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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO TERZO

Ostinazione negli studi piú ingrati.

 

Nell'ottobre tornai in Torino, perché non avea prese le misure necessarie per soggiornare piú lungamente fuor di casa, non già perché io mi presumessi intoscanito abbastanza. Ed anche molte altre frivole ragioni mi fecero tornare. Tutti i miei cavalli lasciati in Torino mi vi aspettavano e richiamavano; passione che in me contrastò lungamente con le Muse, e non rimase poi perdente davvero, se non se piú d'un anno dopo. Né mi premeva allora tanto lo studio e la gloria, che non mi pungesse anco molto a riprese la smania del divertirmi; il che mi riusciva assai piú facile in Torino dove c'avea buona casa, aderenze d'ogni sorta, bestie a sufficienza, divagazioni ed amici piú del bisogno. Malgrado tutti questi ostacoli, non rallentai punto lo studio in quell'inverno; ed anzi mi accrebbi le occupazioni e gl'impegni. Dopo Orazio intero, avea letti e studiati ad oncia ad oncia piú altri autori, e fra questi Sallustio. La brevità ed eleganza di quest'istorico mi avea rapito talmente, che mi accinsi con molta applicazione a tradurlo; e ne venni a capo in quell'inverno. Molto, anzi infinito obbligo io debbo a quel lavoro; che poi piú e piú volte ho rifatto, mutato e limato, non so se con miglioramento dell'opera, ma certamente con molto mio lucro nell'intelligenza della lingua latina, che nella padronanza di maneggiar l'italiana.

Era frattanto ritornato di Portogallo l'incomparabile abate Tommaso di Caluso; e trovatomi contro la sua aspettativa ingolfato davvero nella letteratura, e ostinato nello scabroso proposito di farmi autor tragico, egli mi secondò, consigliò, e soccorse di tutti i suoi lumi con benignità e amorevolezza indicibile. E cosí pure fece l'eruditissimo conte di San Raffaele, ch'io appresi in quell'anno a conoscere, e altri coltissimi individui, i quali tutti a me superiori di età, di dottrina, e d'esperienza nell'arte mi compativano pure, ed incoraggivano; ancorché non ne avessi bisogno atteso il bollore del mio carattere. Ma la gratitudine che sovra ogni altra professo e sempre professerò a tutti i suddetti personaggi, si è per aver essi umanamente comportata la mia incomportabile petulanza d'allora; la quale, a dir anche il vero, mi andava però di giorno in giorno scemando, a misura che riacquistava lume.

Sul finir di quell'anno '76, ebbi una grandissima e lungamente sospirata consolazione. Una mattina andato dal Tana, a cui sempre palpitante e tremante io solea portare le mie rime, appena partorite che fossero, gli portai finalmente un sonetto al quale pochissimo trovò che ridire e lo lodò anzi molto come i primi versi ch'io mi facessi meritevoli di un tal nome. Dopo le tante e continue afflizioni ed umiliazioni ch'io avea provate nel leggergli da piú d'un anno le mie sconcie rime, ch'egli da vero e generoso amico senza misericordia nessuna censurava, e diceva il perché e il suo perché mi appagava; giudichi ciascuno qual soave néttare mi giunsero all'anima quelle insolite sincere lodi. Era il sonetto una descrizione del ratto di Ganimede, fatto a imitazione dell'inimitabile del Cassiani sul ratto di Proserpina. Egli è stampato da me il primo tra le mie rime. E invaghito della lode, tosto ne feci anche due altri, tratto il soggetto dalla favola, e imitai anch'essi come il primo, a cui immediatamente anche nella stampa ho voluto poi che seguitassero. Tutti e tre si risentono un po' troppo della loro serva origine imitativa, ma pure (s'io non erro) hanno il merito d'essere scritti con una certa evidenza, e bastante eleganza; quale in somma non mi era venuta mai fin allora. E come tali ho voluto serbarli, e stamparli con pochissime mutazioni molti anni dopo. In seguito poi di quei tre primi sufficienti sonetti, come se mi si fosse dischiusa una nuova fonte, ne scaturii in quell'inverno troppi altri; i piú, amorosi; ma senza amore che li dettasse. Per esercizio mero di lingua e di rime avea impreso a descrivere a parte a parte le bellezze palesi d'una amabilissima e leggiadra signora; né per essa io sentiva neppure la minima favilluzza nel cuore; e forse ci si parrà in quei sonetti piú descrittivi che affettuosi. Tuttavia, siccome non mal verseggiati, ho voluto quasi che tutti conservarli, e dar loro luogo nelle mie rime; dove agli intendenti dell'arte possono forse andare additando i progressi ch'io allora andava facendo gradatamente nella difficilissima arte del dir bene, senza la quale per quanto sia ben concepito e condotto il sonetto, non può aver vita.

Alcuni evidenti progressi nel rimare, e la prosa del Sallustio ridotta a molta brevità con sufficiente chiarezza (ma priva ancora di quella variata armonia, tutta propria sua, della ben concepita prosa), mi aveano ripieno il cuore di ardenti speranze. Ma siccome ogni altra cosa ch'io faceva, o tentava, tutte aveano sempre per primo ed allora unico scopo, di formarmi uno stile proprio ed ottimo per la tragedia, da quelle occupazioni secondarie di tempo in tempo mi riprovava a risalire alla prima. Nell'aprile del '77 verseggiai perciò l'Antigone, ch'io, come dissi, avea ideata e stesa ad un tempo, circa un anno prima, essendo in Pisa. La verseggiai tutta in meno di tre settimane; e parendomi aver acquistata facilità, mi tenni di aver fatto gran cosa. Ma appena l'ebbi io letta in una società letteraria, dove quasi ogni sera ci radunavamo, ch'io ravvedutomi (benché lodato dagli altri) con mio sommo dolore mi trovai veramente lontanissimo da quel modo di dire ch'io avea tanto profondamente fitto nell'intelletto, senza pur quasi mai ritrovarmelo poi nella penna. Le lodi di quei colti amici uditori mi persuasero che forse la tragedia quanto agli affetti e condotta ci fosse; ma i miei orecchi e intelletto mi convinsero ch'ella non c'era quanto allo stile. E nessun altri di ciò poteva a una prima lettura esser giudice competente quanto io stesso, perché quella sospensione, commozione, e curiosità che porta con sé una non conosciuta tragedia, fa che l'uditore, ancorché di buon gusto dotato, non può e non vuole, né deve, soverchiamente badare alla locuzione. Quindi tutto ciò che non è pessimo, passa inosservato, e non spiace. Ma io che la leggeva conoscendola, fino a un puntino mi dovea avvedere ogni qual volta il pensiero o l'affetto venivano o traditi o menomati dalla non abbastanza o vera, o calda, o breve, o forte, o pomposa espressione.

Persuaso io dunque che non era al punto, e che non ci arrivava, perché in Torino viveva ancor troppo divagato, e non abbastanza solo e con l'arte, subito mi risolvei di tornare in Toscana, dove anche sempre piú mi italianizzereí il concetto. Che se in Torino non parlava francese, con tutto ciò il nostro gergaccio piemontese ch'io sempre parlava e sentiva tutto il giorno, in nulla riusciva favorevole al pensare e scrivere italiano.

 

 

 




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