Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CAPITOLO DECIMOTERZO

Poco dopo essere rimpatriato, incappo nella terza rete amorosa. Primi tentativi di poesia.

 

Ma benché agli occhi dei piú, ed anche ai miei, nessun buon frutto avessi riportato da quei cinque anni di viaggi, mi si erano con tutto ciò assai allargate le idee, e rettificato non poco il pensare; talché, quando il mio cognato mi volle riparlare d'impieghi diplomatici che avrei dovuto sollecitare, io gli risposi: che avendo veduti un pochino piú da presso ed i re, e coloro che li rappresentano, e non li potendo stimare un iota nessuni, io non avrei voluto rappresentarne né anche il Gran Mogol, non che prendessi mai a rappresentare il piú piccolo di tutti i re dell'Europa, qual era il nostro; e che non rimaneva altro compenso a chi si trovava nato in simili paesi, se non se di camparvi del suo, avendovelo, e d'impiegarsi da sé in una qualche lodevole occupazione sotto gli auspici favorevolissimi sempre della beata indipendenza. Questi miei detti fecero torcere moltissimo il muso a quell'ottimo uomo che trovavasi essere uno dei gentiluomini di camera del re; né mai piú avendomi egli parlato di ciò, io pure sempre piú mi confermai nel mio proposito.

Io mi trovava allora in età di ventitré anni; bastantemente ricco, pel mio paese; libero, quanto vi si può essere; esperto, benché cosí alla peggio, delle cose morali e politiche, per aver veduti successivamente tanti diversi paesi e tanti uomini; pensatore, piú assai che non lo comportasse quell'età; e presumente anche piú che ignorante. Con questi dati mi rimaneano necessariamente da farsi molti altri errori, prima che dovessi pur ritrovare un qualche lodevole ed utile sfogo al bollore del mio impetuoso intollerante e superbo carattere.

In fine di quell'anno del mio ripatriamento, provvistomi in Torino una magnifica casa posta su la piazza bellissima di San Carlo, e ammobigliatala con lusso e gusto e singolarità, mi posi a far vita di gaudente con gli amici, che allora me ne ritrovai averne a dovizia. Gli antichi miei compagni d'Accademia, e di tutte quelle prime scappataggini di gioventú, furono di nuovo i miei intimi; e tra quelli, forse un dodici e piú persone, stringendoci piú assiduamente insieme, venimmo a stabilire una società permanente, con admissione od esclusiva ad essa per via di voti, e regole, e buffonerie diverse, che poteano forse somigliare, ma non erano però, Libera Muratoreria. Né di tal società altro fine ci proponevamo, fuorché divertirci, cenando spesso insieme (senza però nessunissimo scandalo); e del resto nell'adunanze periodiche settimanali la sera, ragionando o sragionando sovra ogni cosa. Tenevansi queste auguste sessioni in casa mia, perché era e piú bella e piú spaziosa di quelle dei compagni, e perché essendovi io solo si rimanea piú liberi. C'era fra questi giovani (che tutti erano ben nati e dei primari della città) un po' d'ogni cosa; dei ricchi e dei poveri, dei buoni, dei cattivucci, e degli ottimi, degli ingegnosi, degli sciocchetti, e dei colti; onde da fatta mistura, che il caso la somministrò ottimamente temperata, risultava che io né vi potea, né avrei voluto potendolo, primeggiare in niun modo, ancorché avessi veduto piú cose di loro. Quindi le leggi che vi si stabilirono furono discusse e non già dettate; e riuscirono imparziali, egualissime, e giuste; a segno che un corpo di persone come eramo noi, tanto potea fondare una ben equilibrata repubblica, come una ben equilibrata buffoneria. La sorte e le circostanze vollero che si fabbricasse piuttosto questa che quella. Si era stabilito un ceppo assai ben capace, dalla di cui spaccatura superiore vi si introducevano scritti d'ogni specie, da leggersi poi dal presidente nostro elettivo ebdomadario, il quale tenea di esso ceppo la chiave. Fra quegli scritti se ne sentivano talvolta alcuni assai divertenti e bizzarri; se ne indovinavano per lo piú gli autori, ma non portavano nome. Per nostra comune e piú mia particolare sventura, quegli scritti erano tutti in (non dirò lingua), ma in parole francesi. Io ebbi la sorte d'introdurre varie carte nel ceppo, le quali divertirono assai la brigata; ed erano cose facete miste di filosofia e d'impertinenza, scritte in un francese che dovea essere almeno non buono, se pure non pessimo, ma riuscivano pure intelligibili e passabili per un uditorio che non era piú dotto di me in quella lingua. E fra gli altri, uno ne introdussi, e tuttavia lo conservo, che fingeva la scena di un Giudizio Universale, in cui Dio domandando alle diverse anime un pieno conto di sé stesse, ci aveva rappresentate diverse persone che dipingevano i loro propri caratteri; e questo ebbe molto incontro perché era fatto con un qualche sale, e molta verità; talché le allusioni, e i ritratti vivissimi e lieti e variati di molti uomini che donne della nostra città, venivano riconosciuti e nominati immediatamente da tutto l'uditorio.

Questo piccolo saggio del mio poter mettere in carta le mie idee quali ch'elle fossero, e di potere, nel farlo, un qualche diletto recare ad altrui, mi andò poi di tempo in tempo saettando un qualche lampo confuso di desiderio e di speranza di scrivere quando che fosse qualcosa che potesse aver vita; ma non mi sapeva neppur io quale potrebbe mai essere la materia, vedendomi sprovvisto di quasi tutti i mezzi. Per natura mia prima prima, a nessuna altra cosa inclinava quanto alla satira, ed all'appiccicare il ridicolo alle cose che alle persone. Ma pure poi riflettendo e pensando, ancorché mi vi paresse dovervi aver forse qualche destrezza, non apprezzava io nell'intimo del cuore gran fatto questo fallace genere; il di cui buon esito, spesso momentaneo, è posto e radicato assai piú nella malignità e invidia naturale degli uomini, gongolanti sempre allorché vedono mordere i loro simili, che non nel merito intrinseco del morditore.

Intanto per allora la divagazione somma e continua, la libertà totale, le donne, i miei ventiquattro anni, e i cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e piú, tutti questi ostacoli potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od assopivano in me ogni qualunque velleità di divenire autore. Vegetando io dunque cosí in questa vita giovenile oziosissima, non avendo mai un istante quasi di mio, né mai aprendo piú un libro di sorte nessuna, incappai (come ben dovea essere) di bel nuovo in un tristo amore; dal quale poi dopo infinite angosce, vergogne, e dolori, ne uscii finalmente col vero, fortissimo, e frenetico amore del sapere e del fare, il quale d'allora in poi non mi abbandonò mai piú; e che, se non altro, mi ha una volta sottratto dagli orrori della noia, della sazietà, e dell'ozio; e dirò piú, dalla disperazione; verso la quale a poco a poco io mi sentiva strascinare talmente, che se non mi fossi ingolfato poi in una continua e caldissima occupazione di mente, non v'era certamente per me nessun altro compenso che mi potesse impedire prima dei trent'anni dall'impazzire o affogarmi.

Questa mia terza ebrezza d'amore fu veramente sconcia, e pur troppo lungamente anche durò. Era la mia nuova fiamma una donna, distinta di nascita, ma di non troppo buon nome nel mondo galante, ed anche attempatetta; cioè maggiore di me di circa nove in dieci anni. Una passeggiera amicizia era già stata tra noi, al mio primo uscire nel mondo, quando ancora era nel Primo Appartamento dell'Accademia. Sei e piú anni dopo, il trovarmi alloggiato di faccia a lei, il vedermi da essa festeggiato moltissimo; il non far nulla; e l'esser io forse una di quelle anime di cui dice, con tanta verità ed affetto, il Petrarca:

 

So di che poco canape si allaccia

un'anima gentil, quand'ella è sola,

e non è chi per lei difesa faccia;

 

ed in somma il mio buon padre Apollo che forse per tal via straordinaria mi volea chiamare a sé; fatto si è, ch'io, benché da principio non l'amassi, né mai poi la stimassi, e neppure molto la di lei bellezza non ordinaria mi andasse a genio; con tutto ciò credendo come un mentecatto al di lei immenso amore per me, a poco a poco l'amai davvero, e mi c'ingolfai sino agli occhi. Non vi fu piú per me né divertimenti, né amici; perfino gli adorati cavalli furono da me trascurati. Dalla mattina all'otto fino alle dodici della sera eternamente seco, scontento dell'esserci, e non potendo pure non esserci; bizzarro e tormentosissimo stato, in cui vissi non ostante (o vegetai, per dir meglio) da circa il mezzo dell'anno 1773 sino a tutto il febbraio del '75; senza contar poi la coda di questa per me fatale e ad un tempo fausta cometa.

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License