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Giordano Bruno
Degli eroici furori

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  • Parte 2
    • Dial.5 Interlocutori: Laodomia, Giulia.
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Dial.5

Interlocutori: Laodomia, Giulia.

1 \ LAOD.\ Un'altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il

successo di questi nove ciechi; quali eran prima nove bellissimi ed amorosi

giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso e non avendo

speranza de ricevere il bramato frutto de l'amore e temendo che tal desperazione

le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della Campania

felice, e d'accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade giurôrno di

non lasciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per ritrovar cosa

più de voi bella, o simile almeno; con ciò che scuoprir si potesse in lei

accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel vostro petto armato

di fierezza; perché questo giudicavano unico rimedio che divertir le potesse da

quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor sollenne partita, passando

vicini al monte Circeo, gli piacque d'andar a veder quelle antiquitadi de gli

antri e fani di quella dea. Dove essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de

le ventose, eminenti e fragose rupi, del mormorìo de l'onde maritime che vanno a

frangersi in quelle cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il

luogo e la staggione, vennero tutti come inspiritati: tra' quali un (che ti

dirò), più ardito, espresse queste paroli: - Oh se piacesse al cielo che a

questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri secoli più felici, qualche

maga Circe che con le piante, minerali, veneficii ed incanti era potente di

mettere come il freno alla natura; certo crederei che ella, quantunque fiera,

piatosa pur sarebbe al nostro male. Ella, molto sollecitata da nostri

supplichevoli lamenti, condescenderebbe o a darne rimedio, over a concederne

grata vendetta contra la crudeltà di nostra nemica. - A pena avea finito di

proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale

chiunque ave ingegno di cose umane, possea facilmente comprendere che non era

manifattura d'uomo, né di natura; de la figura e descrizion de la quale ti dirò

un'altra volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tôcchi da qualche speranza

che qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse definire il

stato de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere

che il morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta

passione. Però vi entrâro dentro, non trovando porta che fermata gli fusse, o

portinaio che gli dimandasse raggione; sin che si ritrovâro in una richissima ed

ornatissima sala, dove in quella regia maestade, che puoi dire che Apolline

fusse stato ritrovato da Fetonte, apparve quella ch'è chiamata sua figlia; con

l'apparir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli

administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fêro avanti; e

vinti dal splendor di quella maestade, piegâro le ginocchia in terra, e tutti

insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno,

esposero gli lor voti alla dea. Dalla quale in conclusione furono talmente

trattati, che ciechi, raminghi ed infortunatamente laboriosi hanno varcati tutti

mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per

spacio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de

l'isola Britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre

Tamesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umiltade, ed accettati da

quelle con gesti d'onestissima cortesia, uno tra loro, il principale, che altre

volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento espose la causa commune

in questo modo:

Di que', madonne, che col chiuso vase

Si fan presenti, ed han trafitt'il core,

Non per commesso da natura errore,

Ma d'una cruda sorte

Ch'in sì vivace morte

Le tien astretti, ogn'un cieco rimase.

Siam nove spirti che molti anni, erranti,

Per brama di saper, molti paesi

Abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi

D'un rigid'accidente,

Per cui, se siete attente

Direte: O degni, ed o infelici amanti!

Un'empia Circe, che si don'il vanto

D'aver questo bel sol progenitore,

Ne accolse dopo vario e lungo errore;

E un certo vase aperse,

De le acqui insperse

Noi tutti, ed a quel far giunse l'incanto.

Noi aspettand'il fine di tal opra,

Eravam con silenzio muto attenti,

Sin al punto che disse: - O voi dolenti,

Itene ciechi in tutto;

Raccogliete quel frutto,

Che trovan troppo attenti al che gli è sopra, -

Figlia e madre di tenebre ed orrore,

(Disse ogn'un, fatto cieco di repente),

Dunque ti piacque cossì fieramente

Trattar miseri amanti,

Che ti si fêro avanti,

Facili forse a consecrart'il core?

Ma poi ch'a i lassi fu sedato alquanto

Quel subito furor, ch'il novo caso

Porse, ciascun più accolto in sé rimaso,

Mentre ira al dolor cede,

Voltossi alla mercede,

Con tali accenti accompagnand'il pianto:

Or dunque, s'a voi piace, o nobil maga,

Che zel di gloria forse il cor ti punga,

O liquor di pietà il lenisca ed unga,

Farti piatosa a noi

Co' medicami tuoi,

Saldand'al nostro cuor l'impressa piaga;

Se la man bella è di soccorrer vaga,

Deh, non sia tanto la dimora lunga,

Che di noi triste alcun a morte giunga

Pria che per gesti tuoi

Possiam unqua dir noi:

Tanto ne tormentò, ma più ne appaga.

E lei soggiunse: - O curiosi ingegni,

Prendete un altro mio vase fatale,

Che mia mano medesma aprir non vale;

Per largo e per profondo

Peregrinate il mondo,

Cercate tutti i numerosi regni:

Perché vuol il destin che discuoperto

Mai vegna, se non quando alta saggezza

E nobil castità giunte a bellezza

V'applicaran le mani;

D'altri i studi son vani

Per far questo liquor al ciel aperto.

Allor, s'avvien ch'aspergan le man belle

Chiunque a lor per remedio s'avicina,

Provar potrete la virtù divina

Ch'a mirabil contento

Cangiando il rio tormento,

Vedrete due più vaghe al mondo stelle.

Tra tanto alcun di voi non si contriste,

Quantunque a lungo in tenebre profonde

Quant'è sul firmamento se gli asconde;

Perché cotanto bene

Per quantunque gran pene

Mai degnamente avverrà che s'acquiste.

Per quell'a cui cecità vi conduce,

Dovete aver a vil ogni altro avere

E stimar tutti strazii un gran piacere;

Ché sperando mirare

Tai grazie uniche o rare,

Ben potrete spreggiar ogni altra luce.

Lassi! è troppo gran tempo che raminghe

Per tutt'il terren globo nostre membra

Son ite, sì ch'al fine a tutti sembra

Che la fiera sagace

Di speranza fallace

Il petto n'ingombrò con sue lusinghe.

Miseri! ormai siam (bench'al tardi) avisti,

Ch'a quella maga, per più nostro male,

Tenerci a bada eternamente cale;

Certo perché lei crede

Che donna non si vede

Sott'il manto del ciel con tanti acquisti,

Or benché sappiam vana ogni speranza,

Cedemo al destin nostro e siam contenti

Di non ritrarci da penosi stenti,

E mai fermando i passi

(Benché trepidi e lassi),

Languir tutta la vita che n'avanza.

Leggiadre Ninfe, ch'a l'erbose sponde

Del Tamesi gentil fate soggiorno,

Deh, per Dio, non abiate, o belle, a scorno

Tentar voi anco in vano

Con vostra bianca mano

Di scuoprir quel ch'il nostro vase asconde.

Chi sa? forse che in queste spiagge, dove

Con le Nereidi sue questo torrente

Si vede che cossì rapidamente

Da basso in su rimonte,

Riserpendo al suo fonte,

Ha destinat'il ciel ch'ella si trove.

2 Prese una de le Ninfe il vaso in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una

per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima; ma tutte de commun

consentimento, dopo averlo solamente remirato, il riferivano e proponevano per

rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far pericolo

di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso di questi

infelici, mentre dubbia lo contrattava, - come spontaneamente, s'aperse da se

stesso. Che volete ch'io vi referisca quanto fusse e quale l'applauso de le

Ninfe? Come possete credere ch'io possa esprimere l'estrema allegrezza de nove

ciechi, quando udîro del vase aperto, si sentîro aspergere dell'acqui bramate,

aprîro gli occhi e veddero gli doi soli, e trovarono aver doppia felicitade:

l'una della ricovrata già persa luce, l'altra della nuovamente discuoperta, che

sola possea mostrargli l'imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete

ch'io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di

corpo, che lor medesimi, tutti insieme, non posseano esplicare? Fu per un pezzo

il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, ed in

vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono; sin tanto che

tranquillato essendo alquanto l'impeto del furore, se misero in ordine di ruota,

dove

3 il primo cantava e sonava la citara in questo tenore:

O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi,

O monti, o piani, o valli, o fiumi, o mari,

Quanto vi discuoprite grati e cari;

Ché mercé vostra e merto

N'ha fatto il ciel aperto!

O fortunatamente spesi passi!

4 Il secondo con la mandòra sua sonò e cantò:

O fortunatamente spesi passi,

O diva Circe, o gloriosi affanni;

O quanti n'affligeste mesi ed anni,

Tante grazie divine,

Se tal è nostro fine

Dopo che tanto travagliati e lassi!

5 Il terzo con la lira sonò e cantò:

Dopo che tanto travagliati e lassi,

Se tal porto han prescritto le tempeste,

Non fia ch'altro da far oltre ne reste

Che ringraziar il cielo,

Ch'oppose a gli occhi il velo,

Per cui presente al fin tal luce fassi.

6 Il quarto con la viola cantò:

Per cui presente al fin tal luce fassi,

Cecità degna più ch'altro vedere,

Cure suavi più ch'altro piacere;

Ch'a la più degna luce

Vi siete fatta duce;

Con far men degni oggetti a l'alma cassi.

7 Il quinto con un timpano d'Ispagna cantò:

Con far men degni oggetti a l'alma cassi,

Con condir di speranza alto pensiero,

Fu chi ne spinse a l'unico sentiero,

Per cui a noi si scuopra

Di Dio la più bell'opra.

Cossì fato benigno a mostrar vassi.

8 Il sesto con un lauto cantò:

Cossì fato benigno a mostrar vassi;

Perché non vuol ch'il ben succeda al bene,

O presagio di pene sien le pene:

Ma svoltando la ruota,

Or inalze, ora scuota;

Com'a vicenda, il dì e la notte dassi.

9 Il settimo con l'arpa d'Ibernia:

Come a vicenda, il dì e la notte dassi,

Mentre il gran manto de faci notturne

Scolora il carro de fiamme diurne:

Talmente chi governa

Con legge sempiterna

Supprime gli eminenti e inalza i bassi.

10 L'ottavo con la viola ad arco:

Supprime gli eminenti e inalza i bassi

Chi l'infinite machini sustenta,

E con veloce, mediocre e lenta

Vertigine dispensa

In questa mole immensa

Quant'occolto si rende e aperto stassi.

11 Il nono con una rebecchina:

Quant'occolto si rend'e aperto stassi,

O non nieghi, o confermi che prevagli

L'incomparabil fine a gli travagli

Campestri e montanari

De stagni, fiumi, mari,

De rupi, fossi, spine, sterpi, sassi.

12 Dopo che ciascuno in questa forma, singularmente sonando il suo instrumento,

ebbe cantata la sua sestina, tutti, insieme ballando in ruota e sonando in lode

de l'unica Ninfa con un suavissimo concento, cantarono una canzona, la quale non

so se bene mi verrà a la memoria.

13 \ GIULIA\ Non mancar, ti priego, sorella, di farmi udire quel tanto che ti

potrà sovvenire.

14 \ LAOD.\

Canzone de gl'illuminati.

Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,

Dice il padre Ocean col ciglio altero,

Se tanto son contento

Per quel che godo nel proprio impero. -

Che superbia è la tua? Giove risponde;

A le ricchezze tue che cosa è gionta?

O dio de le insan'onde,

Perché il tuo folle ardir tanto surmonta? -

Hai, disse il dio de l'acqui, in tuo potere

Il fiammeggiante ciel, dov'è l'ardente

Zona, in cui l'eminente

Coro de tuoi pianeti puoi vedere.

Tra quelli tutt'il mondo admira il sole,

Qual ti so dir che tanto non risplende,

Quanto lei che mi rende

Più glorioso dio de la gran mole.

Ed io comprendo nel mio vasto seno,

Tra gli altri, quel paese ove il felice

Tamesi veder lice

Ch'ha di più vaghe ninfe il coro ameno;

Tra quelle ottegno tal fra tutte belle,

Per far del mar più che del ciel amante

Te, Giove altitonante,

Cui tanto il sol non splende tra le stelle.

Giove responde: - O dio d'ondosi mari,

Ch'altro si trove più di me beato,

Non lo permetta il fato;

Ma miei tesori e tuoi corrano al pari.

Vagl'il sol tra tue ninfe per costei;

E per vigor de leggi sempiterne,

De le dimore alterne,

Costei vaglia per sol tra gli astri miei.

15 Credo averla riportata intieramente tutta.

16 \ GIULIA\ Il puoi conoscere, perché non vi manca sentenza che possa

appartener alla perfezion del proposito; né rima che si richieda per compimento

de le stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d'esser bella, maggior

grazia e favor credo che mi sia gionto; perché qualunque fusse la mia beltade, è

stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell'unica e divina.

Ringrazio gli dei, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose

fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia

quanto semplice ed innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere

incomparabilmente grazie maggiori a' miei amanti, che altrimente avessero

possute ottenere per quantunque grande mia benignitade.

17 \ LAOD.\ Quanto a gli animi di quelli amanti, io ti assicuro ancora che, come

non sono ingrati alla sua maga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri ed

aspri travagli per mezzo de quali son gionti a tanto bene; cossì non potranno di

te esser poco ben riconoscenti.

18 \ GIULIA\ Cossì desidero e spero.

 




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