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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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Epoca quarta

 

VIRILITÀ

Abbraccia trenta piú anni di composizioni, traduzioni, e studi diversi.

 

CAPITOLO PRIMO

Ideate, e stese in prosa francese le due prime tragedie il Filippo, e il Polinice. Intanto un diluvio di pessime rime.

 

Eccomi ora dunque, sendo in età di quasi anni venzette, entrando nel duro impegno e col pubblico e con me stesso, di farmi autor tragico. Per sostenere una fatta temerità, ecco quali erano per allora i miei capitali.

Un animo risoluto, ostinatissimo, ed indomito; un cuore ripieno ridondante di affetti di ogni specie tra' quali predominavano con bizzarra mistura l'amore e tutte le sue furie, ed una profonda ferocissima rabbia ed abborrimento contra ogni qualsivoglia tirannide. Aggiungevasi poi a questo semplice istinto della natura mia, una debolissima ed incerta ricordanza delle varie tragedie francesi da me viste in teatro molti anni addietro; che debbo dir per il vero, che fin allora lette non ne avea mai nessuna, non che meditata; aggiungevasi una quasi totale ignoranza delle regole dell'arte tragica, e l'imperizia quasi che totale (come può aver osservato il lettore negli addotti squarci) della divina e necessarissima arte del bene scrivere e padroneggiare la mia propria lingua. Il tutto poi si ravviluppava nell'indurita scorza di una presunzione, o per dir meglio, petulanza incredibile, e di un tale impeto di carattere, che non mi lasciava, se non se a stento e di rado e fremendo, conoscere, investigare, ed ascoltare la verità. Capitali, come ben vede il lettore, piú adatti assai per estrarne un cattivo e volgare principe, che non un autor luminoso.

Ma pure una tale segreta voce mi si facea udire in fondo del cuore, ammonendomi in suono anche piú energico che nol faceano i miei pochi veri amici: «E' ti convien di necessità retrocedere, e per cosí dir, rimbambire, studiando ex professo da capo la grammatica, e susseguentemente tutto quel che ci vuole per saper scrivere correttamente e con arte». E tanto gridò questa voce, ch'io finalmente mi persuasi, e chinai il capo e le spalle. Cosa oltre ogni dire dolorosa e mortificante, nell'età in cui mi trovava, pensando e sentendo come uomo, di dover pure ristudiare, e ricompitare come ragazzo. Ma la fiamma di gloria avvampante mi tralucea, e la vergogna dei recitati spropositi fortemente incalzavami per essermi quando che fosse tolta di dosso, ch'io a poco a poco mi accinsi ad affrontare e trionfare di codesti possenti non meno che schifosi ostacoli.

La recita della Cleopatra mi avea, come dissi, aperto gli occhi, e non tanto sul demerito intrinseco di quel tema per sé stesso infelice, e non tragediabile, da chi che si fosse, non che da un inesperto autore per primo suo saggio; ma me gli avea ancor spalancati a segno di farmi ben bene osservare in tutta la sua immensità lo spazio che mi conveniva percorrere all'indietro, prima di potermi, per cosí dire, ricollocare alle mosse, rientrare nell'aringo, e spingermi con maggiore o minor fortuna verso la meta. Cadutomi dunque pienamente dagli occhi quel velo che fino a quel punto me gli avea fortemente ingombrati, io feci con me stesso un solenne giuramento: che non risparmierei oramaifaticanoia nessuna per mettermi in grado di sapere la mia lingua quant'uomo d'Italia. E a questo giuramento m'indussi, perché mi parve, che se io mai potessi giungere una volta al ben dire, non mi dovrebbero mai poi mancare né il ben ideare, né il ben comporre. Fatto il giuramento, mi inabissai nel vortice grammatichevole, come già Curzio nella voragine, tutto armato, e guardandola. Quanto piú mi trovava convinto di aver fatto male ogni cosa sino a quel punto, altrettanto mi andava tenendo per certo di poter col tempo far meglio, e ciò tanto piú tenendone quasi una prova evidente nel mio scrigno. E questa prova erano le due tragedie, il Filippo, ed il Polinice, le quali già tra il marzo e il maggio di quell'anno stesso 1775, cioè tre mesi circa prima che si recitasse la Cleopatra, erano state stese da me in prosa francese; e parimente lette da me ad alcuni pochi, mi era sembrato che ne fossero rimasti colpiti. Né mi era io persuaso di quest'effetto perché me l'avessero piú o meno lodate; ma per l'attenzione non fintacomandata, con cui le avevano di capo in fondo ascoltate, e perché i taciti moti dei loro commossi aspetti mi parvero dire assai piú che le loro parole. Ma per mia somma disgrazia, quali che si fossero quelle due tragedie, elle si trovavano concepite e nate in prosa francese, onde rimanea loro lunga e difficile via da calcarsi, prima ch'elle si trasmutassero in poesia italiana. E in codesta spiacevole e meschina lingua le aveva io stese, non già perché io la sapessi, né punto ci pretendessi, ma perché in quel gergo da me per quei cinque anni di viaggio esclusivamente parlato, e sentito, io mi veniva a spiegare un po' piú, ed a tradire un po' meno il pensiero mio; che sempre pur mi accadeva, per via di non saper nessuna lingua, ciò che accaderebbe ad un volante dei sommi d'Italia, che trovandosi infermo, e sognando di correre a competenza de' suoi eguali o inferiori, null'altro gli mancasse ad ottener la vittoria se non se le gambe.

E questa impossibilità di spiegarmi, e tradurre me stesso, non che in versi ma anche in prosa italiana, era tale, che quando io rileggeva un atto, una scena, di quelle ch'eran piaciute ai miei ascoltatori, nessuno d'essi le riconosceva piú per le stesse, e mi domandavano sul serio, perché l'avessi mutate; tanta era l'influenza dei cangiati abiti e panneggiamenti alla stessa figura, ch'ella non era piúconoscibile, né sopportabile. Io mi arrabbiava, e piangeva; ma invano. Era forza pigliar pazienza, e rifare; ed intanto ingoiarmi le piú insulse e antitragiche letture dei nostri testi di lingua per invasarmi di modi toscani, e direi (se non temessi la sguaiataggine dell'espressione), in due parole direi che mi conveniva tutto il giorno spensare per poi ripensare.

Tuttavia, l'aver io quelle due tragedie future nello scrigno, mi facea prestare alquanto piú pazientemente l'orecchio agli avvisi pedagogici, che d'ogni parte mi pioveano addosso. E parimente quelle due tragedie mi aveano prestato la forza necessaria per ascoltare la recita a' miei orecchi sgradevolissima della Cleopatra, che ogni verso che pronunziava l'attore mi risuonava nel core come la piú amara critica dell'opera tutta, la quale già fin d'allora era divenuta un nulla ai miei occhi; né la considerava per altro, se non se come lo sprone dell'altre avvenire. Onde, siccome non mi avvilirono punto le critiche (forse giuste in parte, ma piú assai maligne ed indotte) che mi furono poi fatte su le tragedie della mia prima edizione di Siena del 1783, cosí per l'appunto nulla affatto m'insuperbirono, né mi persuasero, quegli ingiusti non meritati applausi che la platea di Torino, mossa forse a compassione della mia giovenile fidanza e baldanza, mi volle pur tributare. Primo passo adunque verso la purità toscana essere doveva, e lo fu, di dare interissimo bando ad ogni qualunque lettura francese. Da quel luglio in poi non volli piú mai proferire parola di codesta lingua, e mi diedi a sfuggire espressamente ogni persona o compagnia da cui si parlasse. Con tutti questi mezzi non veniva perciò a capo d'italianizzarmi. Assai male mi piegava agli studi gradati e regolati; ed essendo ogni terzo giorno da capo a ricalcitrare contro gli ammonimenti, io andava pur sempre ritentando di svolazzare coll'ali mie. Perciò, ogni qualunque pensiero mi cadesse nella fantasia, mi provava di porlo in versi; ed ogni genere, ed ogni metro andava tasteggiando, ed in tutti io mi fiaccava le corne e l'orgoglio, ma l'ostinata speranza non mai. Tra l'altre di queste rimerie (che poesie non ardirò di chiamarle) una me ne occorse di fare, da essere da me cantata ad un banchetto di liberi muratori. Era questa, o dovea essere un capitolo allusivo ai diversi utensili e gradi e officiali di quella buffonesca società. E benché io nel primo sonetto quassú trascritto avessi rubato un verso del Petrarca dai suoi capitoli, con tutto ciò, tanta era la mia disattenzione e ignoranza, che allora cominciai questo mio senza piú ricordarmi, e non l'avendo forse mai bene osservata, la regola delle terzine; e cosí me lo proseguii sbagliando, sino alla duodecima terzina; dove essendomene nato il dubbio, aperto Dante conobbi l'errore, e lo corressi in appresso, ma lasciai le dodici terzine com'elle stavano; e cosí le cantai al banchetto: ma quei liberi muratori tanto intendevan di rime e di poesia, quanto dell'arte di fabbricare; e il mio capitolo passò. Per ultima prova e saggio degli infruttuosi miei sforzi, trascriverò ancora qui, o gran parte, o tutto forse quel capitolo; secondo che mi basterà la carta, e la pazienza10.

Verso l'agosto di quell'anno stesso '75, credendomi far vita troppo dissipata stando in città, e non potere perciò studiare abbastanza, me n'andai nei monti che confinano tra il Piemonte e il Delfinato, e passai quasi due mesi in un borguccio, chiamato Cezannes a' piedi del Monginevro, dove è fama che Annibale varcasse l'Alpi. Io benché riflessivo per natura, talvolta pure sconsiderato per impeto, non riflettei nel prendere quella risoluzione, che in quei monti mi tornerebbe fra i piedi la maladettissima lingua francese, che con giusta e necessaria ostinazione io m'era proposto di sfuggire sempre. Ma a questo mi indusse quell'abate, ch'io dissi mi avea accompagnato in quel viaggio ridicolo fatto l'anno innanzi a Firenze. Era quest'abate nativo di Cezannes; chiamavasi Aillaud; era pieno d'ingegno, di una lieta filosofia, e di molta coltura nella letteratura latina e francese. Egli era stato aio di due fratelli coi quali io m'era trovato assai collegato nella prima gioventú, ed allora aveamo fatto amicizia l'Aillaud ed io; e continuatala dappoi. Debbo dire pel vero, che codesto abate ne' miei primi anni avea fatto il possibile per inspirarmi l'amore delle lettere, dicendomi che ci avrei potuto riuscire; ma il tutto invano. E alle volte si era fatto fra noi il seguente risibile patto: ch'egli mi dovrebbe leggere per un'ora intera del romanzo, o novelliere, intitolato Les Milles et une Nuits, con che poi io mi sottomettessi a sentirmi leggere per soli dieci minuti uno squarcio delle tragedie di Racine. Ed io me ne stava tutto orecchi nel tempo di quella prima insulsa lettura, e mi addormentava poi al suono dei dolcissimi versi di quel gran tragico; cosa, di cui l'Aillaud arrabbiava, e vituperavami, con gran ragione. Questa era la mia disposizione a diventar tragico, quando stava nel Primo Appartamento della Reale Accademia. Ma neppur dappoi ho potuto ingoiar mai la cantilena metodica muta e gelidissima dei versi francesi, che non mi sono sembrati mai versi; né quando non mi sapea che cosa si fosse un verso, né quando poi mi parve di saperlo.

Torno a quel mio ritiro estivo in Cezannes, dove oltre l'abate letterato, aveva anche meco un abate citarista, che m'insegnava suonar la chitarra, stromento che mi parea inspirare poesia, e pel quale una qualche disposizione avea; ma non poi la stabile volontà, che si agguagliasse al trasporto che quel suono mi cagionava. Onde né in questo stromento, né sul cimbalo, che da giovane avea imparato, non ho mai ecceduta la mediocrità, ancorché l'orecchio e la fantasia fossero in me musichevoli nel sommo grado. Passai cosí quell'estate fra codesti due abati, di cui l'uno mi sollevava dalla angoscia per me nuova (dell'applicar seriamente allo studio) col suonarmi la cetra; l'altro poi mi facea dar al diavolo col suo francese. Con tutto ciò deliziosissimi momenti mi furono, ed utilissimi, quelli in cui mi venne pur fatto di raccogliermi in me stesso; e di lavorare efficacemente e disrugginire il mio povero intelletto, e dischiudere nella memoria le facoltà dell'imparare, le quali oltre ogni credere mi si erano oppilate in quei quasi dieci anni continui d'incallimento nel piú vituperoso letargico ozio. Subito mi accinsi a tradurre o ridurre in prosa e frase italiana quel Filippo o quel Polinice, nati in veste spuria. Ma, per quanto mi ci arrovellassi, quelle due tragedie mi rimanevano pur sempre due cose anfibie, ed erano tra il francese e l'italiano senza esser né l'una cosa né l'altra; appunto come dice il Poeta nostro della carta avvampante:

 

... un color bruno,

che non è nero ancora, e il bianco muore.

 

In quest'angoscia di dover fare versi italiani di pensieri francesi mi era già travagliato aspramente anche nel rifare la terza Cleopatra; talché alcune scene di essa, ch'io avea stese e poi lette in francese al mio censor tragico e non grammatico, al conte Agostino Tana, e ch'egli avea trovate forti, e bellissime, tra cui quella d'Antonio con Augusto, allorché poi vennero trasmutate ne' miei versacci poco italiani, slombati, facili, e cantanti, essi gli comparvero una cosa men che mediocre; e me lo disse chiaramente; ed io lo credei; e dirò di piú, che lo sentii anche io. Tanto è pur vero che in ogni poesia il vestito fa la metà del corpo, ed in alcune (come nella lirica) l'abito fa il tutto; a segno che alcuni versi

 

con la lor vanità che par persona

 

trionfano di parecchi altri in cui

 

fosser gemme legate in vile anello.

 

E noterò pure qui, che al padre Paciaudi, che al conte Tana, e principalmente a questo secondo, io professerò eternamente una riconoscenza somma per le verità che mi dissero, e per avermi a viva forza fatto rientrare nel buon sentiero delle sane lettere. E tanta era in me la fiducia in questi due soggetti, che il mio destino letterario è stato interamente ad arbitrio loro; ed avrei ad ogni lor minimo cenno buttata al fuoco ogni mia composizione che avessero biasimata, come feci di tante rime, che altra correzione non meritavano. Sicché, se io ne sono uscito poeta, mi debbo intitolare, per grazia di Dio, e del Paciaudi, e del Tana. Questi furono i miei santi protettori nella feroce continua battaglia in cui mi convenne passare ben tutto il primo anno della mia vita letteraria, di sempre dar la caccia alle parole e forme francesi, di spogliar per dir cosí le mie idee per rivestirle di nuovo sotto altro aspetto, di riunire in somma nello stesso punto lo studio d'un uomo maturissimo con quello di un ragazzaccio alle prime scuole. Fatica indicibile, ingratissima, e da ributtare chiunque avesse avuto (ardirò dirlo) una fiamma minor della mia.

Tradotte dunque in mala prosa le due tragedie, come dissi, mi posi all'impresa di leggere e studiare a verso a verso per ordine d'anzianità tutti i nostri poeti primari, e postillarli in margine, non di parole, ma di uno o piú tratticelli perpendicolari ai versi; per accennare a me stesso se piú o meno mi andassero a genio quei pensieri, o quelle espressioni, o quei suoni. Ma trovando a bella prima Dante riuscirmi pur troppo difficile, cominciai dal Tasso, che non avea mai neppure aperto fino a quel punto. Ed io leggeva con pazza attenzione, volendo osservar tante e diverse e contrarie cose, che dopo dieci stanze non sapea piú quello ch'io avessi letto, e mi trovava essere piú stanco e rifinito assai che se le avessi io stesso composte. Ma a poco a poco mi andai formando e l'occhio e la mente a quel faticosissimo genere di lettura; e cosí tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l'Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me gli invasai d'un fiato postillandoli tutti, e v'impiegai forse un anno. Le difficoltà di Dante, se erano istoriche, poco mi curava di intenderle, se di espressione, di modi, o di voci, tutto faceva per superarle indovinando; ed in molte non riuscendo, le poche poi ch'io vinceva mi insuperbivano tanto piú. In quella prima lettura io mi cacciai piuttosto in corpo un'indigestione che non una vera quintessenza di quei quattro gran luminari; ma mi preparai cosí a ben intenderli poi nelle letture susseguenti, a sviscerarli, gustarli, e forse anche rassomigliarli. Il Petrarca però mi riuscí ancor piú difficile che Dante; e da principio mi piacque meno; perché il sommo diletto dei poeti non si può mai estrarre, finché si combatte coll'intenderli. Ma dovendo io scrivere in verso sciolto, anche di questo cercai di formarmi dei modelli. Mi fu consigliata la traduzione di Stazio del Bentivoglio. Con somma avidità la lessi, studiai, e postillai tutta; ma alquanto fiacca me ne parve la struttura del verso per adattarla al dialogo tragico. Poi mi fecero i miei amici censori capitare alle mani l'Ossian del Cesarotti, e questi furono i versi sciolti che davvero mi piacquero, mi colpirono e m'invasarono. Questi mi parvero con poca modificazione, un eccellente modello pel verso di dialogo. Alcune altre tragedie, o nostre italiane, o tradotte dal francese, che io volli pur leggere sperando d'impararvi almeno quanto allo stile, mi cadevano dalle mani per la languidezza, trivialità, e prolissità dei modi e del verso, senza parlare poi della snervatezza dei pensieri. Tra le men cattive lessi e postillai le quattro traduzioni del Paradisi dal francese, e la Merope originale del Maffei. E questa, a luoghi mi piacque bastantemente per lo stile, ancorché mi lasciasse pur tanto desiderare per adempirne la perfettibilità, o vera, o sognata, ch'io me n'andava fabbricando nella fantasia. E spesso andava interrogando me stesso: or, perché mai questa nostra divina lingua, maschia ancor ed energica e feroce in bocca di Dante, dovrà ella farsi cosí sbiadita ed eunuca nel dialogo tragico? Perché il Cesarotti che vibratamente verseggia nell'Ossian, cosí fiaccamente poi sermoneggia nella Semiramide e nel Maometto del Voltaire da esso tradotte? Perché quel pomposo galleggiante scioltista caposcuola, il Frugoni, nella sua traduzione del Radamisto del Crebillon, è egli immensamente minore del Crebillon e di sé medesimo? Certo, ogni altra cosa ne incolperò che la nostra pieghevole e proteiforme favella. E questi dubbi ch'io proponeva ai miei amici e censori, nissuno me li sciogliea. L'ottimo Paciaudi mi raccomandava frattanto di non trascurare nelle mie laboriose letture la prosa, ch'egli dottamente denominava la nutrice del verso. Mi sovviene a questo proposito, che un tal giorno egli mi portò il Galateo del Casa, raccomandandomi di ben meditarlo quanto ai modi, che certo ben pretti toscani erano, ed il contrario d'ogni franceseria. Io, che da ragazzo lo aveva (come abbiam fatto tutti) maledetto, poco inteso, e niente gustatolo, mi tenni quasiché offeso di questo puerile o pedantesco consiglio. Onde, pieno di mal talento contro quel Galateo, lo apersi. Ed alla vista di quel primo Conciossiacosache, a cui poi si accoda quel lungo periodo cotanto pomposo e poco sugoso, mi prese un tal impeto di collera, che scagliato per la finestra il libro, gridai quasi maniaco: «Ella è pur dura e stucchevole necessità, che per iscrivere tragedie in età di venzett'anni mi convenga ingoiare di nuovo codeste baie fanciullesche, e prosciugarmi il cervello con fatte pedanterie». Sorrise di questo mio poetico ineducato furore; e mi profetizzò che io leggerei poi il Galateo, e piú d'una volta. E cosí fu in fatti; ma parecchi anni dopo, quando poi mi era ben bene incallite le spalle ed il collo a sopportare il giogo grammatico. E non il solo Galateo, ma presso che tutti quei nostri prosatori del Trecento, lessi e postillai poi, con quanto frutto, nol so. Ma fatto si è che chi gli avesse ben letti quanto ai lor modi, e fosse venuto a capo di prevalersi con giudizio e destrezza dell'oro dei loro abiti, scartando i cenci delle loro idee, quegli potrebbe forse poi ne' suoi scritti filosofici che poetici, o istorici, o d'altro qualunque genere, dare una ricchezza, brevità, proprietà, e forza di colorito allo stile, di cui non ho visto finora nessuno scrittore italiano veramente andar corredato. Forse, perché la fatica è improba; e chi avrebbe l'ingegno, e la capacità di sapersene giovare, non la vuol fare; e chi non ha questi dati, la fa invano.

 

 

 




10 Vedi appendice decima.






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