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Giordano Bruno
Degli eroici furori

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  • Parte 2
    • Dial.4 Interlocutori: Severino, Minutolo.
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Dial.4

Interlocutori: Severino, Minutolo.

1 \ SEV.\ Vedrete dunque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove

principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una

causa generale d'un comun furore.

2 \ MIN.\ . Cominciate dal primo.

3 \ SEV.\ Il primo di questi, benché per natura sia cieco, nulladimeno per amore

si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser stata

più discortese a essi che a lui; stante che, quantunque non veggono, hanno però

provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de l'eccellenza del

sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser

visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde.

4 \ MIN.\ . Si son trovati molti innamorati per sola fama.

5 \ SEV.\ Essi, dice egli, aver pur questa felicità de ritener quella imagine

divina nel conspetto de la mente, de maniera che, quantunque ciechi, hanno pure

in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua

guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre

orrido spettacolo del sdegno di natura. Dice dunque:

Parla il primo cieco.

Felici che talvolta visto avete,

Voi per la persa luce ora dolenti

Compagni che doi lumi conoscete.

Questi accesi non fûro, né son spenti;

Però più grieve mal che non credete

È il mio, e degno de più gran lamenti:

Perché, che fusse torva la natura

Più a voi ch'a me, non è chi m'assicura.

Al precipizio, o duce,

Conducime, se vuoi darmi contento,

Perché trove rimedio il mio tormento,

Ch'ad esser visto, e non veder la luce,

Qual talpa uscivi al mondo,

E per esser di terra inutil pondo.

6 Appresso séguita l'altro, che, morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto

infetto nell'organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per

scorta. Priega alcun de circonstanti, che se non è rimedio del suo male, faccia

per pietà che non oltre aver possa senso del suo male, facendo cossì lui occolto

a se medesimo, come se gli è fatta occolta la sua luce, con sepelir lui col

proprio male. Dice Parla il secondo cieco.

Da la tremenda chioma ha svelto Aletto

L'infernal verme, che col fiero morso

Hammi sì crudament'il spirto infetto,

Ch'a tôrmi il senso principal è corso,

Privando de sua guida l'intelletto;

Ch'in vano l'alma chiede altrui soccorso,

Sì cespitar mi fa per ogni via.

Quel rabido rancor di gelosia.

Se non magico incanto,

Né sacra pianta, né virtù de pietra,

Né soccorso divin scampo m'impetra,

Un di voi sia, per Dio, piatoso in tanto,

Che a me mi faccia occolto:

Con far meco il mio mal tosto sepolto.

 

7 Succede l'altro, il qual dice esser dovenuto cieco per essere repentinamente

promosso dalle tenebre a veder una gran luce; atteso che essendo avezzo de mirar

bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avanti gli occhi una beltà

celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è stemprata la vista e

smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l'alma (perché gli occhi son

come doi fanali che guidano la nave), ch'accader suole a un allievato nelle

oscuritadi Cimmerie, se subito immediatamente affiga gli occhi al sole. E nella

sestina priega che gli sia donato libero passagio a l'inferno, perché non altro

che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso. Dice dunque cossì: Parla il

terzo cieco.

S'appaia il gran pianeta di repente

A un uom nodrito in tenebre profonde,

O sott'il ciel de la Cimmeria gente,

Onde lungi suoi rai il sol diffonde;

Gli spenge il lume gemino splendente

In prora a l'alma, e nemico s'asconde.

Cossì stemprate fur mie luci avezze

A mirar ordinarie bellezze,

Fatemi a l'orco andare;

Perché morto discorro tra le genti?

Perché ceppo infernal tra voi viventi

Misto men vo? Perché l'aure discare

Sorbisco, in tante pene

Messo per aver visto il sommo bene?

8 Fassi innanzi il quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione

orbo, con cui si mostra il primo. Perché, come quello per repentino sguardo

della luce, cossì questo con spesso e frequente remirare, o pur per avervi

troppo fissati gli occhi, ha perso il senso de tutte l'altre luci, e non si dice

cieco per consequenza al risguardo di quella unica che l'ha occecato. E dice il

simile del senso de la vista a quello ch'aviene al senso dell'udito; essendo che

coloro che han fatte l'orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli strepiti

minori, come è cosa famosa de gli popoli Cataduppici, che son là d'onde il gran

fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.

9 \ MIN.\ Cossì tutti color ch'hanno avezzo il corpo, l'animo a cose più

difficili e grandi, non sogliono sentir fastidio dalle difficultadi minori. E

costui non deve esser discontento della sua cecità.

10 \ SEV.\ Non certo. Ma si dice volontario orbo, a cui piace che ogni altra

cosa gli sia ascosa, come l'attedia col divertirlo da mirar quello che vuol

unicamente mirare.

11 Ed in questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar

male per qualche mal rancontro, mentre va.sì attento e cattivato ad un oggetto

principale.

12 \ MIN.\ Riferite le sue paroli.

13 \ SEV.\

Parla il quarto cieco.

Precipitoso d'alto al gran profondo

Il Nil d'ogni altro suon il senso ha spento

De' Cataduppi al popolo ingiocondo.

Cossì stand'io col spirto intiero attento

Alla più viva luce ch'abbia il mondo,

Tutti i minor splendori unqua non sento:

Or mentr'ella gli splende, l'altre cose

Sien pur a l'orbo volontario ascose.

Priegovi, da le scosse

Di qualche sasso, o fiera irrazionale,

Fatemi accorto, e se si scende o sale;

Perché non caggian queste misere osse

In luogo cavo e basso,

Mentre privo de guida meno il passo.

14 Al cieco che séguita per il molto lacrimare accade che siano talmente

appannati gli occhi, che non si può stendere il raggio visuale a compararsi le

specie visibili, e principalmente per riveder quel lume ch'a suo malgrado, per

raggion di tante doglie, una volta vedde. Oltre che si stima la sua cecità non

esser più disposizionale, ma abituale, ed al tutto privativa; perché il fuoco

luminoso che accende l'alma nella pupilla, troppo gran tempo e molto

gagliardamente è stato riprimuto ed oppresso dal contrario umore; de maniera

che, quantunque cessasse il lacrimare, non si persuade che per ciò conseguisca

il bramato vedere. Ed udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo

facessero oltrepassare:

Parla il quinto cieco.

Occhi miei, d'acqui sempre mai pregnanti,

Quando fia che del raggio visuale

La scintilla se spicche fuor de tanti

E sì densi ripari, e vegna tale,

Che possa riveder que' lumi santi,

Che fur principio del mio dolce male?

Lasso! credo che sia al tutto estinta,

Sì a lungo dal contrario oppressa e vinta.

Fate passar il cieco,

E voltate vostr'occhi a questi fonti,

Che vincon gli altri tutti uniti e gionti;

E s'è chi ardisce disputarne meco,

È chi certo lo rende

Ch'un de' miei occhi un Ocean comprende.

15 Il sesto orbo è cieco, perché per il soverchio pianto ha mandate tante

lacrime che non gli è rimasto umore, fin al ghiacio ed umor per cui come per

mezzo diafano il raggio visuale era transmesso e s'intromettea la luce esterna e

specie visibile, di sorte che talmente fu compunto il core che tutta l'umida

sustanza (il cui ufficio è de tener unite ancora le parti diverse varie e

contrarie) è digerita; ed egli è rimasta l'amorosa affezione senza l'effetto de

le lacrime, perché l'organo è stemprato per la vittoria degli altri elementi, ed

è rimasto consequentemente senza vedere e senza constanza de le parti del corpo

insieme. Poi propone a gli circonstanti quel che intenderete:

Parla il sesto cieco.

Occhi non occhi; fonti, non più fonti,

Avete sparso già l'intiero umore,

Che tenne il corpo, il spirto e l'alma gionti.

E tu, visual ghiaccio, che di fore

Facevi tanti oggetti a l'alma conti,

Sei digerito dal piagato core:

Cossì ver l'infernale ombroso speco

Vo menando i miei passi, arido cieco.

Deh, non mi siate scarsi

A farmi pronto andar, di me piatosi,

Che tanti fiumi, a i giorni tenebrosi,

Sol de mio pianto m'appagando, ho sparsi:

Or ch'ogni umor è casso,

Verso il profondo oblio datemi il passo.

16 Sopragionge il seguente che ha perduta la vista da l'intenso vampo che

procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, ed appresso a leccar

tutto il rimanente umore de la sustanza de l'amante, de maniera che tutto

incinerito e messo in fiamma non è più lui; perché dal fuoco, la cui virtù è de

dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non

compaginabile, se per virtù de l'acqua sola gli atomi d'altri se inspessano e

congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è privo del senso

de l'intensissime fiamme. Però nella sestina con questo vuol farsi dar largo da

passare; ché, se qualch'uno venesse tocco da le fiamme sue, dovenerebbe a tale

che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa calda, che come di

fredda neve. Dice dunque:

Parla il settimo cieco.

La beltà che per gli occhi scórse al core,

Formò nel petto mio l'alta fornace

Ch'assorbì prima il visuale umore,

Sgorgand'in alt'il suo vampo tenace;

E poi vorando ogni altro mio liquore,

Per metter l'elemento secco in pace,

M'ha reso non compaginabil polve,

Chi ne gli atomi suoi tutto dissolve,

Se d'infinito male

Avete orror, datemi piazza, o gente;

Guardatevi dal mio foco cuocente;

Che se contagion di quel v'assale,

Crederete che inverno Sia ritrovars'al fuoco de l'inferno.

17 Succede l'ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta che Amore

gli ha fatto penetrare da gli occhi al core. Onde si lagna non solamente come

cieco, ma, ed oltre, come ferito ed arso tanto altamente quanto non crede

ch'altro esser possa. Il cui senso è facilmente espresso in questa sentenza:

Parla l'ottavo cieco.

Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,

Punt'acuta, esca edace, forte nervo,

Aspra ferita, empio ardor, cruda salma,

Stral, fuoco e laccio di quel dio protervo,

Che punse gli occhi, arse il cor, legò l'alma

E fêmmi a un punto cieco, amante e servo,

Tal che orbo de mia piaga, incendio e nodo

Ho 'l senso in ogni tempo, loco e modo.

Uomini, eroi e dei,

Che siete in terra, o appresso Dite o Giove,

Dite, vi priego, quando, come e dove

Provaste, udiste o vedeste unqua omei

Medesmi o tali o tanti

Tra oppressi, tra dannati, tra gli amanti?

18 Viene al fine l'ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per non

aver ardire) dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar sdegno, è

privo di parlar di qualsivogli'altra cosa. Però non parla lui, ma la sua guida

produce la raggione circa la quale, per esser facile, non discorro, ma solamente

apporto la sentenza.

Parla la guida del nono cieco.

Fortunati voi altri ciechi amanti,

Che la caggion del vostro mal spiegate:

Esser possete, per merto de pianti,

Graditi d'accoglienze caste e grate;

Di quel ch'io guido, qual tra tutti quanti

Più altamente spasma, il vampo late,

Muto forse per falta d'ardimento

Di far chiaro a sua diva il suo tormento.

Aprite, aprite il passo,

Siate benigni a questo vacuo volto

De tristi impedimenti, o popol folto,

Mentre ch'il busto travagliato e lasso

Va picchiando le porte

Di men penosa e più profonda morte.

19 Qua son significate nove caggioni per le quali accade che l'umana mente sia

cieca verso il divino oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le

quali:

20 La prima, allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie,

che per quanto comporta il grado in cui si trova, in quello aspira per certo più

alto che apprender possa.

21 \ MIN.\ Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci de

stato più eccellente che conviene a l'anima fuor di questo corpo in cui gli fia

possibile d'unirsi o avvicinarsi più altamente al suo oggetto.

22 \ SEV.\ Dici molto bene che nessuna potenza ed appulso naturale è senza gran

raggione, anzi è l'istessa regola di natura la quale ordina le cose. Per tanto è

cosa verissima e certissima a' ben disposti ingegni, che l'animo umano

(qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in

questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa regione; perché

aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che viene a

proposito e profitto della sua specie.

23 La seconda, figurata per il secondo cieco, procede da.qualche perturbata

affezione, come in proposito de l'amore è la gelosia, la quale è come tarlo che

ha medesimo suggetto nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è

generato.

24 \ MIN.\ Questa non mi par ch'abbia luogo nell'amor eroico.

25 \ SEV.\ Vero, secondo medesima raggione che vedesi nell'amor volgare; ma io

intendo secondo altra raggione proporzionale a quella la quale accade in color

che amano la verità e bontà; e si mostra quando s'adirano tanto contra quelli

che la vogliono adulterare, guastare, corrompere o che in altro modo

indegnamente vogliono trattarla, come son trovati di quelli che si son ridutti

sino alla morte, alle pene ed esser ignominiosamente trattati da gli popoli

ignoranti e sette volgari.

26 \ MIN.\ Certo, nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo

contra la moltitudine: come nessuno volgarmente ama che non sia geloso e timido

per la cosa amata.

27 \ SEV.\ E con questo vien ad esser cieco in molte cose veramente; ed affatto

affatto, secondo l'opinion commune, è stolto e pazzo.

28 \ MIN.\ Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che

hanno senso fuor ed estravagante dal senso universale de gli altri uomini. Ma

cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più

alto che tutti e la maggior parte sagliano o salir possano: e questi son gli

inspirati de divino furore; o con descendere più basso dove si trovano coloro

che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti, gli più

e gli ordinarii; ed in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità non si

trovarà eroico geloso.

29 \ SEV.\ Quantunque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non

gli si può dire ingiuria da dovero.

30 La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo

raggione sopranaturale detta metafisica, mostrandosi a que' pochi alli quali si

mostra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze

fisiche (cioè quelle che s'acquistano per lume naturale, le quali, discorrendo

da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedeno alla notizia d'altra

cosa ignota; il qual discorso è chiamato argumentazione); ma subito e

repentinamente, secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un

divino: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum. Onde non è richiesto

van discorso di tempo, fatica de studio ed atto d'inquisizione per averla, ma

cossì prestamente s'ingerisce, come proporzionalmente il lume solare senza

dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre.

31 \ MIN.\ Volete dunque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa

luce che gli quantunque ignoranti?

32 \ SEV.\ In certo modo non ed in certo modo sì. Non è differenza quando la

divina mente per sua providenza viene a comunicarsi senza disposizione del

suggetto, voglio dire quando si communica, perché ella cerca ed eligge il

suggetto; ma è gran differenza quando aspetta e vuol esser cercata e poi,

secondo il suo beneplacito, vuol farsi ritrovare. In questo modo non appare a

tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è detto: Qui

quaerunt me invenient me; ed in altro loco: Qui sitit, veniat et bibat.

33 \ MIN.\ Non si può negare che l'apprensione del secondo modo si faccia in

tempo.

34 \ SEV.\ Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce e la

apprensione di quella. Certo non niego che al disporsi bisogna tempo, discorso,

studio e fatica, ma, come diciamo che la alterazione si fa in tempo e la

generazione in instante, e come veggiamo che con tempo s'aprono le fenestre ed

il sole entra in un momento, cossì accade proporzionalmente al proposito.

35 La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che

proviene dalla consuetudine di credere a false opinioni del volgo il quale è

molto rimosso dalle opinioni de filosofi, o pur deriva dal studio de filosofie

volgari le quali son dalla moltitudine tanto più stimate vere quanto più

accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e

fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò

Alcazele ed Averroe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia

e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli

è convertito in suave e proprio nutrimento, e per il contrario abominano le cose

veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è

fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetudine non

può venir in uso alla moltitudine, come è detto). Questa cecità è eroica, ed è

tale, per quale degnamente contentare si possa il presente furioso cieco, il

qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni

altro vedere, e da la comunità non vorrebe impetrar altro che libero passagio e

progresso di contemplazione, come per ordinario suole patir insidie e se gli

sogliono opporre intoppi mortali.

36 La quinta, significata nel quinto, procede dalla improporzionalità delli

mezzi de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che, per contemplar le cose

divine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, similitudini ed altre

raggioni che gli peripatetici comprendono sotto il nome de fantasmi, o per mezzo

de l'essere procedere alla speculazion de l'essenza, per via de gli effetti alla

notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per l'assecuzion

di cotal fine, che più tosto è da credere che siano impedimenti, se creder

vogliamo che la più alta e profonda cognizion de cose divine sia per negazione e

non per affirmazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che

può cader e cade sotto il nostro concetto, ma quello che è oltre ed oltre

incomprensibile; massime in questo stato detto speculator de fantasmi dal

filosofo, e dal teologo vision per similitudine speculare ed enigma; perché

veggiamo non gli effetti veramente e le vere specie de le cose, o la sustanza de

le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color che son dentro

l'antro ed hanno da natività le spalli volte da l'entrata della luce, e la

faccia opposta al fondo; dove non vedeno quel che è veramente, ma le ombre de

ciò che fuor de l'antro sustanzialmente si trova.

37 Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un

spirito simile o meglior di quel di Platone piange, desiderando l'exito da

l'antro, onde non per reflessione, ma per immediata conversazione possa riveder

sua luce.

38 \ MIN.\ Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede

dalla vista reflessiva, ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza

visiva e l'oggetto.

39 \ SEV.\ Questi doi modi, quantunque siano distinti nella cognizion sensitiva

o vision oculare, tutta volta però concorreno in una nella cognizione razionale

o intellettiva.

40 \ MIN.\ Parmi aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo

over intermedio tra la potenza ed oggetto. Perché, come per mezzo della luce

diffusa ne l'aere e la similitudine della cosa che in certa maniera procede da

quel che è visto a quel che vede, si mette in effetto l'atto del vedere; cossì

nella regione intellettuale dove splende il sole dell'intelletto agente mediante

la specie intelligibile formata e come procedente da l'oggetto, viene a

comprendere de la divinità l'intelletto nostro o altro inferiore a quella.

Perché come l'occhio nostro (quando veggiamo) non riceve la luce del foco ed oro

in sustanza, ma in similitudine; cossì l'intelletto, in qualunque stato che si

trove, non riceve sustanzialmente la divinità onde sieno sustanzialmente tanti

dei quante sono intelligenze, ma in similitudine; per cui non formalmente son

dei, ma denominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una ed

exaltata sopra le cose tutte.

41 \ SEV.\ Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch'io mi

ritratte, perché non ho detto il contrario; ma bisogna che io dechiare ed

expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi ed intesa,

non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è

la luce; ma quella che è proporzionale alla spessezza e densità del diafano, o

pur corpo al tutto opaco tramezzante; come aviene a colui che vede per mezzo de

le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s'intenderebbe

veder come senza mezzo, quando gli venesse concesso de mirar per l'aria puro,

lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: Spicche fuor di

tanti e sì densi ripari. Ma ritorniamo al nostro principale.

42 La sesta, significata nel sequente, non è altrimente caggionata che dalla

inbecillità ed insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione

ed alterazione; e le operazioni del quale bisogna che seguiteno la condizione

della sua facultà, la quale è consequente dalla condizione della natura ed

essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità

sia compresa da quello che è sempre altro ed altro, e sempre fa ed è fatto

altri-ed altrimente? Che verità, che ritratto può star depinto ed impresso dove

le pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l'acqui in vapore, il vapore in

fiamma, la fiamma in aura, e questa in altro ed altro, senza fine discorrendo il

suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito?

43 \ MIN.\ Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro ed altro, quel

che è tale sempre altri- ed altrimente si porta ed opra, perché il concetto ed

affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quello che altro ed

altro, altri- ed altrimente mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco

al riguardo di quella bellezza che è sempre una ed unicamente, ed è l'istessa

unità ed entità, identità.

44 \ SEV.\ Cossì è.

45 La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo cieco,

deriva dal fuoco dell'affezione, onde alcuni si fanno impotenti ed inabili ad

apprendere il vero, con far che l'affetto precorra a l'intelletto. Questi son

coloro che prima hanno l'amare che l'intendere: onde gli avviene che tutte le

cose gli appaiano secondo il colore della sua affezione; stante che chi vuole

apprendere il vero per via di contemplazione, deve essere ripurgatissimo nel

pensiero.

46 \ MIN.\ In verità si vede che sì come è diversità de contemplatori ed

inquisitori per quel che altri (secondo gli abiti de loro prime e fondamentali

discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de figure, altri per via

de ordini o disordini, altri per via di composizione e divisione, altri per via

di separazione e congregazione, altri per via de inquisizion e dubitazione,

altri per via de discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e

desciferazion de voci, vocaboli e dialecti: onde altri son filosofi matematici,

altri metafisici, altri logici, altri grammatici: cossì è diversità de

contemplatori che con diverse affezioni si metteno ad studiare ed applicar

l'intenzione alle sentenze scritte; onde si doviene sin a questo che medesima

luce di verità espressa di un medesimo libro per medesime paroli viene a servire

al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie.

47 \ SEV.\ Per questo è da dire che gli affetti molto sono potenti per impedir

l'apprension del vero, quantunque gli pazienti non se ne possano accorgere;

qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma

il cibo amaro.

48 Or tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del quale son alterati

e privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato inviato ed impresso,

potente non solo ad alterar il senso, ma, ed oltre, l'altre tutte facultadi de

l'alma, come la presente figura dimostra.

49 Al significato per l'ottavo, cossì l'eccellente intelligibile oggetto ave

occecato l'intelletto, come l'eccellente sopraposto sensibile a costui ha

corrotto il senso. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita e

per consequenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda, tal volta

vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la

passa come strale. Onde dicono gli teologi il verbo divino essere più

penetrativo che qual si voglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la

formazione ed impressione del proprio vestigio, sopra il quale altro non è che

possa essere impresso o sigillato; là onde essendo tal forma ivi confirmata, e

non possendo succedere la peregrina e nova senza che questa ceda,

consequentemente può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi la

riempie o la disgrega per la necessaria improporzionalitade.

50 La nona caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per la

deiezion de spirito, la quale è administrata e caggionata pure da grande amore,

perché con lo ardire teme de offendere. Onde disse la Cantica: Averte oculos

tuos a me, quia ipsi me avolare fecere. E cossì supprime gli occhi da non vedere

quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non

parlare con chi massime brama di parlare, per tema che difetto di sguardo o

difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia.

E questo suol procedere da l'apprensione de l'excellenza de l'oggetto sopra de

la sua facultà potenziale: onde gli più profondi e divini teologi dicono che più

si onora ed ama Dio per silenzio che per parola, come si vede più per chiuder

gli occhi alle specie representate che per aprirli: onde è tanto celebre la

teologia negativa de Pitagora e Dionisio sopra quella demostrativa de Aristotele

e scolastici dottori.

51 \ MIN.\ Andiamone raggionando per il camino.

52 \ SEV.\ Come ti piace.




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