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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO UNDECIMO

Disinganno orribile.

 

Ecco intanto a puntino come erano veramente accadute le cose del giorno dianzi. Il fidato mio Elia, avendo veduto arrivare quel messaggiero col cavallo fradicio di sudore e trafelatissimo, e che tanto e poi tanto gli avea raccomandato di farmi avere immediatamente quella lettera, era subito uscito per rintracciarmi; e cercatomi prima dal principe di Masserano dove mi credeva esser ito, poi dal Caraccioli, che abitavano a piú miglia di distanza, avea cosí consumato piú ore; finalmente riaccostandosi verso casa mia che era in Suffolk street, vicinissima all'Haymarket dov'è il Teatro dell'Opera Italiana, gli venne in capo di veder se io ci fossi; benché non lo credesse, atteso che avea tuttora il braccio slogato fasciato al collo. Appena entrato egli al teatro, e chiesto di me a que' custodi dei palchi che benissimo mi conoscevano, gli fu detto che un dieci minuti prima era uscito con tal persona, che era venuta a cercarmi espressamente nel palco dov'io era. Elia sapeva benissimo (benché non lo sapesse da me) quel mio disperato amore; onde udito appena il nome della persona che mi era venuta cercare, e combinato la lettera di donde veniva, subito entrò in chiaro di ogni cosa. Allora Elia, sapendo benissimo quanto mal destro spadaccino io mi fossi, ed inoltre vedendomi impedito il braccio sinistro, mi reputò anch'egli certamente per un uomo morto; e subito corse al Parco San Giacomo, ma non essendosi rivolto verso il Greenpark, non ci rinvenne; intanto annottò; ed egli fu costretto di uscir del parco, come ogni altra persona. Non sapendo che si fare per venir in chiaro della mia sorte, si avviò verso la casa del marito, credendo quivi poter raccapezzare qualcosa; e forse avendo egli azzeccato cavalli migliori al suo fiacre, che non erano stati quelli del marito; o che questi forse in quel frattempo fosse andato in qualch'altro luogo; fatto si è, che Elia si combinò di arrivar egli nel suo fiacre vicino alla porta del marito, nel punto istesso in cui esso marito era giunto a casa sua; e l'avea benissimo veduto ritornare colla spada, e slanciarsi in casa, e far chiuder la porta subito, ed in aspetto e modi molto turbati. Sempre piú si confermò Elia nel sospetto ch'egli m'avesse ucciso, e non potendo piú far altro, era corso dal Caraccioli, e gli avea dato conto di quanto sapeva, e di quel che temeva.

Io dunque, dopo una penosa giornata, rinfrancato da molte ore di placidissimo sonno, rimedicate alle meglio le mie due ferite, di cui quella della spalla mi dolea piú che mai, e l'altra sempre meno, subito corsi dalla mia donna, e vi passai tutto intero quel giorno. Per via dei servitori si andava sentendo quello che faceva il marito, la di cui casa, come dissi, era assai vicina di quella della cognata, dove abitava per allora la mia donna. E benché io riputassi in me stesso ogni nostro guai terminato col prossimo divorzio; e ancorché il padre di lei (persona a me già notissima da piú anni) fosse venuto in quel giorno del mercoledí a veder la figlia, e nella di lei disgrazia si congratulasse pur seco, che almeno ad uom degno (cosí volle dire) le toccasse di riunirsi in un secondo matrimonio; con tutto ciò io scorgeva una foltissima nube su la bellissima fronte della mia donna, che un qualche sinistro mi vi parea presagire. Ed ella, sempre piangente, e sempre protestandomi che mi amava piú d'ogni cosa; che lo scandalo dell'avvenimento suo e il disonore che glie ne ridondava nella di lei patria, le venivano largamente compensati s'ella potea pur vivere per sempre con me; ma ch'ella era piú che certa che io non l'avrei mai presa per moglie mia. Questa sua perseverante e stranissima asserzione mi disperava veramente; e sapendo io benissimo ch'ella non mi reputavamentitoresimulato, non poteva assolutamente intendere questa sua diffidenza di me. In queste funeste perplessità, che purtroppo turbavano ed annichilivano ogni mia soddisfazione del vederla liberamente dalla mattina alla sera; ed inoltre fra le angustie d'un processo già intavolato ed assai spiacente per chiunque abbia onore e pudore; cosí si passarono i tre giorni dal mercoledí a tutto il venerdí, finché il venerdí sera insistendo io fortemente per estrarre dalla mia donna una qualche piú luce nell'orrido enimma dei di lei discorsi, delle sue malinconie, e diffidenze; finalmente con grave e lungo stento, previo un doloroso proemio interrotto da sospiri e singhiozzi amarissimi, ella mi veniva dicendo che sapea purtroppo non poter essere in conto nessuno omai degna di me; e che io non la dovea né poteva né vorrei sposar mai... perché già prima... di amar me... ella avea amato... «E chi mai?» soggiungeva io interrompendo con impeto. «Un jockey» (cioè un palafreniere) «che stava... in casa... di mio marito.» «Ci stava? e quando? Oh Dio, mi sento morire! Ma perché dirmi tal cosa? crudel donna; meglio era uccidermi.» Qui mi interrompe ancor essa; e a poco a poco alla per fine esce l'intera confessione sozzissima di quel brutto suo amore; di cui sentendo io le dolorose incredibili particolarità, gelido, immobile, insensato mi rimango qual pietra. Quel mio degnissimo rival precursore stava tuttavia in casa del marito in quel punto in cui si parlava; egli era stato quello che avea primo spiato gli andamenti della amante padrona; egli avea scoperto la mia prima gita in villa, e il cavallo lasciato tutta notte nell'albergo di campagna; ed egli con altri di casa, mi avea poi visto e conosciuto nella seconda gita fatta in villa la domenica sera. Egli finalmente, udito il duello del marito con me, e la disperazione di esso di dover far divorzio con una donna ch'egli mostrava amar tanto, si era indotto nel giorno del giovedí a farsi introdurre presso al padrone, e per disingannar lui, vendicar sé stesso, e punire la infida donna e il nuovo rivale, quell'amante palafreniere avea spiattellatamente confessato e individuato tutta la storia de' suoi triennali amori con la padrona, ed esortato avea caldamente il padrone a non si disperar piú a lungo per aver perduta una tal moglie, il che si dovea anzi recare a ventura. Queste orribili e crudeli particolarità, le seppi dopo; da essa non seppi altro che il fatto, e menomato quanto piú si potea.

Il mio dolore e furore, le diverse mie risoluzioni, e tutte false e tutte funeste e tutte vanissime ch'io andai quella sera facendo e disfacendo, e bestemmiando, e gemendo, e ruggendo, ed in mezzo a tant'ira e dolore amando pur sempre perdutamente un cosí indegno oggetto; non si possono tutti questi affetti ritrarre con parole: ed ancora vent'anni dopo mi sento ribollire il sangue pensandovi.

La lasciai quella sera, dicendole: ch'ella troppo bene mi conosceva nell'avermi detto e replicato spesso che io non l'avrei mai fatta mia moglie; e che se io mai fossi venuto in chiaro di tale infamia dopo averla sposata, l'avrei certamente uccisa di mia mano, e me stesso forse sovr'essa, se pure l'avessi ancor tanto amata in quel punto, quanto purtroppo in questo l'amava. Aggiunsi che io pure la dispregiava un po' meno, per l'aver essa avuto la lealtà e il coraggio di confessarmi spontaneamente tal cosa; che non l'abbandonerei mai come amico, e che in qualunque ignorata parte d'Europa o d'America io era pronto ad andare con essa e conviverci, purch'essa non mi fosseparesse mai d'esser moglie.

Cosí lasciatala il venerdí sera, agitato da mille furie alzatomi all'alba del sabato, e vistomi sul tavolino uno di quei tanti foglioni pubblici che usano in Londra, vi slancio cosí a caso i miei occhi, e la prima cosa che mi vi capita sotto è il mio nome. Gli spalanco, leggo un ben lunghetto articolo, in cui tutto il mio accidente è narrato, individuato minutamente e con verità, e vi imparo di piú le funeste e risibili particolarità del rivale palafreniere, di cui leggo il nome, l'età, la figura, e l'ampissima confessione da lui stesso fatta al padrone. Io ebbi a cader morto ad una tal lettura; ed allora soltanto riacquistando la luce della mente, mi avvidi e toccai con mano, che la perfida donna mi avea spontaneamente confessato ogni cosa dopo che il gazzettiere, in data del venerdí mattina, l'avea confessata egli al pubblico. Perdei allora ogni freno e misura, corsi a casa sua, dove dopo averla invettivata con tutte le piú amare furibonde e spregianti espressioni, miste sempre di amore, di dolor mortalissimo, e di disperati partiti, ebbi pure la vile debolezza di ritornarvi qualche ore dopo averle giurato ch'ella non mi rivedrebbe mai piú. E tornatovi, mi vi trattenni tutto quel giorno; e vi tornai il susseguente, e piú altri, finché risolvendosi essa di uscir d'Inghilterra, dove ell'era divenuta la favola di tutti, e di andare in Francia a porsi per alcun tempo in un monastero, io l'accompagnai, e si errò intanto per varie provincie dell'Inghilterra per prolungare di stare insieme, fremendo io e bestemmiando dell'esservi, e non me ne potendo pure a niun conto separare. Colto finalmente un istante in cui poté piú la vergogna e lo sdegno che l'amore, la lasciai in Rochester, di dove essa con quella di lei cognata si avviò per Douvres in Francia, ed io me ne tornai a Londra.

Giungendovi seppi che il marito avea proseguito il processo divorziale in mio nome, e che in ciò mi avea accordata la preferenza sul nostro triumviro terzo, il proprio palafreniere, che anzi gli stava ancora in servizio, tanto è veramente generosa ed evangelica la gelosia degli inglesi. Ma ed io pure mi debbo non poco lodare del procedere di quell'offeso marito. Non mi volle uccidere, potendolo verisimilmente fare; né mi volle multare in danari, come portano le leggi di quel paese, dove ogni offesa ha la sua tariffa, e le corna ve l'hanno altissima; a segno che s'egli in vece di farmi cacciare la spada mi avesse voluto far cacciar la borsa, mi avrebbe impoverito o dissestato di molto; perché tassandosi l'indennità in proporzione del danno, egli l'avea ricevuto grave, atteso l'amore sviscerato ch'egli portava alla moglie, ed atteso anche l'aggiunta del danno recatogli dal palafreniere, che per essere nullatenente non glie l'avrebbe potuto ristorare, ch'io tengo per fermo che a recarla a zecchini io non ne sarei potuto uscir netto a meno di dieci o dodici mila zecchini, e forse anche piú. Quel bennato e moderato giovine si comportò dunque meco in questo sgradevole affare assai meglio ch'io non avea meritato. E proseguitosi in mio nome il processo, la cosa essendo troppo palpabile dai molti testimoni, e dalle confessioni dei diversi personaggi, senza neppure il mio intervento, né il menomo impedimento alla mia partenza dall'Inghilterra, seppi poi dopo ch'era stato ratificato il totale divorzio.

Indiscretamente forse, ma pure a bell'apposta ho voluto sminuzzare in tutti i suoi amminicoli questo straordinario e per me importante accidente, perché se ne fece gran rumore in quel tempo, perché essendo stata questa una delle principali occasioni in cui mi è venuto fatto di ben conoscere e porre alla prova diversamente me stesso, mi è sembrato che analizzandolo con verità e minutezza verrei anche a dar luogo a chi volesse piú intimamente conoscermi, di ritrovarne in questo fatto un ampissimo mezzo.

 

 

 




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