L'ALTARE DEL PASSATO
Ho ripensato
al conte Fiorenzo X... l'altro giorno, dinnanzi al suo palazzo distrutto, con una
mia cara amica, settantacinquenne.
E la signora
mi rivelò un mistero sentimentale, un poco buffo, che dormiva nel mio ricordo
da quasi vent'anni.
***
Io frequentavo
la casa dei conti X... diciott'anni or sono - ne avevo otto - ed ero coetaneo
di Vittorino, il nipote del conte; facevo con lui la terza elementare in quella
triste scuola dei Padri Barnabiti, nella vecchia Torino.
L'amicizia dei
due scolaretti era nata per interesse reciproco; Vittorino era forte in
matematiche, io in componimento; l'uno svolgeva i temi, l'altro i quesiti. E ci
si scambiava l'ospitalità nei giorni di vacanza. Per giungere alla casa del mio
amico, si passava attraverso la parte vecchia della città - ora quasi tutta
scomparsa - un labirinto di viuzze buie ed umidicce odoranti di bettola e di
conceria, di frutta marcia e di vinaccia, dove il cielo appariva dall'alto come
un nastro sottile e tortuoso, fra le mura decrepite dei palazzi nobiliari.
Rivedo il
palazzo del mio amico. Un edificio di puro '600 piemontese; una serie di
finestroni immensi; sulle due colonne d'ingresso un gran balcone dalla
ringhiera curva con in mezzo l'anagramma in corsivo e la corona comitale, e
molte campanule, molte rose, molti garofani che s'attorcevano, straripavano tra
i ferri consunti come fresche capigliature.
Era lo studio
del conte Fiorenzo, e quelli erano i fiori coltivati con le sue mani.
L'atrio e la
scala erano a colonne di granito, vasti, cupi, freddi, polverosi. Non c'era
portiere. Da portiere fungeva quel povero Mini - il fedelissimo del conte, suo
compagno di gioventù, di viaggi, d'avventure - il quale era anche cuoco,
domestico, staffiere, maestro, e completava, con una fantesca decrepita come
lui, ed un giovinetto avventizio, tutta la servitù della casa.
Triste casa,
dove fin dalla soglia s'intuiva l'abbandono, la decadenza, l'orgoglio
pertinace, la ristrettezza mal dissimulata.
Quanti
giovedì, quante domeniche, trascorse in quelle sale oscure, fra quelle cose
tarlate, logore, stinte!
All'ultima
parola del còmpito - fatto subito al mattino, sotto l'egida del conte Fiorenzo
- si balzava dalla sedia con un grido di sollievo, si prendeva di corsa il
grande corridoio oscuro, si giungeva precipitosi in cucina, a somma desolazione
del povero Mini, della povera Ghita affaccendati per la colazione.
E per tutto il
giorno si cercava d'interpretare a rovescio i rettorici ammonimenti del Libro
di Buona Lettura.
Somme nostre
delizie - fra le confessabili - aizzare la servitù, spellare il pollame nelle
capponaie, colpire con il Flobert gli antenati delle vecchie tele, tormentare
la zia Ernesta, la maniaca del secondo piano, salire sui solai, e di là,
protesi a certe finestrette ovali, lanciare cartocci pieni d'acqua o peggio
sulla testa dei passanti.
A mezzodì
preciso scoccava la campana per la colazione. Allora si lasciava ogni cosa , ci
si lavava, ci si ricomponeva per tavola una maschera di dolce ipocrisia.
Se chiudo gli
occhi rivedo la vasta sala da pranzo, rivedo in una mezz'ombra alla Rembrandt
le varie figure. La marchesa Amalia, vedova e mamma del mio amico, la zia
Ernesta, muta e spettrale, lo zio prete gesuitico e goffo, lo zio capitano
goffo e arrogante.
E fra tutti la
bella figura - l'unica simpatica - del conte Fiorenzo, il signor papà: un
bell'uomo dalla persona ancora agile e svelta, dalla folta chioma d'argento,
dal profilo perfetto di vecchio Lord Byron decaduto...
Egli -
comprendo oggi - era uno spirito colto, infinitamente superiore ai suoi figli;
a quei due campioni mediocri della chiesa e dell'esercito, a quella zitella
idiota, a quella vedova arcigna e irascibile. Doveva essere stato il giovane
sentimentale e romantico, l'intellettuale dei suoi tempi, nutrito di Byron e di
Lamartine, d'Alfieri e d'Aleardi... Ricordo certe discussioni coi figli, ho
impresse nella memoria intere sue frasi.
“...ancora una
volta; l'Alfieri va esaltato non fosse che per una cosa sola: aver trovato
metastasiana l'Italia e averla lasciata alfierana!...”
E rivedo la
sua mano alzata, mano pallida e perfetta di patrizio, dall'indice adorno di un
grosso cammeo, la bella testa candida sfavillante in un raggio di sole obliquo,
la bocca volontaria, l'occhio azzurro, giovanile, sotto il vasto arco cigliare.
E non era il
caso di pensare ad una vita austera, alla virtù premiata... Doveva avere avuto un'esistenza
gaudiosa... viaggiato molto, amato molto, dissipato molto, secondo i dettami
della poesia del suo tempo. E la sua giovinezza doveva essere stata
avventurosa, magnifica, inverosimile come un romanzo di Chateaubriand.
- Al presente
viveva quasi del tutto a carico della figlia e il tramonto del povero vecchio
non era sereno. Si capiva quando mancavano lo zio prete, lo zio capitano, e a
tavola sedevamo soli: l'idiota e noi bimbi da una parte, lui e la figlia
dall'altra.
Costei aizzava
il padre con la spietata freddezza del malvagio che deve elargire e sa d'essere
necessario alla vittima, e difficilmente giungevano alle frutta senza un
alterco; alterco signorile, fatto di silenzi eloquenti e di poche parole
sanguinose. Argomenti soliti: un gioiello da rendere, un cavallo da
acquistarsi, un conto da soddisfare; e a ritornello di lei la dissipatezza di
lui, le prodigalità passate, l'orgoglio, le follie...
Noi bimbi si
taceva, gli occhi sul piatto di maiolica antica, intenti all'approdo di Ulisse
o alla desolazione di Penelope tra i legumi in salsa di pomodoro.
- Je ne payerai pas, voilà tout! - diceva lei; poi
a voce pianissima: sibilando: - Vieux fou!
- Tu as dit?... Tu as dit?...
Il conte sobbalzava
sulla sedia con tutti i muscoli del volto contratti dall'insulto figliale.
- Tu as
dit?...
Quella non
rispondeva, piegava il tovagliolo lentamente, s'alzava calma ed implacabile,
spariva.
Il conte la
seguiva con lo sguardo chiaro, fissava alcuni secondi la porta di dov'era
scomparsa, poi si rivolgeva a noi di scatto, con volto ridente, con voce gaia,
battendo le mani, quasi a scuotere il suo strazio e il nostro silenzio.
- Ah! Les gamins! Les gamins! Maintenant où
allonsnous aujourd'hui? A Superga? Alle corse? Al Gianduia?
E mentre noi
si discuteva a lungo sulla mèta, egli s'aggirava per la sala da pranzo,
alternando un sorso di cognac alla sigaretta: toglieva dal piccolo scaffale un
volume, leggeva ad alta voce, con gesto largo, la strofa di qualche poeta,
canterellava, fissava il cielo e il soffitto, sognando...
***
Aveva una
grande simpatia per me e mi prediligeva al nipote.
Forse la sua
vecchiaia di sognatore intuiva nella mia infanzia strana, inquieta, curiosa, i
germi della futura tabe letteraria...
Nelle lunghe
passeggiate in città od in collina lo assalivamo di perchè, tormentandogli le
mani se indugiava nella risposta, e ricordo ancor oggi - ammirando - la
profondità di certe sue spiegazioni, la chiarezza poetica con la quale ci
rendeva facile il congegno del parafulmine o del telefono, la metamorfosi del
maggiolino, l'anatomia del fiore.
Ma il sancta
sanctorum della nostra curiosità erano le sue stanze.
- Chez
monsieur le Comte! - diceva premurosa la servitù.
- L'appartement
du Grand-Papa! - diceva il mio amico, l'indice al labbro, misteriosamente.
Per giungervi
bisognava percorrere tutta la casa; una grande doppia porta dava nello studio,
la sala del balcone fiorito. L'ambiente severo ed elegante rivelava il
sognatore ed il raffinato, lo studioso e l'uomo mondano. Da un lato una vasta
biblioteca saliva fino al soffitto, tutelata da una serie di busti marmorei che
formavano la mia grande meraviglia.
- Monsieur le corate, est-ce que c'est la tante
Erneste, celle-là?
- Ah! Non, mon petit, - diceva egli ridendo -;
c'est Dante Alighieri, le père des poètes.
- Alors, est-ce que c'est vous, monsieur le comte,
ce monsieur-là?
- Mais non! C'est Lord Byron, mon très-cher poète
anglais.
Allora
toglieva dagli scaffali una grande Divina Commedia illustrata, o Don
Giovanni, o Il Corsaro, e ci sfogliava le belle stampe protette da
un foglio di carta velina. Erano quelle, per me, ore di sogno beato.
Ma il mio
amico si stancava quasi subito, costringeva il nonno a cose più gaie.
Allora il vecchio
animava un armonium sul quale certe fontane zampillavano un loro
zampillo di vetro a spirale e dove pastori e pastorelle cominciavano a danzare
su di un'aria flebile e roca... O si passava nella sala attigua, fra le rarità
che il conte aveva portate dai suoi viaggi d'Oriente, o spingevamo la curiosità
fino alla sua camera da letto, parata nello stile dell'Impero, a strie gialle e
turchine.
E si giungeva
alla porta chiusa, alla stanza misteriosa dove nessuno era penetrato mai.
***
La stanza
chiusa!
Il mio amico
me ne parlava sovente, leggendo la favola di Barbe-bleu...
- Tu sais que grand-papa aussi a une cbambre où
personne n'entre jamais... Mini pas même (ch'era dir tutto), ni les oncles, ni
maman... C'est défendu...
- Mais qu'est-ce qu'il y a donc au dedans?
- Sais pas...
sais pas... - faceva il mio amico stringendosi nelle spalle con misterioso
terrore.
La mia
fantasia s'accendeva.
In cucina si
tormentava per ore ed ore la servitù.
- Mini, che
cosa c'è là dentro?
- I
prigionieri del '48! - e sorrideva.
- Non è vero!
- I selvaggi
del Malabar! - e sorrideva.
- Non è vero!
Mini, tu sai e non vuoi dire!
Sapeva e non
voleva dire. Si lasciava assalire alle spalle, piegare le ginocchia, strappare
le fedine rossiccie, percuotere, ma taceva e sorrideva.
La cuoca
interveniva.
- Da bravi,
signorini! Si quietino e glie lo dirò io, in segreto.
Noi si
lasciava la vittima, illusi qualche secondo dalla promessa.
- Il signor
conte ha là dentro una gran bestia, portata dall'India, tanti anni fa... E Mini
solo la può vedere, e va a trovarla due volte per settimana.
Noi si
ascoltava, poco persuasi.
E io pensavo,
intanto, ben altre cose.
Io non sono
mai stato innocente.
Io - che fui e
sarò sempre insanabilmente ingenuo - non trovo, pur risalendo alla mia
infanzia, la cosa che si chiama il candore, ma la mia anima precoce, la mia
malizia impubere, alle vedette.
Ora un giorno,
dopo che Mini e Ghita s'erano affaticati a descriverci la belva prigioniera, e
il pelo e le corna e le zanne e la coda, io interruppi quelle meraviglie
zoologiche concludendo:
- Vittorino! J'ai compris maintenant ce qu'il y a
au dedans! Il y a la bien-aimée de ton grand-papa!
I due
poveretti tacquero, si guardarono, s'abbandonarono sulla sedia desolati!
***
Ma non era la
“bien-aimée”, non era una donna il segreto della stanza impenetrabile.
Quando m'era
dato di giungere a quella porta - una vasta porta secentesca, ad intarsio di
noce e a borchie d'ottone - io palpavo il legno ed il metallo, ascoltavo trepidante
i rumori dell'al di là.
Nulla, mai
nulla.
Non un mistero
di vita, non un mistero di morte e di passato era custodito là dentro; non
donne, ma puri spiriti erano prigionieri della porta pesante.
La mia fantasia
si smarriva, la mia curiosità si esasperava.
E tormentavo
il mio amico, avvezzo a quel mistero, rassegnato a quel divieto; lo costringevo
a lasciare i giochi, a passare ore e ore nelle stanze del nonno, per poter
contemplare in fondo, nera e borchiata, la grande porta misteriosa.
Si bussava
allo studio del nonno ed egli appariva sorridente. Ma talvolta non rispondeva.
Allora si spingeva cauti la porta: lo studio era buio, il vecchio non c'era.
S'indietreggiava, si fuggiva spauriti.
Ma una sera io
presi Vittorino per mano, lo trascinai in quella tenebra fosca.
- Il doit être dans la chambre de la bête
farouche! Allons-nous la voir, allons-nous l'épier!
- Non! Non! J'ai peur!
- Viens donc, lâche! Viens!
E lo trascinai
attraverso le stanze buie; avanzammo a tentoni, nello studio, nella sala
orientale, fino alla camera da letto.
Il conte era
nella sala misteriosa!
Una striscia
di luce filtrava sotto la porta chiusa, si propagava sul lucido pavimento a
mosaico...
Ginocchioni,
senza respiro, con l'occhio tra la porta e la soglia, si cercava invano di
scorgere qualche cosa; giungeva soltanto, come un fumo odoroso, un aroma
d'incenso.
Il sangue mi
pulsava alle tempia con la violenza d'un maglio. Nel silenzio udivo il battito
del mio piccolo cuore accordarsi col rodìo d'un tarlo, col tic-tac del grande
orologio a pendolo. Poi una voce, la voce del conte, indistinta, alterata, come
quando diceva dei versi, ma più incalzante, affannosa ora di supplica, ora di
richiesta, quasi rivolta a più persone, quasi in attesa vana di una risposta...
E poi lunghi intervalli di silenzio sepolcrale.
Non capivo le
parole.
- ... horrible... pas plus... chevelure...
épouse... Katty... Hortensia... souvenir... pardonner...
Un lungo
silenzio. Poi un sospiro lento e straziante, il sospiro del disperato
rimpianto. Poi un soffio, un altro soffio... la striscia di luce s'affievoliva:
il conte spegneva, stava per uscire...
Balzammo in
piedi, fuggimmo ratti e silenziosi come sorci, riparammo in cucina...
Ma un'ora dopo
io volli che si ritornasse a bussare allo studio del vecchio. Egli ci accolse
benigno; come al solito ci fece vedere le stampe, i libri di scienza e di
viaggio. E come, in fondo, attraverso le stanze, appariva la grande porta
chiusa, io non mi trattenni, raccolsi tutta la mia audacia, domandai sommesso:
- Et là dedans, monsieur le comte, est'il vrai
qu'il y a une bête terrible?
Egli mi
guardò, mi passò una mano sulla nuca, sorridendo:
- C'est Mini qui dit ça?... C'est vrai... Une bête
terrible vraiment... - poi tacque, poi parve sussurrasse piano, come a se
stesso:
- Le regret, mon enfant!...
***
Gli Anni mi
divisero dal mio amico. Seppi l'esilio di lui, a Parigi, con la madre, passata
a seconde nozze.
Lessi, poco
dopo, la morte del conte Fiorenzo.
La mia infanzia
si dileguò nel tempo.
Passò, passò
quasi vent'anni la cosa fatta di giorni che si chiama la vita. Dimenticai.
Ma ho
ripensato al conte Fiorenzo dinnanzi alla sua casa distrutta, con una mia cara
amica settantacinquenne; una di quelle signore che prediligo, perchè hanno alle
spalle un'infinita lontananza di figure, di tempi, di paesi e il loro discorso
ha per me il fascino misterioso di una fiaba.
Intelligenza
sveglia, dal motto pronto ed arguto, che in mia serata aduna intorno alla sua
canizie tutti i corteggiatori e li contende alle belle papere ventenni. Anima
buona, tuttavia, e sentimentale, che molto ha vissuto, che tutto sa
comprendere, tutto perdonare. Forse (molto si favoleggia sulla sua giovinezza
remota) forse perchè tutto le sia perdonato.
Il mezzodì era
prossimo. Entrammo in una grande confetteria.
- Grazie,
caro. Offri un amaro a me, una pasta a Khy-San.
Seduti in
disparte, presso una grande vetrata che dava sulla via turbinosa, io tenevo
sulle ginocchia la canina giapponese, una meraviglia di grazia e di bruttezza.
E guardavo
fuori, al di là delle case nuove, un grande spiazzo di quartieri demoliti; e
nella desolata tristezza dei ruderi, delle aste, delle palizzate, riconobbi ad
un tratto la casa del mio amico d'infanzia, già distrutta per metà, distinsi le
colonne d'ingresso, il gran balcone centrale.
- Signora, lei
ha conosciuto i conti X...?
Ella ebbe un
moto con le due mani e un largo sorrise.
- E quanto! La
contessa fu tra le mie care amiche... Adorabile creatura! Era Dama di Maria Cristina.
Morì giovanissima di mal sottile. La Regina la pianse, come una sorella.
- Ma lui il
conte Fiorenzo...
La signora non
sorrise più.
Tolse dalle
mie ginocchia, accoccolò sulle sue Khy-San che guaiva, mormorò con voce mutata:
- L'homme aux cinq cents maitresses...
- Cinquecento!
- Se non
tante, molte davvero... Molte ne ho conosciute anch'io...
E prese a fare
qualche nome, evocando; e ad ogni nome si affacciava alla mia fantasia una
larva di donna, fatta polvere da gran tempo.
- Quando l'hai
conosciuto, tu?
- Diciott'anni
fa, signora. Ero amico del nipotino...
- Bisognava
vederlo ai suoi giorni!... Aveva quella freschezza fatta di linee perfette, di
forza, di nobiltà, di fierezza, d'intelligenza... Le donne smarrivano la
ragione... Ma era un uomo di fine sentimento, che non amava la società del
tempo vostro... Leggo i vostri libri, e vi compiango. Forse son vecchia e non
so più capire; ma ciò che oggi chiamate l'amore a me pare un pettegolezzo
mondano, uno scambio d'egoismo e di vanità...
- Signora!
- È così, è
così...
Tacque, presa
dalla tosse e dall'affanno, ravviò con mano tremante la seta ondosa che
guarniva le orecchie di Khy-San.
- Io ero
bambino, ma ricordo che il tramonto del conte era triste. Quella figlia...
- Un'aspide!
Da molti anni io non frequentavo la casa per lei... Povero conte!... Avevo
notizie dal fedelissimo Mini che incontravo qualche volta... Altra cara figura!
Ed ella ebbe
un sospiro lento che mi ricordò un altro sospiro straziante, udito chi sa
quando, chi sa dove, sopito nella mia memoria da anni... Un ricordo mi balenò
d'improvviso.
- Signora,
ricorda di aver sentito parlare delle stranezze del conte, di una certa stanza
misteriosa?...
- Anche questo
tu sai! Era la favola di tutti... La stanza chiusa!...
- Ma che cosa
custodiva?
- Se ti
racconto, tu ridi... E hai torto; ti sia esempio della finezza di quell'anima
delicatissima.
Vecchio,
decaduto, sfinito, aveva conservato intatta la poesia della sua primavera,
aveva un rifugio dove ringiovaniva il suo cuore decrepito. In quella stanza
aveva adunato tutte le spoglie delle donne amate. La chambre à souvenirs...
Si raccontano
cose strane.
Le pareti
erano occupate da grandi armadi. In mezzo sorgeva un inginocchiatoio, con molti
lumini, con molti fiori. Il conte si confinava là dentro nelle ore di
rimpianto, accendeva tutti i candelabri, bruciava incenso, perchè l'aria fosse
sacra come quella d'un tempio.
E visitava gli
armadi, toglieva, palpava, baciava ad uno ad uno i ricordi: la veste nuziale e
le zagare appassite della sposa morta, le smaniglie e il velo della Persiana,
la meravigliosa capigliatura d'oro che Katty N... si recise e gli mandò in dono
prima di pugnalarsi in un albergo di Vienna... il rosario e il soggolo di una
carmelitana, il manicotto enorme di una dama dell'imperatrice Eugenia, le
babbucce gemmate d'una cortigiana famosa, che lasciò per lui la protezione del
Re, vesti, guanti, nastri, cinture, fiori finti, fiori secchi, tutti gli
oggetti più strani e più diversi che può lasciare sul suo cammino una donna; e
ritratti e ritratti, e lettere e lettere; e ogni cosa ordinata, collocata,
segnata da un cartiglio recante un nome e una data...
- Un
collezionista maniaco!
- Forse... ma
un grande poeta! Compiuta la visitazione, si inginocchiava ai piedi dell'altare
luminoso e fiorito, dinnanzi a tutti gli armadi aperti, e col viso tra le mani,
chiamava a nome tutte le donne della sua gioventù... Aveva composto per ognuna
una strofe di richiamo e tutte si ritrovavano là tra quei fiori, quei lumi,
quell'incenso, non più rivali, non più gelose, fatte sorelle dal non esser
più... o dall'essere vecchie, il che è la stessa cosa, mio caro Guido!
Khy-San
guaiva, impazientissima.
Io guardavo,
oltre il cristallo, i ruderi del palazzo lontano, le colonne d'ingresso, il
balcone non più fiorito. Pensavo il vecchio ginocchioni ed officiante... Il
demone dell'ironia mi forzava il sorriso...
La signora mi
guardò, accorata.
- Non ridere,
non ridere!
Accarezzò
Khy-San, l'acquietò con una pasta alla crema; ebbe nella voce e nello sguardo
un disperato rimpianto, e fu per me la rivelazione certa:
- Voi,
giovani, non potete comprendere. Ma era dolce amare, era dolce essere amati
così!...
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