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Giordano Bruno
Degli eroici furori

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Parte 2

Dial.1

Interlocutori: Cesarino, Maricondo.

1 \ CES.\ Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo,

quando tutto l'universo da ogni parte risponde eccellentemente. E questo stimano

allor che tutti gli pianeti ottegnono l'Ariete, essendo che quello de l'ottava

sfera ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l'altro

zodiaco. Le cose peggiori e più basse vogliono che abbiano loco quando domina la

contraria disposizione ed ordine: però per forza di vicissitudine accadeno le

eccessive mutazioni dal simile al dissimile, dal contrario a l'altro. La

revoluzion dunque, ed anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da

abiti ed effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contrarii si ritorna al

medesimo: come veggiamo ne gli anni particolari, qual è quello del sole, dove il

principio d'una disposizione contraria è fine de l'altra, ed il fine di questa è

principio di quella. Però ora che siamo stati nella feccia delle scienze, che

hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli

costumi ed opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati.

2 \ MAR.\ Sappi, fratel mio, che questa successione ed ordine de le cose è

verissima e certissima: ma al nostro riguardo sempre, in qualsivoglia stato

ordinario, il presente più ne afflige che il passato, ed ambi doi insieme manco

possono appagarne che il futuro, il quale è sempre in aspettazione e speranza,

come ben puoi veder designato in questa figura la quale è tolta dall'antiquità

de gli Egizii, che fêrno cotal statua che sopra un busto simile a tutti tre

puosero tre teste, l'una di lupo che remirava a dietro, l'altra di leone che

avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per

significare che le cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le

cose presenti che in effetto ne tormentano, ma sempre per l'avenire ne

prometteno meglio. Però è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso

il cane che applaude.

3 \ CES.\ Che contiene quel motto ch'è sopra scritto?

4 \ MAR.\ Vedi che sopra il lupo è Iam, sopra il leone Modo, sopra il cane

Praeterea, che son dizioni che significano le tre parti del tempo.

5 \ CES.\ Or leggete quel ch'è nella tavola.

6 \ MAR.\ Cossì farò.

Un alan, un leon, un can appare

A l'auror, al chiaro, al vespr'oscuro.

Quel che spesi, ritegno e mi procuro,

Per quanto mi si dié, si , può dare.

Per quel che feci, faccio ed ho da fare

Al passato, al presente ed al futuro,

Mi pento, mi tormento, m'assicuro,

Nel perso, nel soffrir, nell'aspettare.

Con l'agro, con l'amaro, con il dolce

L'esperienza, i frutti, la speranza

Mi minacciò, m'amigono, mi molce.

L'età che vissi, che vivo, ch'avanza

Mi fa tremante, mi scuote, mi folce,

In absenza, presenza e lontananza.

Assai, troppo, a bastanza

Quel di già, quel di ora, quel d'appresso

M'hanno in timor, martir e spene messo.

7 \ CES.\ Questa a punto è la testa d'un furioso amante; quantunque sia de quasi

tutti gli mortali, in qualunque maniera e modo siano malamente affetti; perché

non doviamo, né possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a

quelli che furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch'ha cercato un regno ed

ora il possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch'ha lavorato per

acquistar gli frutti de l'amore, come è la particular grazia de la cosa amata,

conviene il morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo,

quando ne ritroviamo nelle tenebre e male, possiamo sicuramente profetizar la

luce e prosperitade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio

possiamo aspettar il successo de l'ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio

Trimigisto che per veder l'Egitto in tanto splendor de scienze e divinazioni,

per le quali egli stimava consorti de gli demoni e dei, e per conseguenza

religiosissimi, fece quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano

succedere le tenebre de nove religioni e culti, e de cose presenti non dover

rimaner altro che favole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei, quando

erano schiavi nell'Egitto e banditi nelli deserti, erano confortati da lor

profeti con l'aspettazione de libertà ed acquisto di patria; quando furono in

stato di domìno e tranquillità, erano minacciati de dispersione e cattività;

oggi che non è malevituperio a cui non siano suggetti, non è beneonore

che non si promettano. Similmente accade a tutte l'altre generazioni e stati: li

quali se durano e non sono annichilati a fatto, per forza della vicissitudine

delle cose, è necessario dal male vegnano al bene, dal bene al male, dalla

bassezza a l'altezza, da l'altezza alla bassezza, da le oscuritadi al splendore,

dal splendor alle oscuritadi. Perché questo comporta l'ordine naturale; oltre il

qual ordine, se si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho

da disputarne, perché non raggiono con altro spirito che naturale.

8 \ MAR.\ Sappiamo che non fate il teologo ma filosofo, e che trattate filosofia

non teologia.

9 \ CES.\ Cossì è. Ma veggiamo quel che séguita.

10 \ CES.\ Veggio appresso un fumante turribolo che è sustenuto da un braccio;

ed il motto che dice: Illius aram; ed appresso l'articolo seguente:

Or chi quell'aura de mia nobil brama

D'un ossequio divin credrà men degna

s'in diverse tabelle ornata vegna

Da voti miei nel tempio de la fama?

Perch'altra impresa eroica mi richiama,

Chi pensarà giamai che men convegna

Ch'al suo culto cattivo mi ritegna.

Quella ch'il ciel onora tanto ed ama?

Lasciatemi, lasciate, altri desiri,

Importuni pensier, datemi pace.

Perché volete voi ch'io mi ritiri

Da l'aspetto del sol che sì mi piace?

Dite di me piatosi: - Perché miri

Quel che per remirar sì ti disface?

Perché di quella face

Sei vago sì? - Perché mi fa contento,

Più ch'ogn'altro piacer, questo tormento.

11 \ MAR. \ A proposito di questo io ti dicevo che, quantunque un rimagna fisso

su una corporal bellezza e culto esterno, può onorevolmente e degnamente

trattenirsi; purché dalla bellezza materiale, la quale è un raggio e splendor

della forma ed atto spirituale, di cui è vestigio ed ombra, vegna ad inalzarsi

alla considerazion e culto della divina bellezza, luce e maestade; di maniera

che da queste cose visibili vegna a magnificar il core verso quelle che son

tanto più eccellenti in sé e grate a l'animo ripurgato, quanto son più rimosse

da la materia e senso. Oimè, dirà, se una bellezza umbratile, fosca, corrente,

depinta nella superficie de la materia corporale, tanto mi piace e tanto mi

commuove l'affetto, m'imprime nel spirito non so che riverenza di maestade, mi

si cattiva e tanto dolcemente mi lega e mi s'attira, ch'io non trovo cosa che mi

vegna messa avanti da gli sensi che tanto m'appaghe; che sarà di quello che

sustanzialmente, originalmente, primitivamente è bello? che sarà de l'anima mia,

dell'intelletto divino, della regola de la natura? Conviene dunque, che la

contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la ripurgazion de

l'animo mio all'imitazione, conformità e participazione di quella più degna ed

alta, in cui mi transforme ed a cui mi unisca; perché son certo che la natura

che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha dotato di senso

interiore, per cui posso argumentar bellezza più profonda ed incomparabilmente

maggiore, voglia ch'io da qua basso vegna promosso a l'altezza ed eminenza di

specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume, come me si mostra in

vestigio ed imagine, voglia sdegnarsi che in imagine e vestigio vegna ad

onorarlo, a sacrificargli, con questo ch'il mio core ed affetto sempre sia

ordinato, e rimirare più alto; atteso che chi può esser quello che possa

onorarlo in essenza e propria sustanza, se in tal maniera non può comprenderlo?

12 \ CES.\ Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico spirito tutte le cose

si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in frutto di maggior

libertade, e l'esser vinto una volta convertiscono in occasione di maggior

vittoria. Ben sai che l'amor di bellezza corporale a color che son ben disposti,

non solamente non apporta ritardamento da imprese maggiori, ma più tosto viene

ad improntargli l'ali per venire a quelle; allor che la necessità de l'amore è

convertita in virtuoso studio, per cui l'amante si forza di venire a termine nel

quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella

ancora; onde sia o che vegna contento d'aver guadagnato quel che brama, o

sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui degnamente possa spregiar

l'altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o

si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre

verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al

desiderio della divina bellezza in se stessa, senza similitudine, figura,

imagine e specie, se sia possibile; e più, se sa arrivare a tanto.

13 \ MAR.\ Vedi dunque, Cesarino, come ha raggione questo furioso di risentirsi

contra coloro che lo riprendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti

e appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo

richiamano a più alte imprese: essendo che, come queste basse cose derivano da

quelle ed hanno dependenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come

per proprii gradi. Queste, se non son Dio, son cose divine, sono imagini sue

vive: nelle quali non si sente offeso, se si vede adorare; perché abbiamo ordine

del superno spirito che dice: Adorate scabellum pedum eius. Ed altrove disse un

divino imbasciatore: Adorabimus ubi steterunt pedes eius.

14 \ CES.\ Dio, la divina bellezza e splendore riluce ed è in tutte le cose;

però non mi pare errore d'admirarlo in tutte le cose, secondo il modo che si

comunica a quelle. Errore sarà certo, se noi donaremo ad altri l'onor che tocca

a lui solo. Ma che vuol dir quando dice: Lasciatemi, lasciate, altri desiri?

15 \ MAR.\ Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresentano altri oggetti che

non hanno forza di commoverlo tanto, e che gli vogliono involar l'aspetto del

sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l'altre.

16 \ CES.\ Come, importunato da pensieri, si sta constante a remirar quel

splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna

fortemente a tormentarlo?

17 \ MAR.\ Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non

sono senza gli suoi disconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti.

Come più grande è il timore d'un re che consiste su la perdita d'un regno, che

di un mendico che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente

la cura d'un prencipe sopra una republica, che d'un rustico sopra un grege de

porci; come gli piaceri e delicie di quelli forse son più grandi che le delicie

di questi. Però l'amare ed aspirar più alto mena seco maggior gloria e maestà

con maggior cura, pensiero e doglia: intendo in questo stato dove l'un contrario

sempre è congionto a l'altro, trovandosi la massima contrarietade sempre nel

medesimo geno, e per consequenza circa medesimo suggetto, quantunque gli

contrarii non possano essere insieme. E cossì proporzionalmente nell'amor di

Cupido superiore, come dechiarò l'Epicureo poeta nel cupidinesco volgare e

animale, quando disse:

Fluctuat incertis erroribus ardor amantum,

Nec constat quid primum oculis manibusque fruantur:

Quod petiere, premunt arte, faciuntque dolorem

Corporis, et dentes inlidunt saepe labellis

Osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas.

Et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum,

Quodcunque est, rabies, unde illa haec germina surgunt.

Sed leviter paenas frangit Venus inter amorem,

Blandaque refraenat morsus admixta voluptas;

Namque in eo spes est, unde est ardoris origo,

Restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.

18 Ecco dunque con quali condimenti il magistero ed arte della natura fa che un

si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del

tormento, e tormentato in mezzo de tutte le contentezze; atteso che nulla si fa

absolutamente da un pacifico principio, ma tutto da contrarii principii per

vittoria e domìno d'una parte della contrarietade; e non è piacere di

generazione da un canto senza dispiacere di corrozione da l'altro; e dove queste

cose che si generano e corrompono, sono congionte e come in medesimo suggetto

composto, si trova il senso di delettazione e tristizia insieme. Di sorte che

vegna nominata più presto delettazione che tristizia, se aviene che la sia

predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso.

19 \ CES.\ Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch'è d'una fenice che

arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splendor di quello, dal

cui calore vien infiammata; ed evvi la nota che dice: Neque simile, nec par.

20 \ MAR.\ Leggasi l'articolo prima:

Questa fenice ch'al bel sol s'accende,

E a dramma a dramma consumando vassi,

Mentre di splendor cint'ardendo stassi,

Contrario fio al suo pianeta rende;

Perché quel che da lei al ciel ascende,

Tepido fumo ed atra nebbia fassi,

Ond'i raggi a' nostri occhi occolti lassi

E quello avvele, per cui arde e splende.

Tal il mio spirto (ch'il divin splendore

Accende e illustra) mentre va spiegando

Quel che tanto riluce nel pensiero,

Manda da l'alto suo concetto fore

Rima, ch'il vago sol vad'oscurando,

Mentre mi struggo e liquefaccio intiero.

Oimè! questo adro e nero

Nuvol di foco infosca col suo stile

Quel ch'aggrandir vorrebbe, e 'l rend'umile.

21 \ CES.\ Dice dunque costui che, come questa fenice, venendo dal splendor del

sole accesa ed abituata di luce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo

quel fumo che oscura quello che l'ha resa lucente; cossì egli, infiammato ed

illuminato furioso, per quel che fa in lode di tanto illustre suggetto che gli

ave acceso il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che

ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si

risolve la sustanza di lui.

22 \ MAR.\ Io senza che metta in bilancio e comparazione gli studi di costui,

torno a dire quel che ti dicevo l'altr'ieri, che la lode è uno de gli più gran

sacrificii.che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte

il proposito del divino, ditemi: chi conoscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri

greci e troiani capitani; chi arrebe notizia de tanti grandi soldati, sapienti

ed eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e deificati per il

sacrificio de laude, che nell'altare del cor de illustri poeti ed altri

recitatori ave acceso il fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il

sacrificatore, la vittima ed il canonizato divo, per mano e voto di legitimo e

degno sacerdote?

23 \ CES.\ Ben dici di degno e legitimo sacerdote; perché degli apposticci n'è

pieno oggi il mondo, li quali, come sono per ordinario indegni essi loro, cossì

vegnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma

la providenza vuole che, in luogo d'andar gli uni e gli altri al cielo, sen

vanno giontamente alle tenebre de l'Orco; onde fia vana e la gloria di quel che

celebra, e di quel ch'è celebrato; perché l'uno ha intessuta una statua di

paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina, e

l'altro, idolo d'infamia e vituperio, non sa che non gli bisogna aspettar gli

denti de l'evo e la falce di Saturno per esser messo giù; stante che dal suo

encomico medesimo vien sepolto vivo all'ora all'ora propria che vien lodato,

salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza

di quel tanto celebrato Mecenate, il quale, se non avesse avuto altro splendore

che de l'animo inchinato alla protezione e favor delle Muse, sol per questo

meritò che gl'ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a

metterlo nel numero de più famosi eroi che abbiano calpestrato il dorso de la

terra. Gli propri studii ed il proprio splendore l'han reso chiaro e

nobilissimo, e non l'esser nato d'atavi regi, non l'esser gran secretario e

consegliero d'Augusto. Quello, dico, che l'ha fatto illustrissimo, è l'aversi

fatto degno dell'execuzion della promessa di quel poeta che disse:

Fortunati ambo, si quid mea carmina possunt,

Nulla dies unquam memori vos eximet aevo,

Dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum

Accolet, imperiumque pater Romanus habebit.

24 \ MAR.\ Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove referisce

le paroli d'Epicuro ad un suo amico, che son queste: Se amor di gloria ti tocca

il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest'altre

cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare.

Similmente arria possuto dire Omero, se si gli fusse presentato avanti Achille o

Ulisse, Vergilio a Enea ed alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse

quel filosofo morale, è più conosciuto Domenea per le lettere di Epicuro, che

tutti gli megistani satrapi e regi, dalli quali pendeva il titolo di Domenea e

la memoria de gli quali venia suppressa dall'alte tenebre de l'oblio. Non vive

Attico per essere genero d'Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l'epistole de

Tullio; Druso, pronepote di Cesare, non si trovarebbe nel numero de' nomi tanto

grandi, se non vi l'avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una

profonda altezza di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo.

Or per venire al proposito di questo furioso, il quale, vedendo una fenice

accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi che come quella, per

luce ed incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode

all'olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol

raggionare, ma e né men pensare di cose divine che non vengamo a detraergli più

tosto che aggiongergli di gloria, di sorte che la maggior cosa che farsi possa

al riguardo di quelle, è che l'uomo in presenza de gli altri uomini vegna più

tosto a magnificar se stesso per il studio ed ardire, che donar splendore ed

altro per qualche compita e perfetta azione. Atteso che cotale non può

aspettarsi dove si fa progresso all'infinito, dove l'unità ed infinità son la

medesima cosa; e non possono essere perseguitate da l'altro numero, perché non è

unità, né da altra unità, perché non è numero, né da altro numero ed unità

perché non sono medesimo absoluto ed infinito. onde ben disse un teologo che,

essendo che il fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora

gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e

paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata.

25 \ CES.\ Non già col silenzio de gli animali bruti ed altri che sono ad

imagine e similitudine d'uomini, ma di quelli, il silenzio de quali è più

illustre che tutti gli cridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser

uditi.

26 \ MAR.\ Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto.

27 \ CES.\ Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo

fuoco in forma di core con quattro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove

tutto il composto è cinto de luminosi raggi, ed hassi incirca scritta la

questione: Nitimur in cassum?

28 \ MAR.\ Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito ed

occhi del furioso; ma leggiamo l'articolo:

Questa mente ch'aspira al splendor santo,

Tant'alti studi disvelar non ponno;

Il cor, che recrear que' pensier vonno,

Da guai non può ritrarsi più che tanto;

Il spirto che devria posarsi alquanto

D'un momento al piacer, non si fa donno;

Gli occhi ch'esser derrian chiusi dal sonno,

Tutta la notte son aperti al pianto.

Oimè, miei lumi, con qual studio ed arte

Tranquillar posso i travagliati sensi?

Spirto mio, in qual tempo ed in quai parti

Mitigarò gli tuoi dolori intensi?

E tu, mio cor, come potrò appagarti

Di quel ch'al grave tuo suffrir compensi?

Quand'i debiti censi

Daratti l'alma, o travagliata mente,

Col cor, col spirto e con gli occhi dolente?

29 Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la turba, si

ritira dalla commune opinione: non solo, dico, e tanto s'allontana dalla

multitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinioni e sentenze;

atteso che per contraer vizii ed ignoranze tanto è maggior periglio, quanto è

maggior il popolo a cui s'aggionge. Nelli publici spettacoli, disse il filosofo

morale, mediante il piacere più facilmente gli vizii s'ingeriscono. Se aspira al

splendor alto, ritiresi quanto può all'unità, contraasi quanto è possibile in se

stesso, di sorte che non sia simile a molti, perché son molti; e non sia nemico

de molti, perché son dissimili, se possibil sia serbar l'uno e l'altro bene;

altrimente s'appiglie a quel che gli par megliore.

30 Conversa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da gli quali lui

possa esser fatto megliore, per splendor che possa donar a quelli, o da quelli

possa ricever lui. Contentesi più d'uno idoneo che de l'inetta moltitudine. Né

stimarà d'aver acquistato poco, quando è dovenuto a tale che sia savio per sé,

sovvenendogli quel che dice Democrito: Unus mihi pro populo est, et populus pro

uno; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii, scrivendo: Haec tibi,

non multis; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus.

31 La mente dunque ch'aspira alto, per la prima lascia la cura della

moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si trova se

non dove è l'intelligenza; e non dove è ogni intelligenza, ma quella che è tra

le poche, principali e prime la prima, principale ed una.

32 \ CES.\ Come intendi che la mente aspira alto? verbi grazia, con guardar

sempre alle stelle? al cielo empireo? sopra il cristallino?

33 \ MAR.\ Non certo, ma procedendo al profondo della mente, per cui non fia

mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al

tempio, intonar l'orecchie de simulacri, onde più si vegna exaudito; ma venir al

più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più

ch'egli medesimo esser non si possa; come quello ch'è anima de le anime, vita de

le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso, o

incirca (come ti piace dire) degli astri, son corpi, son fatture simili a questo

globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità presente che

in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dunque come bisogna fare primeramente

de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a tale che non

stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii

combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve

respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso

monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d'un animo invitto

e toleranza de spirito che mantiene l'equalità e tenor della vita, che procede

dalla scienza, ed è regolato da l'arte di specolar le cose alte e basse, divine

ed umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui disse un filosofo morale, che

scrisse a Lucilio: non bisogna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli

deserti de Candavia ed Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti; perché il camino

è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non

è, dice egli, l'oro ed argento che faccia simile a Dio, perché non fa tesori

simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama,

perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e

più che molti hanno mala opinion de lui; non tante e tante altre condizioni de

cose che noi ordinariamente admiriamo, perché non queste cose delle quali si

desidera la copia, ne rendeno talmente ricchi, ma il dispreggio di quelle.

34 \ CES.\ Bene: ma dimmi appresso, in qual maniera costui Tranquillarà gli

sensi, mitigarà gli dolori del spirito, appagarà il core e darà gli proprii

censi a la mente, di sorte che con questo suo aspirare e studii non debba dire:

Nitimur in cassum?

35 \ MAR.\ Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé

sia da quello absente, farsi come con indissolubil sacramento congionto ed

alligato alle cose divine, di sorte che non senta amorodio di cose mortali,

considerando d'esser maggiore che esser debba servo e schiavo del suo corpo; al

quale non deve altrimente riguardare che come carcere che tien rinchiusa la sua

libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le

sue mani, ceppi che han fissi gli suoi piedi, velo che gli tien abbagliata la

vista. Ma con ciò non sia servo, cattivo, inveschiato, incatenato, discioperato,

saldo e cieco; perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch'egli medesimo si

lasce: atteso che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il

mondo corporeo e materia è suggetta alla divinitade ed a la natura. Cossì

farassi forte contra la fortuna, magnanimo contra l'ingiurie, intrepido contra

la povertà, morbi e persecuzioni.

36 \ CES.\ Bene instituito è il furioso eroico!

37 \ CES.\ Appresso veggasi quel che séguita. Ecco la ruota del tempo affissa,

che si muove circa il centro proprio, e vi è il motto: Manens moveor. Che

intendete per quella?

38 \ MAR.\ Questo vuol dire, che si muove in circolo; dove il moto concorre con

la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il

proprio mezzo si comprende la quiete e fermezza secondo il moto retto; over

quiete del tutto e moto, secondo le parti; e da le parti che si muoveno in

circolo, si apprendeno due differenze di lazione, in quanto che successivamente

altre parti montano alla sommità, altre dalla sommità descendeno al basso; altre

ottegnono le differenze medianti, altre tegnono l'estremo dell'alto e del fondo.

E questo tutto mi par che comodamente viene a significar quel tanto che

s'esplica nel seguente articolo:

Quel ch'il mio cor aperto e ascoso tiene,

Beltà m'imprime ed onestà mi cassa,

Zelo ritiemmi, altra cura mi passa

Per d'ond'ogni studio a l'alma viene:

Quando penso suttrarmi da le pene,

Speme sustienmi, altrui rigor mi lassa;

Amor m'inalza, e riverenz'abbassa,

.Allor ch'aspiro a l'alt'e sommo bene.

Alto pensier, pia voglia, studio intenso

De l'ingegno, del cor, de le fatiche,

A l'oggetto inmortal, divin, inmenso

Fate ch'aggionga, m'appiglie e nodriche;

Né più la mente, la raggion, il senso

In altro attenda, discorra, s'intriche;

Onde di me si diche:

Costui or ch'av'affissi gli occhi al sole,

Che fu rival d'Endimion, si duole.

39 Cossì come il continuo moto d'una parte suppone e mena seco il moto del

tutto, di maniera che dal ributtar le parti anteriori sia conseguente il tirar

de le parti posteriori; cossì il motivo de le parti superiori resulta

necessariamente nell'inferiori, e dal poggiar d'una potenza opposita séguita

l'abbassar de l'altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti

l'affetti in generale) ad essere ascoso ed aperto, ritenuto dal zelo, sullevato

da magnifico pensiero, rinforzato da la speranza, indebolito dal timore. Ed in

questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fato della

generazione.

40 \ CES.\ Tutto va bene. Vengamo a quel che séguita. Veggio una nave inchinata

su l'onde; ed ha le sarte attaccate a lido ed ha il motto: Fluctuat in portu.

Argumentate quel che può significare; e se ne siete risoluto, esplicate.

41 \ MAR.\ E la figura ed il motto ha certa parentela col precedente motto e

figura, come si può facilmente comprendere, se alquanto si considera. Ma

leggiamo l'articolo:

Se da gli eroi, da gli dei, da le genti

Assicurato son che non desperi;

tema, né dolor, né impedimenti

De la morte, del corpo, de piaceri

Fia ch'oltre apprendi, che soffrisca e senti;

E perché chiari vegga i miei sentieri,

Faccian dubio, dolor, tristezza spenti

Speranza, gioia e gli diletti intieri.

Ma se mirasse, facesse, ascoltasse

Miei pensier, miei desii e mie raggioni,

Chi le rende sì 'ncerti, ardenti e casse,

graditi concetti, atti, sermoni,

Non sa, non fa, non ha qualunque stassi

De l'orto, vita e morte a le maggioni.

Ciel, terr', orco s'opponi;

S'ella mi splend'e accend'ed èmmi a lato,

Farammi illustre, potente e beato.

42 Da quel che ne gli precedenti discorsi abbiamo considerato e detto si può

comprendere il sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di

cose basse è attenuato ed annullato dove le potenze superiori sono

gagliardamente intente ad oggetto più magnifico ed eroico. È tanta la virtù

della contemplazione (come nota Iamblico) che accade tal volta non solo che

l'anima ripose da gli atti inferiori, ma, ed oltre, lascie il corpo a fatto. Il

che non voglio intendere altrimente che in tante maniere, quali sono esplicate

nel libro De' trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazione; de

quali alcune vituperosa-, altre eroicamente fanno che non s'apprenda tema di

morte, non si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimenti di piaceri;

onde la speranza, la gioia e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte

intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da

dubbio, dolore e tristezza alcuna.

43 \ CES.\ Ma che cosa è quella da cui richiede che mire a que' pensieri ch'ha

resi cossì incerti, compisca gli suoi desii che fa sì ardenti, ed ascolte le sue

raggioni che rendecasse?

44 \ MAR.\ Intende l'oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa

presente; atteso che veder la divinità è l'esser visto da quella, come vedere il

sole concorre con l'esser visto dal sole. Parimente essere ascoltato dalla

divinità è a punto ascoltar quella, ed esser favorito da quella è il medesimo

esporsegli: dalla quale una medesima ed immobile procedeno pensieri incerti e

certi, desii ardenti ed appagati, e raggioni exaudite e casse, secondo che degna

o indegnamente l'uomo se gli presenta con l'intelletto, affetto ed azioni. Come

il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o salute della nave,

per quanto che o è a quella presente, overo da quella trovasi absente; eccetto

che il nocchiero per suo diffetto o compimento ruina e salva la nave; ma la

divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae se non per altrui

conversione o aversione.

45 \ MAR.\ Con questa dunque mi par ch'abbia gran concatenazione e conseguenza

la figura seguente, dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il

suo motto che dice: Mors et vita.

46 \ CES.\ Leggete dunque l'articolo.

47 \ MAR.\ Cossì farò:

Per man d'amor scritto veder potreste

Nel volto mio l'istoria de mie pene;

Ma tu (perché il tuo orgoglio non si affrene,

Ed io infelice eternamente reste)

A le palpebre belle a me moleste

Asconder fai le luci tant'amene,

Ond'il turbato ciel non s'asserene,

caggian le nemiche ombre funeste.

Per la bellezza tua, per l'amor mio,

Ch'a quella, benché tanta, è forse uguale,

Rendite a la pietà, diva, per Dio.

Non prolongar il troppo intenso male,

Ch'è del mio tanto amar indegno fio;

Non sia tanto rigor con splendor tale.

Se, ch'io viva, ti cale,

Del grazioso sguardo apri le porte;

Mirami, o bella, se vuoi darmi morte.

48 Qua il volto in cui riluce l'istoria de sue pene, è l'anima, in quanto che è

esposta alla recepzion de doni superiori, al riguardo de quali è in potenza ed

attitudine, senza compimento di perfezione ed atto, il qual aspetta la ruggiada

divina. Onde ben fu detto: Anima mea sicut terra sine aqua tibi. Ed altrove: Os

meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua desiderabam. Appresso,

l'orgoglio che non s'affrena, è detto per metafora e similitudine (come de Dio

tal volta si dice gelosia, ira, sonno); e quello significa la difficultà con la

quale egli fa copia di far vedere al meno le sue spalli, che è il farsi

conoscere mediante le cose posteriori ed effetti. Cossì copre le luci con le

palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via

l'ombra de gli enigmi e similitudini.

49 Oltre (perché non crede che tutto quel che non è, non possa essere) priega la

divina luce che - per la sua bellezza la quale non deve essere a tutti occolta,

almeno secondo la capacità de chi la mira, e per il suo amore che forse a tanta

bellezza è uguale (uguale intende de la beltade, in quanto che la se gli può far

comprensibile), - che si renda alla pietà, cioè che faccia come quelli che son

piatosi, quali da ritrosi e schivi si fanno graziosi ed affabili; e che non

prolonghe il male che avviene da quella privazione, e non permetta che il suo

splendor per cui è desiderata, appaia maggiore che il suo amore con cui si

communiche: stante che tutte le perfezioni in lei non solamente sono uguali, ma

ancor medesime.

50 Al fine la ripriega che non oltre l'attriste con la privazione; perché potrà

ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con que' medesimi donargli la vita: e

però non lo lasce a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le

palpebre.

51 \ CES.\ Vuol dire quella morte de amanti che procede da somma gioia, chiamata

da cabalisti mors osculi? la qual medesima è vita eterna, che l'uomo può aver in

disposizione in questo tempo ed in effetto nell'eternità?

52 \ MAR.\ Cossì è.

53 \ CES.\ Ma è tempo di procedere a considerar il seguente dissegno simile a

questi prossimi avanti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è

un'aquila che con due ali s'appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien

ritardata dal pondo d'una pietra che tien legata a un piede. Ed evvi il motto:

Scinditur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle

potenze de l'anima; alla significazion della quale è preso quel verso:

Scinditur incertum studia in contraria vulgus.

54 Il quale volgo tutto generalmente è diviso in due fazioni (quantunque,

subordinate a queste, non mancano de l'altre); de le quali altre invitano a

l'alto dell'intelligenza e splendore di giustizia, altre allettano, incitano e

forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi e

compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l'articolo:

Bene far voglio, e non mi vien permesso;

Meco il mio sol non è, bench'io sia seco,

Che per esser con lui, non son più meco,

Ma da me lungi, quanto a lui più presso.

Per goder una volta, piango spesso;

Cercando gioia, afflizion mi reco;

Perché veggio tropp'alto, son sì cieco;

Per acquistar mio ben, perdo me stesso.

Per amaro diletto e dolce pena

Impiombo al centro, e vers'il ciel m'appiglio;

Necessità mi tien, bontà mi mena;

Sorte m'affonda, m'inalza il consiglio;

Desio mi sprona, ed il timor m'affrena;

Cura m'accende, e fa tardo il periglio.

Qual diritto o divertiglio

Mi darà pace, e mi torrà de lite,

S'avvien ch'un sì mi scacce, e l'altro invite?

55 L'ascenso procede nell'anima dalla facultà ed appulso ch'è nell'ali, che son

l'intelletto ed intellettiva volontade, per le quali essa naturalmente si

referisce ed ha la sua mira a Dio, come a sommo bene e primo vero, come

all'absoluta bontà e bellezza; cossì come ogni cosa naturalmente ha impeto verso

il suo principio regressivamente, e progressivamente verso il suo fine e

perfezione, come ben disse Empedocle. Da la cui sentenza mi par che si possa

inferire quel che disse il Nolano in questa ottava:

Convien ch'il sol, donde parte, raggiri,

E al suo principio i discorrenti lumi;

E 'l ch'è di terra, a terra si retiri,

E al mar corran dal mar partiti fiumi,

Ed ond'han spirto e nascon i desiri

Aspiren, come a venerandi numi.

Cossì dalla mia diva ogni pensiero

Nato, che torne a mia diva è mistiero.

56 La potenza intellettiva mai si quieta, mai s'appaga in verità compresa, se

non sempre oltre ed oltre procede alla verità incomprensibile. Cossì la volontà

che séguita l'apprensione, veggiamo che mai s'appaga per cosa finita. Onde per

consequenza non si referisce l'essenza de l'anima ad altro termine che al fonte

della sua sustanza ed entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è

convertita al favore e governo della materia, viene a referirse ed aver appulso,

a giovare ed a comunicar de la sua perfezione a cose inferiori per la

similitudine che ha con la divinità, che per la sua bontade si comunica o

infinitamente producendo, idest communicando l'essere a l'universo infinito e

mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo solo questo universo

suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dunque che nella essenza

unica de l'anima se ritrovano questi doi geni de potenze, secondo che è ordinata

ed al proprio e l'altrui bene, accade che si depinga con un paio d'ali, mediante

le quali è potente verso l'oggetto delle prime ed immateriali potenze; e con un

greve sasso, per cui è atta ed efficace verso gli oggetti delle seconde e

materiali potenze. onde procede che l'affetto intiero del furioso sia

ancipite, diviso, travaglioso e messo in facilità de inchinare più al basso, che

di forzarsi ad alto: atteso che l'anima si trova nel paese basso e nemico, ed

ottiene la regione lontana dal suo albergo più naturale, dove le sue forze son

più sceme..

57 \ CES.\ Credi che a questa difficultà si possa riparare?

58 \ MAR.\ Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e

più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior

facilità. Come avviene a chi vola in alto che, quanto più s'estoglie da la

terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e consequentemente meno vien

fastidito dalla gravità; anzi, tanto può volar alto, che, senza fatica de

divider l'aria, non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia

divider l'aria profondo verso la terra, che alto verso l'altre stelle.

59 \ CES.\ Tanto che col progresso in questo geno s'acquista sempre maggiore e

maggiore facilità di montare in alto?

60 \ MAR.\ Cossì è; onde ben disse il Tansillo:

Quanto più sott'il piè l'aria mi scorgo,

Più le veloci penne al vento porgo,

E spreggio il mondo, e verso il ciel m'invio.

61 Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s'avvicina al suo luogo

naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o

non) bisogna che vi pervegna. Qualmente dunque veggiamo nelle parti de corpi a

gli proprii corpi, cossì doviamo giudicare de le cose intellettive verso gli

proprii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete

comprendere il senso intiero significato per la figura, per il motto e per gli

carmi.

62 \ CES.\ Di sorte che quanto vi s'aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio.

63 \ CES.\ Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti

sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans.

64 \ MAR.\ La guerra continua tra l'anima del furioso; la qual gran tempo per la

maggiore familiarità che avea con la materia, era più dura ed inetta ad esser

penetrata da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della

divina bontade; per il qual spacio dice ch'il cor smaltato de diamante, cioè

l'affetto duro ed inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli

colpi d'amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire, non

ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la

Cantica quando dice: Vulnerasti cor meum, o dilecta, vulnerasti cor meum. Le

quali piaghe non son di ferro, o d'altra materia, per vigor e forza de nervi; ma

son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli deserti della

contemplazione de la Veritade, cioè della Diana, che è l'ordine di seconde

intelligenze che riportano il splendor ricevuto dalla prima, per comunicarlo a

gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale,

Apollo, che con il proprio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè

gli suoi raggi, da parti innumerabili, tali e tante che son tutte le specie

delle cose; le quali son indicatrici della divina bontà, intelligenza, beltade e

sapienza, secondo diversi ordini dall'apprension dovenir furiosi amanti,

percioché l'adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume

impresso, ma, rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in

sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che vegna penetrato entro l'affetto e

concetto. Questo non è subito nel principio della generazione, quando l'anima di

fresco esce ad essere inebriata di Lete ed imbibita de l'onde de l'oblio e

confusione; onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio

della vegetazione, ed a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti

della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a

più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi

annubilata per le fumositadi di quell'umore che per l'exercizio di

contemplazione non s'è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto.

65 Nella qual disposizione il presente furioso mostra aver durato sei lustri,

nel discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto, che potesse

farsi capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte

ugualmente batteno sempre alla porta de l'intelligenza. Al fine l'amore che da

diverse parti ed in diverse volte l'avea assaltato come in vano (qualmente il

sole in vano se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle viscere de la

terra ed opaco profondo), per essersi accampato in quelle luci sante, cioè per

aver mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la

raggione di verità gli legò l'intelletto e con la raggione di bontà scaldogli

l'affetto, vennero superati gli studi materiali e sensitivi che altre volte

soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l'eccellenza de l'anima)

intatti; perché quelle luci che facea presente l'intelletto agente illuminatore

e sole d'intelligenza, ebbero facile entrata per le sue luci: quella della

verità per la porta de la potenza intellettiva; quella della bontà per la porta

della potenza appetitiva al core, cioè alla sustanza del generale affetto.

Questo fu quel doppio strale che venne come da man de guerriero irato; cioè più

pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s'era dimostrato

come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato ed

illuminato nel concetto, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto:

Vicit instans. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto ed

articolo che dice:

Forte a' colpi d'Amor feci riparo

Quando assalti da parti varie e tante

Sofferse il cor smaltato di diamante;

Ond'i miei studi de' suoi trionfâro.

Al fin (come gli cieli destinâro)

Un accampossi in quelle luci sante,

Che per le mie, sole tra tutte quante,

Facil entrata al cor mio ritrovâro.

Indi mi s'avventò quel doppio strale,

Che da man di guerriero irato venne,

Qual sei lustri assalir mi seppe male.

Notò quel luogo, e forte vi si tenne,

Piantò 'l trofeo di me d'onde vale

Tener ristrette mie fugaci penne.

Indi con più sollenne.

Apparecchio, mai cessano ferire

Mio cor del mio dolce nemico l'ire.

66 Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezione della

vittoria; singulari gemine specie furon quelle, che sole tra tutte quante

trovâro facile entrata; atteso che quelle contegnono in sé l'efficacia e virtù

de tutte l'altre; atteso che qual forma megliore e più eccellente può

presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d'ogni

altra verità, bontà, beltade? Notò quel luogo, prese possessione de l'affetto,

rimarcollo, impressevi il carattere di sé; e forte vi si tenne, e se l'ha

confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percioché è

impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa, quando una volta ha

compreso nel concetto la bellezza divina; ed è impossibile che possa far di non

amarla, come è impossibile che nell'appetito cada altro che bene o specie di

bene. E però massimamente deve convenire l'appetenzia del sommo bene. Cossì

ristrette son le penne che soleano esser fugaci, concorrendo giù col pondo della

materia. Cossì da mai cessano ferire, sollecitando l'affetto e risvegliando

il pensiero le dolci ire, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già

tanto tempo ritenuto escluso, straniero e peregrino. È ora unico ed intiero

possessore e disponitor de l'anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro;

né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire,

guerra dolce, dolci dardi, Dolci mie piaghe, miei dolci dolori.

67 \ CES.\ Non mi par che rimagna cosa da considerar oltre in proposito di

questo. Veggiamo ora questa faretra ed arco d'amore, come mostrano le faville

che sono in circa, ed il nodo del laccio che pende, con il motto che è: Subito,

clam.

68 \ MAR.\ Assai mi ricordo d'averlo veduto espresso ne l'articolo. Però

leggiamolo prima:

Avida di trovar bramato pasto,

L'aquila vers'il ciel ispiega l'ali,

Facend'accorti tutti gli animali,

Ch'al terzo volo s'apparecchia al guasto.

E del fiero leon ruggito vasto

Fa da l'alta spelunca orror mortali,

Onde le belve, presentendo i mali,

Fuggon a gli antri il famelico impasto.

E 'l ceto, quando assalir vuol l'armento

Muto di Proteo da gli antri di Teti,

Pria fa sentir quel spruzzo violento.

Aquile in ciel, leoni in terra e i ceti

Signor' in mar, non vanno a tradimento:

Ma gli assalti d'amor vegnon secreti.

Lasso, que' giorni lieti

Troncommi l'efficacia d'un instante,

Che fêmmi a lungo infortunato amante.

69 Tre sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra,

l'acqua, l'aria. Tre son gli geni de quelli: fiere, pesci ed ucelli. In tre

specie sono gli princìpi conceduti e definiti dalla natura: ne l'aria l'aquila,

ne la terra il leone, ne l'acqua il ceto: de quali ciascuno, come dimostra più

forza ed imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o

simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la

caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de

l'erinnico cacciatore nota il poetico detto:

At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi,

Ardua tecta petit, stabuli et de culmine summo

Pastorale canit signum, cornuque recurvo

Tartaream intendit vocem, qua protinus omne

Contremuit nemus, et silvae intonuere profundae.

70 De l'aquila ancora si sa che, volendo procedere alla sua venazione, prima

s'alza per dritto dal nido per linea perpendicolare in alto, e quasi per

l'ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e prestezza che

se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della

velocità del volo, prende anco comodità di specular da lungi la preda, della

quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate.

71 \ CES.\ Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse

a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra?

72 \ MAR.\ Non certo. Ma forse che ella sin tanto distingue, se si gli possa

presentar megliore, o più comoda preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma

per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta, che per

essere un machinoso animale, non può divider l'acqui se non con far che la sua

presenza sia presentita dal ributto de l'onde, senza questo, che si trovano

assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano

una ventosa tempesta di spruzzo acquoso. Da tutte dunque le tre specie de

princìpi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori;

di sorte che non procedeno come subdoli e traditori. Ma l'Amor che è più forte e

più grande, e che ha domino supremo in cielo, in terra ed in mare, e che per

similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnanimità,

quanto ha più forza, niente di manco assalta e fere a l'improvisto e subito.

Labitur totas furor in medullas,

Igne furtivo populante venas,

Nec habet latam data plaga frontem;

Sed vorat tectas penitus medullas,

Virginum ignoto ferit igne pectus.

73 Come vedete, questo tragico poeta lo chiama furtivo fuoco, ignote fiamme;

Salomone lo chiama acqui furtive, Samuele lo nomò sibilo d'aura sottile. Li

quali tre significano con qual dolcezza, lenità ed astuzia in mare, in terra, in

cielo viene costui a come tiranneggiar l'universo.

74 \ CES.\ Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior

domìno, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova

cibo che sia più austero ed amaro, non si vede nume più violento, non è dio più

piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele; e,

per finirla, mi par che l'amor sia tutto e faccia tutto; e de lui si possa dir

tutto e tutto possa attribuirsi a lui.

75 \ MAR.\ Voi dite molto bene. L'amor dunque (come quello che opra massime per

la vista, la quale è spiritualissimo de tutti gli sensi, perché subito monta sin

alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto

l'orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e

subito. Oltre è da considerare quel che dicono gli antichi, che l'amor precede

tutti gli altri dei; però non fia mestiero de fingere che Saturno gli mostre il

camino, se non con seguitarlo. Appresso, che bisogna cercar se l'amore appaia e

facciasi prevedere di fuori, se il suo allogiamento è l'anima medesima, il suo

letto è l'istesso core, e consiste nella medesima composizione de nostra

sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze. Finalmente, ogni cosa

naturalmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e

discorrere perché l'affetto si informe e conferme; ma subito ed in uno instante

l'appetito s'aggionge a l'appetibile, come la vista al visibile.

76 \ CES.\ Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale

è avolto il motto: Cui nova plaga loco? Dechiarate che luogo cerca questa per

ferire.

77 \ MAR.\ Non bisogna far altro che leggere l'articolo, che dice cossì:

Che la bogliente Puglia o Libia mieta

Tante spiche ed areste tante a i venti

Commetta, e mande tanti rai lucenti

Da sua circonferenza il gran pianeta,

Quanti a gravi dolor quest'alma lieta

(Che sì triste si gode in dolci stenti)

Accoglie da due stelle strali ardenti,

Ogni senso e raggion creder mi vieta.

Che tenti più, dolce nemico, Amore?

Qual studio a me ferir oltre ti muove,

Or ch'una piaga è fatto tutto il core?

Poiché né tu, né l'altro ha un punto, dove,

Per stampar cosa nuova, o punga, o fore,

Volta, volta sicur or l'arco altrove.

Non perder qua tue prove,

Perché, o bel dio, se non in vano, a torto

Oltre tenti amazzar colui ch'è morto.

 

78 Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può esser inteso per il

sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono

il core, significa gl'innumerabili individui e specie de cose, nelle quali

riluce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, ed onde ne

scalda l'affetto del proposto e appreso bene. De quali l'un e l'altro, per le

raggioni de potenzia ed atto, de possibilità ed effetto, e cruciano e consolano,

e donano senso di dolce e fanno sentir l'amaro. Ma dove l'affetto intiero è

tutto convertito a Dio, cioè all'idea de le idee, dal lume de cose intelligibili

la mente viene exaltata alla unità superessenziale, è tutta amore, tutta una,

non viene ad sentirsi sollecitata da diversi oggetti che la distraano, ma è una

sola piaga, nella quale concorre tutto l'affetto, e che viene ad essere la sua

medesima affezione. Allora non è amore o appetito di cosa particolare che possa

sollecitare, né almeno farsi innanzi a la voluntade; perché non è cosa più retta

ch'il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono che la

bontà, non si trova più grande che la grandezza, né cosa più lucida che quella

luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti.

79 \ CES.\ Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però

la volontà non è capace d'altro appetito, quando fiagli presente quello ch'è del

perfetto, sommo e massimo. Intendere dunque posso la conclusione, dove dice a

l'amore: Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto (si dice per

certa similitudine e metafora) tenti amazzar colui ch'è morto; cioè quello che

non ha più vitasenso circa altri oggetti, onde da quelli possa esser punto o

forato; a che oltre viene ad essere esposto ad altre specie? E questo lamento

accade a colui che, avendo gusto de l'ottima unità, vorrebe essere al tutto

exempto ed abstratto dalla moltitudine.

80 \ MAR.\ Intendete molto bene.

81 \ CES.\ Or ecco appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad

ora per essere assorbito da l'onde tempestose, che languido e lasso ha

abandonati gli remi. Ed evvi circa lo motto: Fronti nulla fides. Non è dubio che

questo significhe che lui dal sereno aspetto de l'acqui fu invitato a solcar il

mare infido; il quale a l'improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e

mortal spavento, e per impotenza di romper l'impeto, gli ha fatto dismetter il

capo, braccia e la speranza. Ma veggiamo il resto:

Gentil garzone, che dal lido scioglieste

La pargoletta barca, e al remo frale,

Vago del mar, l'indotta man porgeste,

Or sei repente accorto del tuo male.

Vedi del traditor l'onde funeste

La prora tua, ch'o troppo scende o sale;

Né l'alma, vinta da cure moleste,

Contra gli obliqui e gonfii flutti vale.

Cedi gli remi al tuo fiero nemico,

E con minor pensier la morte aspetti,

Che per non la veder gli occhi ti chiudi.

Se non è presto alcun soccorso amico,

Sentirai certo or or gli ultimi effetti

De tuoi sì rozzi e curiosi studi.

Son gli miei fati crudi

Simili a' tuoi, perché, vago d'Amore,

Sento il rigor del più gran traditore.

82 In qual maniera e perché l'amore sia traditore e frodulento, l'abbiamo poco

avanti veduto. Ma perché veggio il seguente senza imagine e motto, credo che

abbia conseguenza con il presente: però continuamo leggendolo:

Lasciato il porto per prova e per poco,

Feriando da studi più maturi,.

Ero messo a mirar quasi per gioco,

Quando viddi repente i fati duri.

Quei sì m'han fatto violento il foco,

Ch'in van ritento a i lidi più sicuri,

In van per scampo man piatosa invoco,

Perché al nemico mio ratto mi furi.

Impotente a suttrarmi, roco e lasso,

Io cedo al mio destino, e non più tento

Di far vani ripari a la mia morte.

Facciami pur d'ogni altra vita casso,

E non più tarde l'ultimo tormento,

Che m'ha prescritto la mia fera sorte.

Tipo di mio mal forte

È quel che si commese per trastullo

Al sen nemico, improvido fanciullo.

83 Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che significa il

furioso. Pure è molto espressa una strana condizione d'un animo dismesso

dall'apprension della difficultà de l'opra, grandezza de la fatica, vastità del

lavoro, da un canto; e da un altro, l'ignoranza, privazion de l'arte, debolezza

de nervi e periglio di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d'onde

e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da

ogni parte minacciano l'onde de l'impeto spaventoso e mortale. Ignoranti portum

nullus suus ventus est. Vede colui, che molto e pur troppo s'è commesso a cose

fortuite, s'aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la

summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con

gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa

che da l'altrui violenza ne sia tolto, e fa che ne suffoche ed avvelene, o ne

sollecita con la suspizione, timore e gelosia, a gran danno e ruina del

possessore. Fortunae an ulla putatis dona carere dolis? Or, perché la fortezza

che non può far esperienza di sé, è cassa; la magnanimità che non può prevalere,

è nulla, ed è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male,

il quale è peggio ch'il male istesso. Peior est morte timor ipse mortis. Già col

timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecillità ne

gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non

gli è sopragionto ancora, ed è certo peggiore che sopragiongere gli possa. Che

cosa più stolta che dolere per cosa futura, absente e la qual presente non si

sente?

84 \ CES.\ Queste son considerazioni su la superficie e l'istoriale de la

figura. Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l'imbecillità

de l'ingegno umano, il quale, attento a la divina impresa, in un subito talvolta

si trova ingolfato nell'abisso della eccellenza incomprensibile; onde il senso

ed imaginazione vien confusa ed assorbita, che non sapendo passar avanti, né

tornar a dietro, né dove voltarsi, svanisce e perde l'esser suo; non altrimente

che una stilla d'acqua che svanisce nel mare, o un picciol spirito che s'attenua

perdendo la propria sustanza nell'aere spacioso ed inmenso.

85 \ MAR.\ Bene, ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte.




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