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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO QUARTO

Secondo viaggio letterario in Toscana, macchiato di stolida pompa cavallina. Amicizia contratta col Gandellini. Lavori fatti o ideati in Siena.

 

Partii nei primi di maggio, previa la consueta permissione che bisognava ottener dal re per uscire dai suoi felicissimi stati. Il ministro a chi la domandai, mi rispose che io era stato anco l'anno innanzi in Toscana. Soggiunsi: «E perciò mi propongo di ritornarvi quest'anno». Ottenni il permesso; ma quella parola mi fece entrar in pensieri, e bollire nella fantasia il disegno che io poi in meno d'un anno mandai pienamente ad effetto, e per cui non mi occorse d'allora in poi mai piú di chiedere permissione nissuna. In questo secondo viaggio, proponendomi di starvi piú tempo, e fra i miei deliri di vera gloria frammischiandone pur tuttavia non pochi di vanagloria, ci volli condur piú cavalli e piú gente, per recitare in tal guisa le due parti, che di rado si meritano insieme, di poeta e di signore. Con un treno dunque di otto cavalli, ed il rimanente non discordante da esso, mi avviai alla volta di Genova. Di imbarcatomi io col bagaglio e il biroccino, mandai per la via di terra verso Lerici e Sarzana i cavalli. Questi arrivarono felicemente avendomi preceduto. Io nella filucca essendo già quasi alla vista di Lerici, fui rimandato indietro dal vento, e costretto di sbarcare a Rapallo, due sole poste distante da Genova. Sbarcato quivi, e tediandomi di aspettare che il vento tornasse favorevole per ritornare a Lerici, lasciai la filucca con la roba mia, e prese alcune camicie, i miei scritti (dai quali non mi separava mai piú) ed un sol uomo, per le poste a cavallo a traverso quei rompicolli di strade del nudo Appennino me ne venni a Sarzana, dove trovai i cavalli, e dovei poi aspettar la filucca piú di otto giorni. Ancorché io ci avessi il divertimento dei cavalli, pure non avendo altri libri che l'Orazietto e il Petrarchino di tasca, mi tediava non poco il soggiorno di Sarzana. Da un prete fratello del mastro di posta mi feci prestare un Tito Livio, autore che (dalle scuole in poi, dove non l'avea né intesogustato) non m'era piú capitato alle mani. Ancorché io smoderatamente mi fossi appassionato della brevità sallustiana, pure la sublimità dei soggetti, e la maestà delle concioni di Livio mi colpirono assai. Lettovi il fatto di Virginia, e gl'infiammati discorsi d'Icilio, mi trasportai talmente per essi, che tosto ne ideai la tragedia; e l'avrei stesa d'un fiato, se non fossi stato sturbato dalla continua espettativa di quella maledetta filucca, il di cui arrivo mi avrebbe interrotto la composizione.

E qui per l'intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l'essere alle mie tragedie, mi hanno per lo piú procurato il beneficio del tempo, cosí necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l'estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v'è nell'idearla e distenderla, non si ritrova certo mai piú con le fatiche posteriori. Questo meccanismo io l'ho osservato in tutte le mie composizioni drammatiche cominciando dal Filippo, e mi son ben convinto ch'egli è per sé stesso piú che i due terzi dell'opera. Ed in fatti, dopo un certo intervallo, quanto bastasse a non piú ricordarmi affatto di quella prima distribuzione di scene, se io, ripreso in mano quel foglio, alla descrizione di ciascuna scena mi sentiva repentinamente affollarmisi al cuore e alla mente un tumulto di pensieri e di affetti che per cosí dire a viva forza mi spingessero a scrivere, io tosto riceveva quella prima sceneggiatura per buona, e cavata dai visceri del soggetto. Se non mi si ridestava quell'entusiasmo, pari e maggiore di quando l'avea ideata, io la cangiava od ardeva. Ricevuta per buona la prima idea, l'adombrarla era rapidissimo, e un atto il giorno ne scriveva, talvolta piú, raramente meno; e quasi sempre nel sesto giorno la tragedia era, non dirò fatta, ma nata. In tal guisa, non ammettendo io altro giudice che il mio proprio sentire, tutte quelle che non ho potuto scriver cosí, di ridondanza e furore, non le ho poi finite; o, seppur finite, non le ho mai poi verseggiate. Cosí mi avvenne di un Carlo Primo che immediatamente dopo il Filippo intrapresi di stendere in francese; nel quale abbozzo a mezzo il terz'atto mi si agghiacciò si fattamente il cuore e la mano, che non fu possibile alla penna il proseguirlo. Cosí d'un Romeo e Giulietta, ch'io pure stesi in intero, ma con qualche stento, e con delle pause. Onde piú mesi dopo, ripreso in mano quell'infelice abbozzo mi cagionò un tal gelo nell'animo rileggendolo, e tosto poi m'infiammò di tal ira contro me stesso, che senza altrimenti proseguirne la tediosa lettura, lo buttai sul fuoco. Dal metodo ch'io qui ho prolissamente voluto individuare, ne è poi forse nato l'effetto seguente: che le mie tragedie prese in totalità, tra i difetti non pochi ch'io vi scorgo, e i molti che forse non vedo, elle hanno pure il pregio di essere, o di parere ai piú, fatte di getto, e di un solo attacco collegate in sé stesse, talché ogni parola e pensiero ed azione del quint'atto strettamente s'immedesima con ogni pensiero parola e disposizione del quarto risalendo sino ai primi versi del primo: cosa, che, se non altro, genera necessariamente attenzione nell'uditore, e calor nell'azione. Quindi è, che stesa cosí la tragedia, non rimanendo poi all'autore altro pensiere che di pacatamente verseggiarla scegliendo l'oro dal piombo, la sollecitudine che suol dare alla mente il lavoro dei versi e l'incontentabile passione dell'eleganza, non può piú nuocer punto al trasporto e furore a cui bisogna ciecamente obbedire nell'ideare e creare cose d'affetto e terribili. Se chi verrà dopo me giudicherà ch'io con questo metodo abbia ottenuto piú ch'altri efficacemente il mio intento, la presente disgressioncella potrà forse col tempo illuminare e giovare a qualcuno che professi quest'arte; ove io l'abbia sbagliato, servirà perché altri ne inventi un migliore.

Ripiglio il filo della narrazione. Giunse finalmente a Lerici quella tanto aspettata filucca; ed io, avuta la mia roba, immediatamente partii di Sarzana alla volta di Pisa, accresciuto il mio poetico patrimonio di quella Virginia di piú; soggetto che mi andava veramente a sangue. Già avea disegnato in me di non trattenermi questa volta in Pisa piú di due giorni; perché mi lusingava che per la lingua io profitterei assai piú in Siena dove si parla meglio, e vi son meno forestieri; perché nel soggiorno fattovi l'anno innanzi io mi vi era quasi mezzo invaghito di una bella e nobile signorina, la quale anche agiata di beni di fortuna mi sarebbe stata accordata in moglie dai suoi parenti, se io l'avessi chiesta. Ma su tal punto io era allora d'assai migliorato di alcuni anni prima in Torino, allorché avea consentito che il mio cognato chiedesse per me quella ragazza che poi non mi volle. Questa volta non volli io lasciar chiedere per me quella che mi avrebbe pur forse voluto, e che per l'indole, che per ogni altra ragione mi sarebbe convenuta, e mi piaceva anche non poco. Ma ott'anni di piú ch'io m'aveva, e tutta l'Europa quasi ch'io avea o bene o male veduta, e l'amor della gloria che m'era entrato addosso, e, la passion dello studio, e la necessità di essere, o di farmi libero, per poter essere intrepido e veridico autore, tutti questi caldissimi sproni mi facean passar oltre, e gridavanmi ferocemente nel cuore, che nella tirannide basta bene ed è anche troppo il viverci solo, ma che mai, riflettendo, vi si può né si dee diventare maritopadre. Perciò passai l'Arno, e mi trovai tosto in Siena. E sempre ho benedetto quel punto in cui ci capitai, perché in codesta città combinai un crocchietto di sei o sette individui dotati di un senno, giudizio, gusto e cultura, da non credersi in cosi picciol paese. Fra questi poi primeggiava di gran lunga il degnissimo Francesco Gori Gandellini, di cui piú d'una volta cara memoria non mi uscirà mai dal cuore. Una certa somiglianza nei nostri caratteri, lo stesso pensare e sentire (tanto piú raro e pregevole in lui che in me, attese le di lui circostanze tanto diverse dalle mie) ed un reciproco bisogno di sfogare il cuore ridondante delle passioni stesse, ci riunirono ben tosto in vera e calda amicizia. Questo santo legame della schietta amicizia era, ed è tuttavia, nel mio modo di pensare e di vivere un bisogno di prima necessità; ma la mia ritrosa e difficile e severa natura mi rende e renderà finch'io viva, poco atto ad inspirarla in altrui, e oltre modo ritenuto nel porre in altri la mia. Perciò nel corso del mio vivere pochissimi amici avrò avuti; ma mi vanto di averli avuti tutti buoni e stimabili assai piú di me. Né io mai altro ho cercato nell'amicizia se non se il reciproco sfogo delle umane debolezze, affinché il senno e amorevolezza dell'amico venisse attenuando in me e migliorando le non lodevoli e corroborando all'incontro e sublimando le poche lodevoli, e dalle quali l'uomo può trarre utile per altri ed onore per sé. Tale è la debolezza del volersi far autore. Ed in questa principalmente, i consigli generosi ed ardenti del Gandellini mi hanno certo prestato non piccolo soccorso ed impulso. Il desiderio vivissimo ch'io contrassi di meritarmi la stima di codesto raro uomo, mi diede subito una quasi nuova elasticità di mente, un'alacrítà d'intelletto, che non mi lasciava trovar luogopace, s'io non procreava prima qualche opera che fosse o mi paresse degna di lui. Né mai io ho goduto dell'intero esercizio delle mie facoltà intellettuali e inventive, se non se quando il mio cuore si ritrovava ripieno e appagato, e l'animo mio per cosí dire appoggiato o sorretto da un qualche altro ente gradito e stimabile. Che all'incontro quand'io mi vedeva senza un fatto appoggio quasi solo nel mondo, considerandomi come inutile a tutti e caro a nessuno, gli accessi di malinconia, di disinganno e disgusto d'ogni umana cosa, eran tali e spessi, ch'io passava allora dei giorni interi, e anco delle settímane senza né volerepotere toccar libropenna.

Per ottenere dunque e meritare la lode di un uomo cosí stimabile agli occhi miei quanto era il Gori, io mi posi in quell'estate a lavorare con un ardore assai maggiore di prima. Da lui ebbi il pensiero di porre in tragedia la congiura de' Pazzi. Il fatto m'era affatto ignoto, ed egli mi suggerí di cercarlo nel Machiavelli a preferenza di qualunque altro storico. Cosí, per una strana combinazione, quel divino autore che dovea poi in appresso farmisi una delle mie piú care delizie, mi veniva per la seconda volta posto in mano da un altro veracissimo amico, simile in molte cose al già tanto a me caro D'Acunha, ma molto piú erudito e colto di lui. Ed in fatti, benché il mio terreno non fosse preparato abbastanza per ricevere e fruttificare un tal seme, pure in quel luglio ne lessi di molti squarci qua e , oltre la narrazione del fatto della congiura. Quindi, non solo la tragedia ne ideai immediatamente, ma invasato, di quel suo dire originalissimo e sugoso, di a pochi giorni mi sentii costretto a lasciare ogni altro studio, e come inspirato e sforzato a scrivere d'un sol fiato i due libri della Tirannide; quasi per l'appunto quali poi molti anni appresso gli stampai. Fu quello uno sfogo di un animo ridondante e piagato fin dall'infanzia dalle saette dell'abborrita e universale oppressione. Se in età piú matura io avessi dovuto trattar di nuovo un tal tema, l'avrei forse trattato alquanto piú dottamente, corroborando l'opinione mia colla storia. Ma nello stamparlo non ho però voluto, col gelo degli anni e la pedanteria del mio poco sapere, indebolire in quel libro la fiamma di gioventú e di nobile e giusto sdegno, che ad ogni pagina d'esso mi parve avvampare, senza scompagnarsi da un certo vero e incalzante raziocinio che mi vi par dominare. Che se poi vi ho scorti degli sbagli, o delle amplificazioni, come figli d'inesperienza e non mai di mal animo, ce li ho voluti lasciare. Nessun fine secondo, nessuna privata vendetta mi inspirò quello scritto. Forse ch'io avrò o male, o falsamente sentito, ovvero con troppa passione. Ma e quando mai la passione pel vero e pel retto fu troppa, allorché massimamente si tratta di immedesimarla in altrui? Non ho detto che quanto ho sentito, e forse meno che piú. Ed in quella bollente età il giudicare e raziocinare non eran fors'altro che un puro e generoso sentire.

 

 

 




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