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Ludovico Ariosto Satire IntraText CT - Lettura del testo |
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SATIRA VII
A MESSER BONAVENTURA PISTOFILO DUCALE SECRETARIO
Pistofilo, tu scrivi che, se appresso papa Clemente imbasciator del Duca per uno anno o per dui voglio esser messo,
ch'io te ne avisi, acciò che tu conduca 5 la pratica; e proporre anco non resti qualche viva cagion che me vi induca:
che lungamente sia stato de questi Medici amico, e conversar con loro con gran dimestichezza mi vedesti,
10 quando eran fuorusciti, e quando fòro rimessi in stato, e quando in su le rosse scarpe Leone ebbe la croce d'oro;
che, oltre che a proposito assai fosse del Duca, estimi che tirare a mio 15 utile e onor potrei gran pòste e grosse;
che più da un fiume grande che da un rio posso sperar di prendere, s'io pesco. Or odi quanto acciò ti rispondo io.
Io te rengrazio prima, che più fresco 20 sia sempre il tuo desir in essaltarmi, e far di bue mi vogli un barbaresco;
poi dico che pel fuoco e che per l'armi a servigio del Duca in Francia e in Spagna e in India, non che a Roma, puoi mandarmi:
25 ma per dirmi ch'onor vi si guadagna e facultà, ritruova altro cimbello, se vuoi che l'augel caschi ne la ragna.
Perché, quanto all'onor, n'ho tutto quello ch'io voglio: assai mi può parer ch'io veggio 30 a più di sei levarmisi il capello,
perché san che talor col Duca seggio a mensa, e ne riporto qualche grazia se per me o per li amici gli la chieggio.
E se, come d'onor mi truovo sazia 35 la mente, avessi facultà a bastanza, il mio desir si fermeria, ch'or spazia.
Sol tanta ne vorrei, che viver sanza chiederne altrui mi fésse in libertade, il che ottener mai più non ho speranza,
40 poi che tanti mie' amici podestade hanno avuto di farlo, e pur rimaso son sempre in servitude e in povertade.
Non vuo' più che colei che fu del vaso de l'incauto Epimeteo a fuggir lenta 45 mi tiri come un bufalo pel naso.
Quella ruota dipinta mi sgomenta ch'ogni mastro di carte a un modo finge: tanta concordia non credo io che menta.
Quel che le siede in cima si dipinge 50 uno asinello: ognun lo enigma intende, senza che chiami a interpretarlo Sfinge.
Vi si vede anco che ciascun che ascende comincia a inasinir le prime membre, e resta umano quel che a dietro pende.
55 Fin che de la speranza mi rimembre, che coi fior venne e con le prime foglie, e poi fuggì senza aspettar settembre
(venne il dì che la Chiesa fu per moglie data a Leone, e che alle nozze vidi 60 a tanti amici miei rosse le spoglie;
venne a calende, e fuggì inanzi agli idi), fin che me ne rimembr, esser non puote che di promessa altrui mai più mi fidi.
La sciocca speme alle contrade ignote 65 salì del ciel, quel dì che 'l Pastor santo la man mi strinse, e mi baciò le gote;
ma, fatte in pochi giorni poi di quanto potea ottener le esperïenze prime, quanto andò in alto, in giù tornò altretanto.
70 Fu già una zucca che montò sublime in pochi giorni tanto, che coperse a un pero suo vicin l'ultime cime.
Il pero una matina gli occhi aperse, ch'avea dormito un lungo sonno, e visti 75 li nuovi frutti sul capo sederse,
le disse: «Che sei tu? come salisti qua su? dove eri dianzi, quando lasso al sonno abandonai questi occhi tristi?».
Ella gli disse il nome, e dove al basso 80 fu piantata mostrolli, e che in tre mesi quivi era giunta accelerando il passo.
«Et io» l'arbor soggiunse «a pena ascesi a questa altezza, poi che al caldo e al gielo con tutti i vènti trenta anni contesi.
85 Ma tu che a un volger d'occhi arrivi in cielo, rendite certa che, non meno in fretta che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo.»
Così alla mia speranza, che a staffetta mi trasse a Roma, potea dir chi avuto 90 pei Medici sul capo avea la cetta
o ne l'essilio avea lor sovenuto, o chi a riporlo in casa o chi a crearlo leon d'umil agnel gli diede aiuto.
Chi avesse avuto lo spirito di Carlo 95 Sosena allora, avria a Lorenzo forse detto, quando sentì duca chiamarlo;
et avria detto al duca di Namorse, al cardinal de' Rossi et al Bibiena (a cui meglio era esser rimaso a Torse),
100 e detto a Contessina e a Madalena, alla nora, alla socera, et a tutta quella famiglia d'allegrezza piena:
«Questa similitudine fia indutta più propria a voi, che come vostra gioia 105 tosto montò, tosto sarà distrutta:
tutti morrete, et è fatal che muoia Leone appresso, prima che otto volte torni in quel segno il fondator di Troia».
Ma per non far, se non bisognan, molte 110 parole, dico che fur sempre poi l'avare spemi mie tutte sepolte.
Se Leon non mi diè, che alcun de' suoi mi dia, non spero; cerca pur questo amo coprir d'altr'ésca, se pigliar me vuoi.
115 Se pur ti par ch'io vi debbia ire, andiamo; ma non già per onor né per ricchezza: questa non spero, e quel di più non bramo.
Più tosto di' ch'io lascierò l'asprezza di questi sassi, e questa gente inculta, 120 simile al luogo ove ella è nata e avezza;
e non avrò qual da punir con multa, qual con minaccie, e da dolermi ogni ora che qui la forza alla ragione insulta.
Dimmi ch'io potrò aver ozio talora 125 di riveder le Muse, e con lor sotto le sacre frondi ir poetando ancora.
Dimmi che al Bembo, al Sadoletto, al dotto Iovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida potrò ogni giorno, e al Tibaldeo, far motto;
130 tòr di essi or uno e quando uno altro guida pei sette Colli, che, col libro in mano, Roma in ogni sua parte mi divida.
«Qui» dica «il Circo, qui il Foro romano, qui fu Suburra, e questo è il sacro clivo; 135 qui Vesta il tempio e qui il solea aver Iano.»
Dimmi ch'avrò, di ciò ch'io leggo o scrivo, sempre consiglio, o da latin quel tòrre voglia o da tósco, o da barbato argivo.
Di libri antiqui anco mi puoi proporre 140 il numer grande, che per publico uso Sisto da tutto il mondo fe' raccorre.
Proponendo tu questo, s'io ricuso l'andata, ben dirai che triste umore abbia il discorso razional confuso.
145 Et io in risposta, come Emilio, fuore porgerò il piè, e dirò: «Tu non sa' dove questo calciar mi prema e dia dolore».
Da me stesso mi tol chi mi rimove da la mia terra, e fuor non ne potrei 150 viver contento, ancor che in grembo a Iove.
E s'io non fossi d'ogni cinque o sei mesi stato uno a passeggiar fra il Domo e le due statue de' Marchesi miei,
da sì noiosa lontananza domo 155 già sarei morto, o più di quelli macro che stan bramando in purgatorio il pomo.
Se pur ho da star fuor, mi fia nel sacro campo di Marte senza dubbio meno che in questa fossa abitar duro et acro.
160 Ma se 'l signor vuol farmi grazia a pieno, a sé mi chiami, e mai più non mi mandi più là d'Argenta, o più qua del Bondeno.
Se perché amo sì il nido mi dimandi, io non te lo dirò più volentieri 165 ch'io soglia al frate i falli miei nefandi;
che so ben che diresti: «Ecco pensieri d'uom che quarantanove anni alle spalle grossi e maturi si lasciò l'altro ieri!».
Buon per me ch'io me ascondo in questa valle, 170 né l'occhio tuo può correr cento miglia a scorger se le guancie ho rosse o gialle;
che vedermi la faccia più vermiglia, ben che io scriva da lunge, ti parrebbe, che non ha madonna Ambra né la figlia,
175 o che 'l padre canonico non ebbe quando il fiasco del vin gli cadde in piazza, che rubò al frate, oltre li dui che bebbe.
S'io ti fossi vicin, forse la mazza per bastonarmi piglieresti, tosto 180 che m'udissi allegar che ragion pazza non mi lasci da voi viver discosto.
- FINE - |
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