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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO SECONDO

Rimessomi sotto il pedagogo a spiegare Orazio. Primo viaggio letterario in Toscana.

 

Verso il principio dell'anno '76, trovandomi già da sei e piú mesi ingolfato negli studi italiani, mi nacque una onesta e cocente vergogna di non piú intendere quasi affatto il latino; a segno che, trovando qua e , come accade, delle citazioni, anco le piú brevi e comuni, mi trovava costretto di saltarle a piè pari, per non perder tempo a diciferarle. Trovandomi inoltre inibita ogni lettura francese, ridotto al solo italiano, io mi vedeva affatto privo d'ogni soccorso per la lettura teatrale. Questa ragione, aggiuntasi al rossore, mi sforzò ad intraprendere questa seconda fatica, per poter leggere le tragedie di Seneca, di cui alcuni sublimi tratti mi aveano rapito; e leggere anche le traduzioni letterali latine dei tragici greci, che sogliono essere piú fedeli e meno tediose di quelle tante italiane che inutilmente possediamo. Mi presi dunque pazientemente un ottimo pedagogo, il quale, postomi Fedro in mano, con molta sorpresa sua e rossore mio, vide e mi disse che non l'intendeva, ancorché l'avessi già spiegato in età di dieci anni; ed in fatti provandomici a leggerlo traducendolo in italiano, io pigliava dei grossissimi granchi, e degli sconci equivoci. Ma il valente pedagogo, avuto ch'egli ebbe cosí ad un tempo stesso il non dubbio saggio e della mia asinità, e della mia tenacissima risoluzione, m'incoraggí molto, e in vece di lasciarmi il Fedro mi diede l'Orazio, dicendomi: "Dal difficile si viene al facile; e cosí sarà cosa piú degna di lei. Facciamo degli spropositi su questo scabrosissimo principe dei lirici latini, e questi ci appianeran la via per scendere agli altri ". E cosí si fece; e si prese un Orazio senza commenti nessuni; ed io spropositando, costruendo, indovinando, e sbagliando, tradussi a voce tutte l'Odi dal principio di gennaio a tutto il marzo. Questo studio mi costò moltissima fatica, ma mi fruttò anche bene, poiché mi rimise in grammatica senza farmi uscire di poesia.

In quel frattempo non tralasciava però di leggere e postillare sempre i poeti italiani, aggiungendone qualcuno dei nuovi, come il Poliziano, il Casa, e ricominciando poi da capo i primari; talché il Petrarca e Dante nello spazio di quattr'anni lessi e postillai forse cinque volte. E riprovandomi di tempo in tempo a far versi tragici, avea già verseggiato tutto il Filippo. Ma benchè fosse venuto alquanto men fiacco e men sudicio della Cleopatra, pure quella versificazione mi riusciva languida, prolissa, fastidiosa e triviale. Ed in fatti quel primo Filippo, che poi alla stampa si contentò di annoiare il pubblico con soli millequattrocento e qualche versi, nei due primi tentativi pertinacemente volle annoiare e disperare il suo autore con piú di due mila versi, in cui egli diceva allora assai meno cose, che nei millequattrocento dappoi.

Quella lungaggine e fiacchezza di stile, ch'io attribuiva assai piú alla penna mia che alla mente mia, persuadendomi finalmente ch'io non potrei mai dir bene italiano finché andava traducendo me stesso dal francese, mi fece finalmente risolvere di andare in Toscana per avvezzarmi a parlare, udire, pensare, e sognare in toscano, e non altrimenti mai piú. Partii dunque nell'aprile del '76, coll'intenzione di starvi sei mesi, lusingandomi che basterebbero a disfrancesarmi. Ma sei mesi non disfanno una triste abitudine di dieci e piú anni. Avviatomi alla volta di Piacenza e di Parma, me n'andava a passo tardo e lento, ora in biroccio, ora a cavallo, in compagnia de' miei poetini tascabili, con pochissimo altro bagaglio, tre soli cavalli, due uomini, la chitarra, e le molte speranze della futura gloria. Per mezzo del Paciaudi conobbi in Parma, in Modena, in Bologna, e in Toscana, quasi tutti gli uomini di un qualche grido nelle lettere. E quanto io era stato non curante di tal mercanzia ne' miei primi viaggi, altrettanto e piú era poi divenuto curioso di conoscere i grandi, e i medi in qualunque genere. Allora conobbi in Parma il celebre nostro stampatore Bodoni, e fu quella la prima stamperia in cui io ponessi mai i piedi, benché fossi stato a Madrid, e a Birmingham, dove erano le due piú insigni stamperie d'Europa, dopo il Bodoni. Talché io non aveva mai vista un'a di metallo, né alcuno di quei tanti ordigni che mi doveano poi col tempo acquistare o celebrità o canzonatura. Ma certo in nessuna piú augusta officina io potea mai capitare per la prima volta, né mai ritrovare un piú benigno, piú esperto, e piú ingegnoso espositore di quell'arte maravigliosa che il Bodoni, da cui tanto lustro e accrescimento ha ricevuto e riceve.

Cosí a poco a poco ogni giorno piú ridestandomi dal mio lungo e crasso letargo, io andava vedendo e imparando (un po' tardetto) assai cose. Ma la piú importante si era per me, ch'io andava ben conoscendo appurando e pesando le mie facoltà intellettuali letterarie, per non isbagliar poi, se poteva, nella scelta del genere. Né in questo studio di me medesimo io era tanto novizio come negli altri; atteso che piuttosto precedendo l'età che aspettandola, io fin da anni addietro avea talvolta impreso a diciferare a me stesso la mia morale entità; e l'avea fatto anche con penna, non che col pensiero. Ed ancora conservo una specie di diario che per alcuni mesi avea avuta la costanza di scrivere annoverandovi non solo le mie sciocchezze abituali di giorno in giorno, ma anche i pensieri, e le cagioni intime, che mi faceano operare o parlare: il tutto per vedere, se in cosí appannato specchio mirandomi, il migliorare d'alquanto mi venisse poi a riuscire. Avea cominciato il diario in francese; lo continuai in italiano; non era bene scritto né in questa lingua, né in quella; era piuttosto originalmente sentito e pensato. Me ne stufai presto, e feci benissimo; perché ci si perdeva il tempo e l'inchiostro, trovandomi essere tuttavia un giorno peggiore dell'altro. Serva questo per prova, ch'io poteva forse ben per l'appunto conoscere e giudicare la mia capacità e incapacità letteraria in tutti i suoi punti. Parendomi dunque ormai discernere appieno tutto quello che mi mancava e quel poco ch'io aveva in proprio dalla natura, io sottilizzava anche piú in per discernere tra le parti che mi mancavano, quali fossero quelle che mi sarei potute acquistar nell'intero, quali a mezzo soltanto, e quali niente affatto. A questo fatto studio di me stesso io forse sarò poi tenuto (se non di essere riuscito) di non avere almeno tentato mai nessun genere di composizione al quale non mi sentissi irresistibilmente spinto da un violento impulso naturale; impulso, i di cui getti sempre poi in qualunque bell'arte, ancorché l'opera non riesca perfetta, si distinguono di gran lunga dai getti dell'impulso comandato, ancorché potessero pur procreare un'opera in tutte le sue parti perfetta.

Giunto in Pisa vi conobbi tutti i piú celebri professori, e ne andai cavando per l'arte mia tutto quell'utile che si poteva. Nel fregarmi con costoro, la piú disastrosa fatica ch'io provassi, ell'era d'interrogarli con quel riguardo e destrezza necessaria per non smascherar loro spiattellatamente la mia ignoranza; ed in somma dirò con fratesca metafora, per parer loro professo, essendo tuttavia novizio. Non già ch'io potessi né volessi spacciarmi per dotto; ma era al buio di tante e poi tante cose, che coi visi nuovi me ne vergognava; e pareami, a misura che mi si andavano dissipando le tenebre, di vedermi sempre piú gigantesca apparire questa mia fatale e pertinace ignoranza. Ma non meno forse gigantesco era e facevasi il mio ardimento. Quindi, mentr'io per una parte tributava il dovuto omaggio al sapere d'altrui, non mi atterriva punto per l'altra il mio non sapere; sendomi ben convinto che al far tragedie il primo sapere richiesto, si è il forte sentire; il qual non s'impara. Restavami da imparare (e non era certo poco) l'arte di fare agli altri sentire quello che mi parea di sentir io.

Nelle sei o sette settimane ch'io dimorai a Pisa, ideai e distesi a dirittura in sufficiente prosa toscana la tragedia d'Antigone, e verseggiai il Polinice un po' men male che il Filippo. E subito mi parve di poter leggere il Polinice ad alcuni di quei barbassori dell'Università, i quali mi si mostrarono assai soddisfatti della tragedia, e ne censurarono qua e l'espressioni, ma neppure con quella severità che avrebbe meritata. In quei versi, a luoghi si trovavan dette cose felicemente; ma il totale della pasta ne riusciva ancora languida, lunga, e triviale a giudizio mio; a giudizio dei barbassori, riusciva scorretta qualche volta, ma fluida, diceano, e sonante. Non c'intendevamo. Io chiamava languido e triviale ciò ch'essi diceano fluido e sonante; quanto poi alle scorrezioni, essendo cosa di fatto e non di gusto, non ci cadea contrasto. Ma neppure su le cose di gusto cadeva contrasto tra noi, perché io a maraviglia tenea la mia parte di discente, come essi la loro di docenti; era però ben fermo di volere prima d'ogni cosa piacere a me stesso. Da quei signori dunque io mi contentava d'imparare negativamente, ciò che non va fatto; dal tempo, dall'esercizio, dall'ostinazione, e da me, io mi lusingava poi d'imparare quel che va fatto. E s'io volessi far ridere a spese di quei dotti, com'essi forse avran riso allora alle mie, potrei nominar taluno fra essi, e dei piú pettoruti, che mi consigliava, e portava egli stesso la Tancia del Buonarroti, non dirò per modello, ma per aiuto al mio tragico verseggiare, dicendomi che gran dovizia di lingua e di modi vi troverei. Il che equivarrebbe a chi proponesse a un pittore di storia di studiare il Callotta. Altri mi lodava lo stile del Metastasio, come l'ottimo per la tragedia. Altri, altro. E nessun di quei dotti era dotto in tragedia.

Nel soggiorno di Pisa tradussi anche la Poetica d'Orazio in prosa con chiarezza e semplicità per invasarmi que' suoi veridici e ingegnosi precetti. Mi diedi anche molto a leggere le tragedie di Seneca, benché in tutto ben mi avvedessi essere quelle il contrario dei precetti d'Orazio. Ma alcuni tratti di sublime vero mi trasportavano, e cercava di renderli in versi sciolti per mio doppio studio, di latino e d'italiano, di verseggiare e grandeggiare. E nel fare questi tentativi mi veniva evidentemente sotto gli occhi la gran differenza tra il verso giambo ed il verso epico, i di cui diversi metri bastano per distinguere ampiamente le ragioni del dialogo da quelle di ogni altra poesia; e nel tempo stesso mi veniva evidentemente dimostrato che noi italiani non avendo altro verso che l'endecasillabo per ogni componimento eroico, bisognava creare una giacitura di parole, un rompere sempre variato di suono, un fraseggiare di brevità e di forza, che venissero a distinguere assolutamente il verso sciolto tragico da ogni altro verso sciolto e rimato epico che lirico. I giambi di Seneca mi convinsero di questa verità, e forse in parte me ne procacciarono i mezzi. Che alcuni tratti maschi e feroci di quell'autore debbono per metà la loro sublime energia al metro poco sonante, e spezzato. Ed in fatti qual è sprovvisto di sentimento e d'udito, che non noti l'enorme differenza che passa tra questi due versi? L'uno, di Virgilio, che vuol dilettare e rapire il lettore:

 

Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum;

 

l'altro, di Seneca che vuole stupire e atterrir l'uditore; e caratterizzare in due sole parole due personaggi diversi:

 

Concede mortem.

Si recusares, darem.

 

Per questa ragione stessa non dovrà dunque un autor tragico italiano nei punti piú appassionati e fieri porre in bocca de' suoi dialogizzanti personaggi dei versi, che quanto al suono in nulla somiglino a quei peraltro stupendi e grandiosissimi del nostro epico:

 

Chiama gli abitator dell'ombre eterne

il rauco suon della tartarea tromba.

 

Convinto io nell'intimo cuore della necessità di questa total differenza da serbarsi nei due stili, e tanto piú difficile per noi italiani, quando è giuoco forza crearsela nei limiti dello stesso metro, io dava dunque poco retta ai saccenti di Pisa quanto al fondo dell'arte drammatica, e quanto allo stile da adoprarvisi; gli ascoltava bensí con umiltà e pazienza su la purità toscanesca e grammaticale; ancorché neppure in questo i presenti toscani gran cosa la sfoggino.

Eccomi intanto in meno d'un anno dopo la recita della Cleopatra, possessore in proprio del patrimonietto di tre altre tragedie. E qui mi tocca di confessare, pel vero, di quai fonti le avessi tratte. Il Filippo, nato francese, e figlio di francese, mi venne di ricordo dall'aver letto piú anni prima il romanzo di Don Carlos, dell'Abate di San Reale. Il Polinice, gallo anch'egli, lo trassi dai Fratelli nemici, del Racine. L'Antigone, prima non imbrattata di origine esotica, mi venne fatta leggendo il duodecimo libro di Stazio nella traduzione su mentovata, del Bentivoglio. Nel Polinice l'avere io inserito alcuni tratti presi nel Racine, ed altri presi dai Sette prodi di Eschilo, che leggicchiai nella traduzione francese del padre Brumoy, mi fece far voto in appresso, di non piú mai leggere tragedie d'altri prima d'aver fatte le mie, allorché trattava soggetti trattati, per non incorrere cosí nella taccia di ladro, ed errare o far bene, del mio. Chi molto legge prima di comporre, ruba senza avvedersene, e perde l'originalità, se l'avea. E per questa ragione anche avea abbandonato fin dall'anno innanzi la lettura di Shakespeare (oltre che mi toccava di leggerlo tradotto in francese). Ma quanto piú mi andava a sangue quell'autore (di cui però benissimo distingueva tutti i difetti), tanto piú me ne volli astenere.

Appena ebbi stesa l'Antigone in prosa, che la lettura di Seneca m'infiammò e sforzò d'ideare ad un parto le due gemelle tragedie, l'Agamennone, e l'Oreste. Non mi parea con tutto ciò, ch'elli mi siano riuscite in nulla un furto fatto da Seneca. Nel fin di giugno sloggiai da Pisa, e venni in Firenze, dove mi trattenni tutto il settembre. Mi vi applicai moltissimo all'impossessarmi della lingua parlabile; e conversando giornalmente con fiorentini, ci pervenni bastantemente. Onde cominciai da quel tempo a pensare quasi esclusivamente in quella doviziosissima ed elegante lingua; prima indispensabile base per bene scriverla. Nel soggiorno in Firenze verseggiai per la seconda volta il Filippo da capo in fondo, senza neppur piú guardare quei primi versi, ma rifacendoli dalla prosa. Ma i progressi mi pareano lentissimi, e spesso mi parea anzi di scapitare che di migliorare. Nel corrente di agosto, trovandomi una mattina in un crocchio di letterati, udii a caso rammentare l'aneddoto storico di Don Garzia ucciso dal proprio padre Cosimo I. Questo fatto mi colpí; e siccome stampato non è, me lo procurai manoscritto, estratto dai pubblici archivi di Firenze, e fin d'allora ne ideai la tragedia. Continuava intanto a schiccherare molte rime, ma tutte mi riuscivano infelici. E benché non avessi in Firenze nessun amico censore che equivalesse al Tana e al Paciaudi, pure ebbi abbastanza senno e criterio di non ne dar copia a chi che si fosse, e anche la sobrietà di pochissimo andarle recitando. Il mal esito delle rime non mi scoraggiava con tutto ciò; ma bensí convincevami che non bisognava mai restare di leggerne dell'ottime, e d'impararne a memoria, per invasarmi di forme poetiche. Onde in quell'estate m'inondai il cervello di versi del Petrarca, di Dante, del Tasso, e sino ai primi tre canti interi dell'Ariosto; convinto in me stesso, che il giorno verrebbe infallibilmente, in cui tutte quelle forme, frasi, e parole d'altri mi tornerebbero poi fuori dalle cellule di esso miste e immedesimate coi miei propri pensieri ed affetti.

 

 

 




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