tutto assai originale e risibile.

Proseguii nel settembre il mio viaggio verso Praga e Dresda, dove mi trattenni da un mese; indi a Berlino, dove dimorai altrettanto. All'entrare negli stati del gran Federico, che mi parvero la continuazione di un solo corpo di guardia, mi sentii raddoppiare e triplicare l'orrore per quell'infame mestier militare, infamissima e sola base dell'autorità arbitraria, che sempre è il necessario frutto di tante migliaia di assoldati satelliti. Fui presentato al re. Non mi sentii nel vederlo alcun moto né di maraviglia né di rispetto, ma d'indegnazione bensí e di rabbia; moti che si andavano in me ogni giorno afforzando e moltiplicando alla vista di quelle tante e poi tante diverse cose che non istanno come dovrebbero stare, e che essendo false si usurpano pure la faccia e la fama di vere. Il conte di Finch, ministro del re, il quale mi presentava, mi domandò perché io, essendo pure in servizio del mio re, non avessi quel giorno indossato l'uniforme. Risposigli: "Perché in quella corte mi parea ve ne fossero degli uniformi abbastanza". Il re mi disse quelle quattro solite parole di uso; io l'osservai profondamente, ficcandogli rispettosamente gli occhi negli occhi; e ringraziai il cielo di non mi aver fatto nascer suo schiavo. Uscii di quella universal caserma prussiana verso il mezzo novembre, abborrendola quanto bisognava.

Partito alla volta di Amburgo, dopo tre giorni di dimora, ne ripartii per la Danimarca. Giunto a Copenhaguen ai primi di decembre, quel paese mi piacque bastantemente, perché mostrava una certa somiglianza coll'Olanda; ed anche v'era una certa attività, commercio, ed industria, come non si sogliono vedere nei governi pretti monarchici: cose tutte, dalle quali ne ridonda un certo ben essere universale, che a primo aspetto previene chi arriva, e fa un tacito elogio di chi vi comanda; cose tutte, di cui neppur una se ne vede negli stati prussiani; benché il gran Federico vi comandasse alle lettere e all'arti e alla prosperità, di fiorire sotto l'uggia sua. Onde la principal ragione per cui non mi dispiacea Copenhaguen si era il non esser BerlinoPrussia; paese, di cui niun altro mi ha lasciato una piú spiacevole e dolorosa impressione, ancorché vi siano, in Berlino massimamente, molte cose belle e grandiose in architettura. Ma quei perpetui soldati, non li posso neppur ora, tanti anni dopo, ingoiare senza sentirmi rinnovare lo stesso furore che la loro vista mi cagionava in quel punto.

In quell'inverno mi rimisi alcun poco a cinguettare italiano con il ministro di Napoli in Danimarca, che si trovava essere pisano; il conte Catanti, cognato del celebre primo ministro in Napoli, marchese Tanucci, già professore nell'Università pisana. Mi dilettava molto il parlare e la pronunzia toscana, massimamente paragonandola col piagnisteo nasale e gutturale del dialetto danese che mi toccava di udire per forza, ma senza intenderlo, la Dio grazia. Io malamente mi spiegava col prefato conte Catanti, quanto alla proprietà dei termini, e alla brevità ed efficacia delle frasi, che è somma nei toscani; ma quanto alla pronunzia di quelle mie parole barbare italianizzate, ell'era bastantemente pura e toscana; stante che io deridendo sempre tutte le altre pronunzie italiane, che veramente mi offendeano l'udito, mi ero avvezzo a pronunziar quanto meglio poteva e la u, e la z, e gi, e ci, ed ogni altra toscanità. Onde alquanto inanimito dal suddetto conte Catanti a non trascurare una bella lingua, e che era pure la mia, dacché di essere io francese non acconsentiva a niun modo, mi rimisi a leggere alcuni libri italiani. Lessi, tra' molti altri, i Dialoghi dell'Aretino, i quali benché mi ripugnassero per le oscenità, mi rapivano pure per l'originalità, varietà, e proprietà dell'espressioni. E mi baloccava cosí a leggere, perché in quell'inverno mi toccò di star molto in casa ed anche a letto, atteso i replicati incomoducci che mi sopravvennero per aver troppo sfuggito l'amore sentimentale. Ripigliai anche con piacere a rileggere per la terza e quarta volta il Plutarco; e sempre il Montaigne; onde il mio capo era una strana mistura di filosofia, di politica, e di discoleria. Quando gl'incomodi mi permetteano d'andar fuori, uno dei maggiori miei divertimenti in quel clima boreale era l'andare in slitta; velocità poetica, che molto mi agitava e dilettava la non men celebre fantasia.

Verso il fin di marzo partii per la Svezia; e benché io trovassi il passo del Sund affatto libero dai ghiacci, indi la Scania libera dalla neve; tosto ch'ebbi oltrepassato la città di Norkoping, ritrovai di bel nuovo un ferocissimo inverno, e tante braccia di neve, e tutti i laghi rappresi, a segno che non potendo piú proseguire colle ruote, fui costretto di smontare il legno e adattarlo come ivi s'usa sopra due slitte; e cosí arrivai a Stockolm. La novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi, e dirupi, moltissimo mi trasportavano; e benché non avessi mai letto l'Ossian, molte di quelle sue immagini mi si destavano ruvidamente scolpite, e quali le ritrovai poi descritte allorché piú anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti.

La Svezia locale, ed anche i suoi abitatori d'ogni classe, mi andavano molto a genio; o sia perché io mi diletto molto piú degli estremi, o altro sia ch'io non saprei dire; ma fatto si è, che s'io mi eleggessi di vivere nel settentrione, preferirei quella estrema parte a tutte l'altre a me cognite. La forma del governo della Svezia, rimestata ed equilibrata in un certo tal qual modo che pure una semilibertà vi trasparisce, mi destò qualche curiosità di conoscerla a fondo. Ma incapace poi di ogni seria e continuata applicazione, non la studiai che alla grossa. Ne intesi pure abbastanza per formare nel mio capino un'idea: che stante la povertà delle quattro classi votanti, e l'estrema corruzione della classe dei nobili e di quella dei cittadini, donde nasceano le venali influenze dei due corruttori paganti, la Russia e la Francia, non vi potea allignareconcordia fra gli ordini, né efficacità di determinazioni, né giusta e durevole libertà. Continuai il divertimento della slitta con furore, per quelle cupe selvone, e su quei lagoni crostati, fino oltre ai 20 di aprile; ed allora in soli quattro giorni con una rapidità incredibile seguiva il dimoiare d'ogni qualunque gelo, attesa la lunga permanenza del sole su l'orizzonte, e l'efficacia dei venti marittimi; e allo sparir delle nevi accatastate forse in dieci strati l'una su l'altra, compariva la fresca verdura; spettacolo veramente bizzarro, e che mi sarebbe riuscito poetico se avessi saputo far versi.

 

 

 




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