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Giordano Bruno
Degli eroici furori

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  • Parte 1
    • Dial.3
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Dial.3

1 \ TANS.\ Poneno, e sono, più specie de furori, li quali tutti si riducono a

doi geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità ed impeto

irrazionale che tende al ferino insensato; altri consisteno in certa divina

abstrazione per cui dovegnono alcuni megliori, in fatto, che uomini ordinarii. E

questi sono de due specie; perché altri, per esserno fatti stanza de dei o

spiriti divini, dicono ed operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri

intendano la raggione; e tali per l'ordinario sono promossi a questo da l'esser

stati prima indisciplinati ed ignoranti; nelli quali, come voti di proprio

spirito e senso, come in una stanza purgata, s'intrude il senso e spirito

divino. Il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria

raggione e senso, perché tal volta vuole, che il mondo sappia certo che se quei

non parlano per proprio studio ed esperienza, come è manifesto, séguite che

parlino ed oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli

uomini in tali degnamente ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi

o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido ed

intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale, suscitato dall'amor

della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del

desio e soffio dell'intenzione, acuiscono gli sensi; e nel solfro della

cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che

ordinariamente: e questi non vegnono, al fine, a parlar ed operar come vasi ed

instrumenti, ma come principali artefici ed efficienti.

2 \ CIC.\ Di questi doi geni quali stimi megliori?

3 \ TANS.\ Gli primi hanno più dignità, potestà ed efficacia in sé, perché hanno

la divinità; gli secondi son essi più degni, più potenti ed efficaci, e son

divini. Gli primi son degni come l'asino che porta li sacramenti; gli secondi

come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la divinità; e

quella s'admira, adora ed obedisce; ne gli secondi si considera e vede

l'eccellenza della propria umanitade.

4 Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo

messi in execuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son

negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure

farsi perfetto con trasformarsi ed assomigliarsi a quello. Non è un raptamento

sotto le leggi d'un fato indegno, con gli lacci de ferine affezioni; ma un

impeto razionale che siegue l'apprension intellettuale del buono e bello che

conosce, a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere; di sorte che della

nobiltà e luce di quello viene ad accendersi ed investirsi de qualitade e

condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto

intellettuale di quel nume oggetto; e d'altro non ha pensiero che de cose

divine, e mostrasi insensibile ed impassibile in quelle cose che comunmente

massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per

amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la

vita. Non è furor d'atra bile che fuor di conseglio, raggione ed atti di

prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta;

come quei, ch'avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono

condannati sotto la carnificina de le Furie, acciò sieno essagitati da una

dissonanza tanto corporale per sedizioni, ruine e morbi, quanto spirituale per

la iattura dell'armonia delle potenze cognoscitive ed appetitive. Ma è un calor

acceso dal sole intelligenziale ne l'anima e impeto divino che gl'impronta

l'ali; onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la

ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della

divina ed interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria

della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va

cespitando ed urtando or in questo, or in quell'altro fosso, or a questo or a

quell'altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa, or in quell'altra

faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e

stabilirsi. Ma senza distemprar l'armonia vince e supera gli orrendi mostri; e

per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi

instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splendor dell'universale

Apolline; e sotto l'imagini sensibili e cose materiali va comprendendo divini

ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l'amore, ch'è

gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defraudato dal suo

sforzo, allora come insano e furioso mette in precipizio l'amor di quello che

non può comprendere; onde confuso da l'abisso della divinità tal volta dismette

le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso dove non può

arrivare con l'intelletto. È vero pure che ordinariamente va spasseggiando, ed

ora più in una, or più in un'altra forma del gemino Cupido si trasporta; perché

la lezion principale che gli dona Amore, è che in ombra contemple (quando non

puote in specchio) la divina beltade; e come gli proci di Penelope s'intrattegna

con le fante, quando non gli lice conversar con la padrona. Or dunque, per

conchiudere, possete da quel ch'è detto, comprendere qual sia questo furioso di

cui l'imagine ne vien messa avanti, quando si dice:

Se la farfalla al suo splendor ameno

Vola, non sa ch'è fiamma al fin discara;

Se, quand'il cervio per sete vien meno,

Al rio va, non sa della freccia amara;

S'il lioncorno corre al casto seno,

Non vede il laccio che se gli prepara.

I' al lume, al fonte, al grembo del mio bene,

Veggio le fiamme, i strali e le catene.

S'è dolce il mio languire,

Perché quell'alta face sì m'appaga,

Perché l'arco divindolce impiaga,

Perché in quel nodo è avvolto il mio desire,

Mi fien eterni impacci

Fiamme al cor, strali al petto, a l'alma lacci.

5 Dove dimostra l'amor suo non esser come de la farfalla, del cervio e del

lioncorno, che fuggirebono s'avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli

lacci, e che non han senso d'altro che del piacere; ma vien guidato da un

sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che

altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que' legami che altra

libertade. Perché questo male non è absolutamente male; ma per certo rispetto al

bene secondo l'opinione, e falso, quale il vecchio Saturno ha per condimento nel

devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne l'occhio de

l'eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso

che questo fuoco è l'ardente desio de le cose divine, questa saetta è

l'impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci son le

specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità, e le specie del

bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso io

m'accostai, quando dissi:

D'un sì bel fuoco e d'un sì nobil laccio

Beltà m'accende, ed onestà m'annoda,

Ch'in fiamm'e servitù convien ch'io goda.

Fugga la libertade e tema il ghiaccio.

L'incendio è tal ch'io m'ardo e non mi sfaccio,

E 'l nodo è tal ch'il mondo meco il loda,

Né mi gela timor, né duol mi snoda;

Ma tranquillo è l'ardor, dolce l'impaccio.

Scorgo tant'alto il lume che m'infiamma,

E 'l laccio ordito di sì ricco stame,

Che nascendo il pensier, more il desio.

Poiché mi splend'al corbella fiamma,

E mi stringe il voler sì bel legame,

Sia serva l'ombra, ed arda il cener mio.

6 Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali

e cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno

per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si

comunica all'anime e risplende in quelle; e da quelle poi o, per dir meglio, per

quelle poi si comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato ama gli

corpi o la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito.

Anzi quello che n'innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in

esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori

o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza

de membri e colori. Questa mostra certa sensibile affinità col spirito a gli

sensi più acuti e penetrativi; onde séguita che tali più facilmente ed

intensamente s'innamorano; ed anco più facilmente si disamorano, e più

intensamente si sdegnano, con quella facilità ed intensione, che potrebbe essere

nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto ed espressa intenzione

si faccia aperto; di sorte che tal bruttezza trascorre da l'anima al corpo, a

farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dunque del corpo ha

forza d'accendere, ma non già di legare e far che l'amante non possa fuggire, se

la grazia, che si richiede nel spirito, non soccorre, come la onestà, la

gratitudine, la cortesia, l'accortezza. Però dissi bello quel fuoco che

m'accese, perché ancor fu nobile il laccio che m'annodava.

7 \ CIC.\ Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta, quantunque

discuopriamo vizioso il spirito, non lasciamo però di rimaner accesi ed

allacciati; di maniera che, quantunque la raggion veda il male ed indignità di

tale amore, non ha però efficacia d'alienar il disordinato appetito. Nella qual

disposizion credo che fusse il Nolano, quando disse:

Oimè, che son constretto dal furore

D'appigliarmi al mio male,

Ch'apparir fammi un sommo ben Amore.

Lasso, a l'alma non cale,

Ch'a contrarii consigli unqua ritenti;

E del fero tiranno,

Che mi nodrisce in stenti,

E poté pormi da me stesso in bando,

Più che di libertade i' son contento.

Spiego le vele al vento,

Che mi suttraga a l'odioso bene,

E tempestoso al dolce danno amene.

8 \ TANS.\ Questo accade, quando l'uno e l'altro spirto è vizioso e son tinti

come di medesimo inchiostro, atteso che dalla conformità si suscita, accende e

si confirma l'amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo

vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco: che

quantunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com'è dire

una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di

ricevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii

quest'ultimo massime dispiace, perché toglie la speranza a l'amante, che per

esser egli, o farsi, più degno, possa da lei esser più accettato); tutta volta

non mancava ch'io ardesse per la beltà corporale. Ma che? io l'amavo senza buona

volontà, essendo che non per questo m'arrei più contristato che allegrato delle

sue disgrazie ed infortunii.

9 \ CIC.\ Però è molto propria ed a proposito quella distinzion che fanno intra

l'amare e voler bene.

10 \ TANS.\ È vero; perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano

savii e giusti, ma non le amiamo, perché sono iniqui ed ignoranti; molti amiamo,

perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano. E tra l'altre

cose che stima l'amante quello non meritare, la prima è d'essere amato; e però

benché non possa astenersi d'amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il

suo rincrescimento, come costui che diceva: Oimè, ch'io son costretto dal furore

D'appigliarmi al mio male. In contraria disposizione fu, o per altro oggetto

corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse:

Bench'a tanti martir mi fai suggetto.

Pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore,

Che con sì nobil piaga apriste il petto,

E tal impadroniste del mio core,

Per cui fia ver, ch'un divo e viv'oggetto,

De Dio più bella imago 'n terra adore;

Pensi chi vuol ch'il mio destin sia rio,

Ch'uccid'in speme e fa viv'in desio.

Pascomi in alta impresa;

E bench'il fin bramato non consegua,

E 'n tanto studio l'alma si dilegua,

Basta che sia sì nobilment'accesa;

Basta ch'alto mi tolsi,

E da l'ignobil numero mi sciolsi.

11 L'amor suo qua è a fatto eroico e divino; e per tale voglio intenderlo,

benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante, ch'è

disunito e separato da la cosa amata (alla quale com'è congionto con l'affetto,

vorrebe essere con l'effetto), si trova in cordoglio e pena, si crucia e si

tormenta: non già perché ami, atteso che degnissima- e nobilissimamente sente

impiegato l'amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se

fusse gionto a quel termine al qual tende. Non dole per il desio che l'avviva,

ma per la difficultà del studio ch'il martora. Stiminlo dunque altri a sua posta

infelice per questa apparenza de rio destino, come che l'abbia condannato a

cotai pene; perché egli non lasciarà per tanto de riconoscer l'obligo ch'ave ad

Amore, e rendergli grazie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la

mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita, rinchiuso in

questa priggione de la carne, ed avvinto da questi nervi, e confirmato da queste

ossa, li sia lecito di contemplar più altamente la divinitade, che se altra

specie e similitudine di quella si fusse offerta.

12 \ CIC.\ Il divo dunque e vivo oggetto, ch'ei dice, è la specie intelligibile

più alta che egli s'abbia possuto formar della divinità; e non è qualche

corporal bellezza che gli adombrasse il pensiero, come appare in superficie del

senso?

13 \ TANS.\ Vero, perché nessuna cosa sensibile, né specie di quella, può

inalzarsi a tanta dignitade.

14 \ CIC.\ Come dunque fa menzione di quella specie per oggetto, se, come mi

pare, il vero oggetto è la divinità istessa?

15 \ TANS.\ La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo, non già in questo stato

dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio; e però non ne può

esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale qual possa esser

abstratta ed acquistata da bellezza ed eccellenza corporea per virtù del senso;

ma qual può esser formata nella mente per virtù de l'intelletto. Nel qual stato

ritrovandosi, viene a perder l'amore ed affezion d'ogni altra cosa tanto

sensibile quanto intelligibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume

essa ancora, e per consequenza si fa un Dio: perché contrae la divinità in sé,

essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto

si può), ed essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a

conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto.

Or di queste specie e similitudini si pasce l'intelletto umano da questo mondo

inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la

bellezza della divinitade. Come accade a colui che è gionto a qualch'edificio

eccellentissimo ed ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello,

si aggrada, si contenta, si pasce d'una nobil maraviglia; ma se avverrà poi che

vegga il signor di quelle imagini, di bellezza incomparabilmente maggiore,

lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto ed intento a considerar

quell'uno. Ecco dunque come è differenza in questo stato dove veggiamo la divina

bellezza in specie intelligibili tolte da gli effetti, opre, magisteri, ombre e

similitudini di quella; ed in quell'altro stato dove sia lecito di vederla in

propria presenza.

16 Dice appresso: Pascomi d'alt'impresa, perché (come notano gli pitagorici)

cossì l'anima si versa e muove circa Dio, come il corpo circa l'anima.

17 \ CIC.\ Dunque, il corpo non è luogo de l'anima?

18 \ TANS.\ Non; perché l'anima non è nel corpo localmente, ma come forma

intrinseca e formatore estrinseco; come quella che fa gli membri, e figura il

composto da dentro e da fuori. Il corpo dunque è ne l'anima, l'anima nella

mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza

è in Dio che è la sua vita, similmente per l'operazione intellettuale e la

voluntà conseguente dopo tale operazione, si referisce alla sua luce e beatifico

oggetto. Degnamente dunque questo affetto de l'eroico furore si pasce de sì alta

impresa. Né per questo che l'obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la

nostra potenza intellettiva non può apprendere l'infinito se non in discorso, o

in certa maniera de discorso, com'è dire in certa raggione potenziale o

aptitudinale, è come colui che s'amena a la consecuzion de l'immenso onde vegna

a constituirse un fine dove non è fine.

19 \ CIC.\ Degnamente, perché l'ultimo fine non deve aver fine, atteso che

sarebe ultimo. È dunque infinito in intenzione, in perfezione, in essenza ed in

qualsivoglia altra maniera d'esser fine.

20 \ TANS.\ Dici il vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che

più accende, che possa appagar il desìo, come ben mostra quel divino poeta, che

disse: Bramando è lassa l'alma a Dio vivente; ed in altro luogo: Attenuati sunt

oculi mei suspicientes in excelsum. Però dice: E bench'il fin bramato non

consegua, E 'n tanto studio l'alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente

accesa: vuol dire, ch'in tanto l'anima si consola e riceve tutta la gloria che

può ricevere in cotal stato, e che sia partecipe di quell'ultimo furor de

l'uomo, in quanto uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come

ne veggiamo.

21 \ CIC.\ Mi par che gli peripatetici (come esplicò Averroe) vogliano intender

questo, quando dicono la somma felicità de l'uomo consistere nella perfezione

per le scienze.speculative.

22 \ TANS.\ È vero, e dicono molto bene; perché noi in questo stato nel qual ne

ritroviamo, non possiamo desiderarottener maggior perfezione che quella in

cui siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil specie

intelligibile s'unisce o alle sustanze separate, come dicono costoro, o a la

divina mente, come è modo de dir de platonici. Lascio per ora di raggionar de

l'anima, o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi.

23 \ CIC.\ Ma che perfezione o satisfazione può trovar l'uomo in quella

cognizione la quale non è perfetta?

24 \ TANS.\ Non sarà mai perfetta per quanto l'altissimo oggetto possa esser

capito, ma per quanto l'intelletto nostro possa capire: basta che in questo ed

altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s'estende l'orizonte

della vista sua.

25 \ CIC.\ Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar

uno o doi.

26 \ TANS.\ Basta che tutti corrano; assai è ch'ognun faccia il suo possibile;

perché l'eroico ingegno si contenta più tosto di cascar o mancar degnamente e

nell'alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a

perfezione in cose men nobili e basse.

27 \ CIC.\ Certo che meglio è una degna ed eroica morte, che un indegno e vil

trionfo.

28 \ TANS.\ A cotal proposito feci questo sonetto:

Poi che spiegat'ho l'ali al bel desio,

Quanto più sott'il piè l'aria mi scorgo,

Più le veloci penne al vento porgo,

E spreggio il mondo, e vers'il ciel m'invio.

Né del figliuol di Dedalo il fin rio

Fa che giù pieghi, anzi via più risorgo.

Ch'i' cadrò morto a terra, ben m'accorgo,

Ma qual vita pareggia al morir mio?

La voce del mio cor per l'aria sento:

 Ove mi porti, temerario? China,

Che raro è senza duol tropp'ardimento.

 Non temer, respond'io, l'alta ruina.

Fendi sicur le nubi, e muor contento,

S'il cielillustre morte ne destina.

29 \ CIC.\ Io intendo quel che dice: basta ch'alto mi tolsi; ma non quando dice:

e da l'ignobil numero mi sciolsi, s'egli non intende d'esser uscito fuor de

l'antro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca ed ignobilissima

moltitudine; essendo che quei che profittano in questa contemplazione, non

possono esser molti e numerosi.

30 \ TANS.\ Intendi molto bene. Oltre, per l'ignobil numero può intendere il

corpo e sensual cognizione, dalla quale bisogna alzarsi e disciôrsi chi vuol

unirsi alla natura di contrario geno.

31 \ CIC.\ Dicono gli platonici due sorte de nodi con gli quali l'anima è legata

al corpo. L'uno è certo atto vivifico che da l'anima come un raggio scende nel

corpo; l'altro è certa qualità vitale che da quell'atto risulta nel corpo. Or

questo numero nobilissimo movente, ch'è l'anima, come.intendete che sia

disciolto da l'ignobil numero, ch'è il corpo?

32 \ TANS.\ Certo non s'intendeva secondo alcun modo di questi; ma secondo quel

modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la

materia, e qualche volta come sopite ed inebriate si trovano quasi ancora esse

occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; talor come

risvegliate e ricordate di se stesse, riconoscendo il suo principio e geno, si

voltano alle cose superiori, si forzano al mondo intelligibile, come al natio

soggiorno; quali tal volta da , per la conversione alle cose inferiori, si son

trabalsate sotto il fato e termini della generazione. Questi doi appolsi son

figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che

dice:

Quel dio che scuote il folgore sonoro,

Asterie vedde furtivo aquilone,

Mnemosine pastor, Danae oro,

Alcmena pesce, Antiopa caprone;

Fu di Cadmo a le suore bianco toro,

A Leda cigno, a Dolide dragone:

Io per l'altezza de l'oggetto mio

Da suggetto più vil dovegno un dio.

Fu cavallo Saturno,

Nettun delfin, e vitello si tenne

Ibi, e pastor Mercurio dovenne,

Un'uva Bacco, Apollo un corvo furno;

Ed io, mercé d'amore,

Mi cangio in dio da cosa inferiore.

33 Nella natura è una revoluzione ed un circolo per cui, per l'altrui perfezione

e soccorso, le cose superiori s'inchinano all'inferiori, e per propria

eccellenza e felicitade le cose inferiori s'inalzano alle superiori. Però

vogliono i pitagorici e platonici esser donato a l'anima, ch'a certi tempi non

solo per spontanea voluntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature; ma

ed anco della necessità d'una legge interna scritta e registrata dal decreto

fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che

l'anime non tanto per certa determinazione e proprio volere, come ribelle,

declinano dalla divinità, quanto per certo ordine per cui vegnono affette verso

la materia: onde, non come per libera intenzione, ma come per certa occolta

conseguenza vegnono a cadere. E questa è l'inclinazion ch'hanno alla

generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico, per quanto appartiene a

quella natura particolare; non già per quanto appartiene alla natura universale,

dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la giustizia).

Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversione che vicissitudinalmente

succede) de nuovo ritornano a gli abiti superiori.

34 \ CIC.\ Sì che vogliono costoro che l'anime sieno spinte dalla necessità del

fato, e non hanno proprio consiglio che le guide a fatto?

35 \ TANS.\ Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà nelle.cose giustamente e

senza errore ordinate, tutti concorreno in uno. Oltre che, come riferisce

Plotino, vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le

quali prima che se gli confirme l'abito corporale, conoscendo il periglio,

rifuggono alla mente. Perché la mente l'inalza alle cose sublimi, come

l'imaginazion l'abbassa alle cose inferiori; la mente le mantiene nel stato ed

identità come l'imaginazione nel moto e diversità; la mente sempre intende uno,

come l'imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà

razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l'uno con la

moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l'inferiore col

superiore.

36 Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle

metamorfosi, dove siede l'uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo,

un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, ed un mezzo bestia e mezzo

uomo ascende de la destra. Questa conversione si mostra dove Giove, secondo la

diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s'investisce

de diverse figure, dovenendo in forma de bestie; e cossì gli altri dei

transmigrano in forme basse ed aliene. E per il contrario, per sentimento della

propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico,

inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l'ali de

l'intelletto e voluntade intellettiva s'inalza alla divinitade, lasciando la

forma de suggetto più basso. E però disse: Da suggetto più vil dovegno un Dio,

Mi cangio in Dio da cosa inferiore.




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