Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CAPITOLO DECIMOQUARTO

Malattia e ravvedimento.

 

Nel lungo tempo che durò questa pratica, arrabbiando io dalla mattina alla sera, facilmente mi alterai la salute. Ed in fatti nel fine del '73 ebbi una malattia non lunga, ma fierissima, e straordinaria a segno che i maligni begl'ingegni, di cui Torino non manca, dissero argutamente ch'io l'avea inventata esclusivamente per me. Cominciò con lo dar di stomaco per ben trentasei ore continue, in cui non v'essendo piú neppur umido da rigettare, si era risoluto il vomito in un singhiozzo sforzoso, con una orribile convulsione del diaframma che neppur l'acqua in piccolissimi sorsi mi permettea d'ingoiare. I medici, temendo l'infiammazione, mi cacciarono sangue dal piede, e immediatamente cessò lo sforzo di quel vomito asciutto, ma mi si impossessò una tal convulsione universale, e subsultazione dei nervi tutti, che a scosse terribili ora andava percuotendo il capo della testiera del letto, se non me lo teneano, ora le mani e massimamente i gomiti, contro qualunque cosa vi fosse stata aderente. Né alcunissimo nutrimento, o bevanda, per nessuna via mi si poteva far prendere, perché all'avvicinarsi o vaso o istromento qualunque a qualunque orifizio, prima anche di toccare la parte era tale lo scatto cagionato dai subsulti nervosi, che nessuna forza valeva a impedirli; anzi, se mi voleano tener fermo con violenza era assai peggio, ed io ammalato dopo anche quattro giorni di totale digiuno, estenuato di forze, conservava però un tale orgasmo di muscoli, che mi venivano fatti allora degli sforzi che non avrei mai potuti fare essendo in piena salute. In questo modo passai cinque giorni interi in cui non mi vennero inghiottiti forse venti o trenta sorsetti di acqua presi cosí a contrattempo di volo, e spesso immediatamente rigettati. Finalmente nel sesto la convulsione allentò, mediante le cinque o le sei ore il giorno che fui tenuto in un bagno caldissimo di mezz'olio e mezz'acqua. Riapertasi la via dell'esofago, in pochi giorni col bere moltissimo siere fui risanato. La lunghezza del digiuno e gli sforzi del vomito erano stati tali, che nella forcina dello stomaco, fra quei due ossucci che la compongono, vi si formò un tal vuoto, che un uovo di mezzana grandezza vi potea capire; né mai poi mi si ripianò come prima. La rabbia, la vergogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere quell'indegno amore, mi aveano cagionata quella singolar malattia. Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne. Nel quinto giorno del male, quando piú si temeva dai medici che non ne ritornerei, mi fu messo intorno un degno cavaliere mio amico, ma assai piú vecchio di me, per indurmi a ciò che il suo viso e i preamboli del suo dire mi fecero indovinare prima ch'egli parlasse; cioè a confessarmi e testare. Lo prevenni, col domandar l'uno e l'altro, né questo mi sturbò punto l'animo. In due o tre aspetti mi occorse di rimirare ben in faccia la morte nella mia gioventú; e mi pare di averla ricevuta sempre con lo stesso contegno. Chi sa poi, se quando ella mi si riaffaccerà irremissibile io nello stesso modo la riceverò. Bisogna veramente che l'uomo muoia, perché altri possa appurare, ed ei stesso, il di lui giusto valore.

Risorto da quella malattia, ripigliai tristamente le mie catene amorose. Ma per levarmene pure qualcun'altra d'addosso, non volli piú lungamente godermi i lacci militari, che sommamente mi erano sempre dispiaciuti, abborrendo io quell'infame mestiere dell'armi sotto un'autorità assoluta qual ch'ella sia; cosa, che sempre esclude il sacrosanto nome di patria. Non negherò pure, che in quel punto la mia Venere non fosse piú assai per me opprobriosa che non era il mio Marte. In somma fui dal colonnello, e allegando la salute domandai dimissione dal servizio, che non avea a dir vero prestato mai; poiché in circa ott'anni che portai l'uniforme, cinque li avea passati fuor del paese; e nei tre altri appena cinque riviste avea passate, che due l'anno se ne passavano sole in quei reggimenti di Milizie Provinciali in cui avea preso servizio. Il colonnello volle ch'io ci pensassi dell'altro prima di chiedere per me codesta dimissione; accettai per civiltà il suo invito e simulando di avervi pensato altri quindici giorni, la ridomandai piú fermamente e l'ottenni.

Io frattanto strascinava i miei giorni nel serventismo, vergognoso di me stesso, noioso e annoiato, sfuggendo ogni mio conoscente ed amico, sui di cui visi io benissimo leggeva tacitamente scolpita la mia opprobriosa dabenaggine. Avvenne poi nel gennaio del 1774, che quella mia signora si ammalò di un male di cui forse poteva esser io la cagione, benché non intieramente il credessi. E richiedendo il suo male ch'ella stesse in totale riposo e silenzio, fedelmente io le stava a piè del letto seduto per servirla; e ci stava dalla mattina alla sera, senza pure aprir bocca per non le nuocere col farla parlare. In una di queste poco, certo, divertenti sedute, io mosso dal tedio, dato di piglio a cinque o sei fogli di carta che mi caddero sotto mano, cominciai cosí a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una scena di una non so come chiamarla, se tragedia, o commedia, se d'un sol atto, o di cinque, o di dieci; ma insomma delle parole a guisa di dialogo, e a guisa di versi, tra un Photino, una donna, ed una Cleopatra, che poi sopravveniva dopo un lunghetto parlare fra codesti due prima nominati. Ed a quella donna, dovendole pur dare un nome, né altro sovvenendomene, appiccicai quel di Lachesi, senza pur ricordarmi ch'ella delle tre Parche era l'una. E mi pare, ora esaminandola, tanto piú strana quella mia subitanea impresa, quanto da circa sei e piú anni io non avea mai piú scritto una parola italiana, pochissimo e assai di rado e con lunghissime interruzioni ne avea letto. Eppure cosí in un subito, né saprei dire né come né perché, mi accinsi a stendere quelle scene in lingua italiana ed in verso. Ma, affinché il lettore possa giudicar da sé stesso della scarsezza del mio patrimonio poetico in quel tempo, trascriverò qui in fondo di pagina a guisa di nota1 un bastante squarcio di codesta composizione, e fedelissimamente lo trascriverò dall'originale che tuttavia conservo, con tutti gli spropositi perfino di ortografia con cui fu scritto: e spero, che se non altro questi versi potranno far ridere chi vorrà dar loro un'occhiata, come vanno facendo ridere me nell'atto del trascriverli; e principalmente la scena fra Cleopatra e Photino. Aggiungerò una particolarità, ed è: che nessun'altra ragione in quel primo istante ch'io cominciai a imbrattar que' fogli mi indusse a far parlare Cleopatra piuttosto che Berenice, o Zenobia, o qualunque altra regina tragediabile, fuorché l'esser io avvezzo da mesi ed anni a vedere nell'anticamera di quella signora alcuni bellissimi arazzi, che rappresentavano vari fatti di Cleopatra e d'Antonio.

Guarí poi la mia signora di codesta sua indisposizione; ed io senza mai piú pensare a questa mia sceneggiatura risibile, la depositai sotto un cuscino della di lei poltroncina, dove ella si stette obbliata circa un anno; e cosí furono frattanto, dalla signora che vi si sedeva abitualmente, si da qualunque altri a caso vi si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie.

Ma, trovandomi vie piú sempre tediato ed arrabbiato di far quella vita serventesca, nel maggio di quello stesso anno '74, presi subitamente la determinazione di partire per Roma, a provare se il viaggio e la lontananza mi guarirebbero di quella morbosa passione. Afferrai l'occasione d'una acerba disputa avuta con la mia signora (e queste non erano rare), e senza dir altro, tornato la sera a casa mia, nel giorno consecutivo feci tutte le mie disposizioni, e passato tutto quell'intero giorno senza capitar da lei, la mattina dopo per tempissimo me ne partii alla volta di Milano. Essa non lo seppe che la sera prima (credo il sapesse da qualcuno di casa mia), e subito quella sera stessa al tardi mi rimandò, come è d'uso, e lettere e ritratto. Quest'invio già principiò a guastarmi la testa, e la mia risoluzione già tentennava. Tuttavia, fattomi buon animo, mi avviai, come dissi, per le poste verso Milano. Giunto la sera a Novara, saettato tutto il giorno da quella sguaiatissima passione, ecco che il pentimento, il dolore e la viltà mi muovono un feroce assalto al cuore, che fattasi omai vana ogni ragione, sordo al vero, repentinamente mi cangio. Fo proseguire verso Milano un abate francese ch'io m'era preso per compagno, con la carrozza e i miei servi, dicendo loro di aspettarmi in Milano. In tanto, io soletto, sei ore innanzi giorno salto a cavallo col postiglione per guida, corro tutta la notte, e il giorno poi di buon'ora mi ritrovo un'altra volta a Torino; ma per non mi vi far vedere, e non esser la favola di tutti, non entro in città; mi soffermo in un'osteriaccia del sobborgo, e di supplichevolmente scrivo alla mia signora adirata, perch'ella mi perdoni questa scappata, e mi voglia accordare un po' d'udienza. Ricevo tostamente risposta. Elia, che era rimasto in Torino per badare alle cose mie durante il mio viaggio che dovea esser d'un anno; Elia, destinato sempre a medicare, o palliar le mie piaghe, mi riporta quella risposta. L'udienza mi vien accordata, entro in città, come profugo, su l'imbrunir della notte; ottengo il mio intero vergognoso perdono, riparto all'alba consecutiva verso Milano, rimasti d'accordo fra noi due che in capo di cinque o sei settimane sotto pretesto di salute me ne ritornerei in Torino. Ed io in tal guisa palleggiato a vicenda tra la ragione e l'insania, appena firmata la pace, trovandomi di bel nuovo soletto su la strada maestra fra i miei pensamenti, fieramente mi sentiva riassalito dalla vergogna di tanta mia debolezza. Cosí arrivai a Milano lacerato da questi rimorsi in uno stato compassionevole ad un tempo e risibile. Io non sapeva allora, ma provava per esperienza quel profondo ed elegante bel detto del nostro maestro d'amore, il Petrarca:

 

Che chi discerne è vinto da chi vuole.

 

Due giorni appena mi trattenni in Milano, sempre fantasticando, ora come potrei abbreviare quel maledetto viaggio, ed ora, come lo potrei far durare senza tener parola del ritorno; che libero avrei voluto trovarmi, ma liberarmi non sapea, né potea. Ma, non trovando mai un po' di pace se non se nel moto e divagazione del correr la posta, rapidamente per Parma, Modena, e Bologna mi rendei a Firenze; dove né pure potendomi trattener piú di due giorni, subito ripartii per Pisa e Livorno. Quivi poi ricevute le prime lettere della mia signora, non potendo piú durare lontano, ripartii subito per la via di Lerici e Genova, dove lasciatovi l'abate compagno, e il legno da risarcirsi, a spron battuto a cavallo me ne ritornai a Torino, diciotto giorni dopo esserne partito per fare il viaggio d'un anno. C'entrai anche di notte per non farmi canzonar dalla gente. Viaggio veramente burlesco, che pure mi costò dei gran pianti.

Sotto l'usbergo (non del sentirmi puro) ma del mio viso serio e marmoreo, scansai le canzonature dei miei conoscenti ed amici, che non si attentarono di darmi il ben tornato. Ed in fatti, troppo era mal tornato; e divenuto oramai disprezzabilissimo agli stessi occhi miei, io caddi in un tale avvilimento e malinconia, che se un tale stato fosse lungamente durato, avrei dovuto o impazzire, o scoppiare; come in fatti venni assai presso all'uno ed all'altro.

Ma pure strascinai quelle vili catene ancora dal finir di giugno del '74, epoca del mio ritorno di quel semiviaggio, sino al gennaio del '75, quando alla per fine il bollore della mia compressa rabbia giunto all'estremo scoppiò.

 

 

 




1 Vedi appendice prima.






Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License