GARIBALDINA
“... Ho anche
letto di lei una novella: L'Altare del passato. Mi permetto (seguono le
impressioni della scrivente) e mi permetta di pregarla di una visita qui, a
Venaria Reale. Anch'io ho una chambre à souvenirs che potrà interessarla
e abito una casa, modestissima casa, ma che le deve piacere.
“Non tema
tranelli o galanterie sentimentali. Ho sessantasei anni.
“Abito alla
Rotonda, n. 4. Poi domandi della Garibaldina. Tutti mi conoscono.
“Ortensia N. N.”
Un tranello?
Non si sarebbe detto. La carta era ampia e giallognola, veramente arcaica e
provinciale, la calligrafia accurata e lievemente tremula, con la s
prolungata, la busta recava il bollo autentico. Ma gli amici sono artisti
mirabili nelle ricostruzioni, quando si tratta di beffare un poeta. Prudentia
docet.
E per paura
d'una beffa e in attesa di notizie prudenti, differii di giorno in giorno, di
settimana in settimana. Il destino mi portò all'estero per molto tempo. E
dimenticai Garibaldina senza averla conosciuta.
La ricordai
quasi due anni dopo; quando mi ritrovai alla Venaria, in partita di caccia. Io non
sono cacciatore. Mi sarei annoiato mortalmente nel parco vastissimo, tra quegli
amici che la passione convertiva in forsennati silenziosi e sanguinari, mi
sarei annoiato mortalmente, se non m'avesse consolato la sottile poesia del
luogo. A vent'anni, per snob, disprezzavo Torino e i suoi dintorni; oggi
ho imparato a conoscerli e ad amarli. Come mi piace la Venaria! Solo,
abbandonato nel vasto parco dai miei amici dispersi, ascoltavo i colpi
echeggianti dei fucili che potevano ben essere le archibugiate d'una partita di
caccia in sul fluire del '600 o sul principio del '700, quando la corte si
riposava in ozi arcadici o venatorii, dopo i giorni terribili dell'assedio.
Il Castello,
la mole rossigna di mattoni grezzi, traspariva tra il verde; e come lo stile
del Juvara si armonizzava con la ramaglia degli alberi testimoni dei secoli
andati! Vagai tra i boschi, dove la mia nostalgia poteva illudersi di vivere ai
giorni di Carlo Emanuele II; visitai il Castello dei Laghi, sostai alla
Bizzarria, il convegno di caccia, mi dissetai al Passatempo delle Dame.
Malinconia non traducibile di quel passato, quando la Corte Sabauda aveva qui
la sua sede, riflesso un poco provinciale delle consuetudini di Francia e del
fasto boschereccio dei re Luigi! Rientrai in paese.
Chi l'ha vedû Turin e nen la
Venaria
A l'ha vedû la mare e nen vedû la
fia.
Sì, ma una
figlia più vecchia di una madre, una zitella di età immemorabile! Strana
mistura di borgo campestre e di pretesa cittadina, con quella Piazza d'Armi
dove un giorno rombavano i mortai di Madama Reale e quella Chiesa barocca
dell'Alfieri e le due colonne marmoree della piazza, la Piazza dell'Annunziata,
segnata dallo stile del Juvara essa pure, con gli edifici a cinque piani e i
portici pretensiosetti.
- Già, la
Garibaldina è ritornata da Palermo...
- La
Garibaldina, - e la mia memoria ebbe un lampo, - La signora Ortensia N.?
-
Precisamente.
- Dove abita?
- Qui a
destra: sotto i portici.
- Che donna è?
Il tabaccaio
mi guardò con qualche curiosità.
- È una
vecchia in gamba, che porta i suoi settant'anni come se fossero venti. È di
Venaria. Ma passa gran parte dell'anno dai parenti di suo marito, il
Garibaldino: per questo la chiamano così. È stata allevata da uno zio, un
prete; il parroco che avevamo una volta. È una donna molto istruita, molto
originale e troppo schietta; letica con tutti, ma tutti le vogliono bene.
Uscii, suonai
alla porticina di legno scolpito e tarlato. Quale prigione doveva essere quella
casa e quale tanfo di chiuso là dentro! Ma quando la porta s'aperse, mi salutò
una luce vivissima che veniva da un bel giardino verde e m'accolse un profumo
di glicine e di rose così acuto che vinceva l'odore di muffa delle stanze
secolari.
Una fantesca
pingue m'introdusse in un salotto, in attesa. Due finestroni a telaietti davano
nella mezza ombra tetra della via settecentesca, ma verso il giardino era la
luce verde e sempre giovane, un tremolìo d'acquario luminoso, attraverso i
pampini delle pergole folte. Osservavo. Un magnifico mobilio dell'Impero, a
fasce lilla e gialle, due canterani a mezzaluna di legno intarsiato,
desiderabilissimi, alcune tele di pregio; e tutte queste cose profanate dai
sopramobili di mezzo secolo di cattivo gusto: fiori e frutti sotto campane,
uccelli imbalsamati, ecc... tutti gli arredi indispensabili dei salotti atroci.
Miniature, dagherrotipi, fotografie a profusione deturpavano il ricco damasco
delle pareti, viola a losanghe gialle, e alle due estremità due grandi
oleografie: Pio IX e Leone XIII - omaggio allo zio defunto - stavano di fronte a
Vittorio Emanuele II e Garibaldi, omaggio al defunto marito.
Udii un passo
giù per le scale, nel corridoio: ecco la vecchia. Ma non era una vecchia che mi
fissava dalla porta. Eretta sulla persona snella, i capelli divisi in due bande
lustre - quei capelli castani e lisci che non diradano e non incanutiscono mai
- la signora Ortensia mi guardava dalla porta ed il suo volto sembrava un volto
giovane, lievemente truccato da “madre nobile” da un filodrammatico maldestro.
Tanto che la riconobbi subito, da una miniatura, fissata a lungo poco prima,
appesa alla parete.
- Per carità!
Badi che non l'ho chiamato qui per farmi dei madrigali! Quella miniatura ha
cinquant'anni precisi. Ne avevo diciotto. Ma prima di tutto, mi dica, come mai
s'è fatto desiderare due anni. Che cosa temeva?
La voce era
brutta come una brutta voce maschile, con un che di pretesco, ereditato certo
dallo zio, un porgere quasi rude, ereditato certo dal marito, ma le cose che
diceva erano piene di grazia e giovani come il suo volto e come la sua persona.
Vidi in un
cestello da lavoro una copia dell'Illustrazione, della Nuova
Antologia.
- Era già
abbonato mio marito buon'anima. Ho sempre letto molto e leggo oggi più che mai.
Non rimane altro alla nostra età. Ma i bei libri si vanno facendo sempre più
rari; o sono io che invecchio terribilmente...
Parlai, la
feci “parlare letteratura”. Non era una divoratrice di libri soltanto. Era una
donna intelligente, ma d'un'intelligenza che s'era fermata a Carducci e a De
Amicis. Ostile a D'Annunzio, indifferente a Pascoli, non aveva varcata la
soglia letteraria della nuova generazione. Ma come conosceva bene e come amava
i maestri d'un tempo, quali cose esatte e profonde - la profondità è così rara
in una donna! - diceva su Carducci e su Victor Hugo. E come conosceva tutta la
letteratura storica, e il Risorgimento e la critica bibliografica alle gesta di
Giuseppe Garibaldi. Due, tre volte mi prese in fallo, mi corresse rudemente su
date, nomi, episodi. Salvai la mia ignoranza deviando il discorso.
- Suo marito?
-
Precisamente.
La signora
Ortensia s'alzò, staccò dalla parete una fotografia colorita: camicia rossa,
naturalmente, ma un volto non garibaldino, nonostante la chioma e la barba
stilizzata; un bel tipo siciliano, bruno, dagli occhi profondi.
- Mah! Era destino
che il compagno della mia vita mi piovesse di lassù.
E la vecchia
signora accennò al soffitto a grosse travature.
Pensai certo
che volesse alludere ai disegni imperscrutabili della Divina Provvidenza.
- Si creda in
un Dio o in un Fato soltanto, tutto piove di lassù, cara signora.
- Ma no, lei
non m'ha capito. Mio marito è veramente piovuto di lassù in questa sala. E ho
fatto la sua conoscenza così. Senza di questo non ci saremmo sposati mai.
Guardai la
vecchia signora, con qualche inquietudine.
- Le ho detto
che io ero orfana e che fui allevata da mio zio, un sacerdote d'antico stile,
ligio al passato, con tricorno, codino e calzaretti: un cuore d'oro, al quale
devo tutto, ma che m'ha amata a suo modo, tenendomi prigioniera fino a
vent'anni e che io ho amato a mio modo, tormentando la sua vecchiaia con
un'irruenza maschile e ribelle che non s'è modificata mai... Lei, loro della
nuova generazione non possono immaginare che cosa fosse un'anima ardente che si
schiudeva alla vita in quei giorni, tra il '60 e il '70; un'anima chiusa,
guardata a vista tra queste pareti, mentre fuori, d'intorno, rombava come un
vento di vittoria il nome dell'Italia che si compiva e il sogno fatto realtà
balenava di figure d'eroi d'una bellezza e d'una grandiosità delle quali oggi
s'è perduta financo la specie; eroi da far dar di volta a tutti i cuori
diciottenni d'Italia. E io avevo diciott'anni, caro signore, e forzavo la
clausura di questa casa con tutta la merce più invisa: Aleardi e Fusinato, Mazzini
e fogli rivoluzionari; leggevo, capivo e sognavo. Sopra tutto sognavo; e, come
ogni fanciulla d'allora, deliraro per Garibaldi. Non l'avevo mai visto, non
l'avrei visto mai; forse per questo l'adoravo di più. Conoscevo tutto di lui,
attraverso libri e giornali, possedevo una raccolta segreta di litografie dove
potevo seguirlo in ogni sua gesta: l'incontro con Anita, Garibaldi duce della
Legione di Montevideo, Garibaldi agricoltore a Caprera, Garibaldi che medita la
spedizione dei Mille, Garibaldi ferito dopo i giorni d'Aspromonte.
Il nome
dell'eroe era bestemmia in questa casa. Chi aveva detto “Roma o morte” si era
dannato per sempre, in questa vita e nell'altra.
Bisognava
tacere e adorare in silenzio. E venne il '70, vennero i giorni balenanti. E in
questa casa, tra zio e nipote, correva il più stridulo contrasto e il più
tacito disaccordo di sentimenti.
L'una esultava
e adorava, l'altro esecrava e malediva. Povero zio! A tavola lo vedevo leggere
le notizie con volto di giorno in giorno più corrucciato. Ed io godevo del suo
rammarico. Si è crudeli a vent'anni!
Ma il destino
fu per quel sant'uomo più crudele di me. Venne ad abitare al primo piano una
famiglia siciliana, ricchi mercanti d'olio e d'agrumi, e poco dopo venne un
giovanotto che mi colpì subito per gli occhi nerissimi e i denti bianchissimi e
una cert'aria nei capelli e nella barba, nella figura e nel passo marziale che
mi pareva di riconoscere, d'aver già visto altra volta, in sogno forse, ma
visto certo. Tanto che quando la cuoca mi annunziò tremando: abbiamo qui sopra
una famiglia di eretici; quel giovanotto è un Garibaldino: uno dei dannati di
Porta Pia - io esclamai esultando: Un Garibaldino! L'avrei giurato!
E da quel
giorno mi parve di vivere in una ballata del Prati.
Mio zio, a
tavola, aveva un volto convulso, quasi cianotico; m'ammonì solennemente: - È
proprio così. Evita di salutare quelle signore, anche quando le incontri per le
scale. Il cielo ci vuol provare mettendoci a contatto di gente sciagurata. Da
parte tua non sarà mai troppo il riserbo.
Promisi. E il
giorno dopo, quando vidi passare sulla piazza il giovane sciagurato, esposi,
agitai per un secondo dietro i vetri di questa stessa finestra, una stampa del
Generale. Il giovane vide, si fermò trasecolato. - Non dimenticherò la sua
espressione mai più. - S'avvicinò ai vetri: io sorrisi e scomparvi.
Il giorno dopo
egli passò indossando la camicia rossa. Era la prima volta ed era un omaggio
che faceva a me: fu uno scandalo in paese. Io deliravo, in silenzio; deliravo
non per lui, ma per la sua divisa, per quanto di garibaldino emanava dalla sua
figura; amavo in lui - che m'era sconosciuto e indifferente - l'Eroe dei miei
sogni. E non potergli parlare!
- Quello
spudorato ostenta in paese la divisa sacrilega. Il cielo saprà punirlo.
Oimè, il cielo
precipitò le sorti in tutt'altro modo e favorendo il nostro idillio silenzioso
con una catastrofe inverosimile.
Da qualche
giorno si sentiva in casa uno strano odore di bruciaticcio, acre e soffocante
che mozzava il respiro. In questa sala poi, l'aria si faceva irrespirabile e
velata:
- Dev'essere
preso fuoco ad un camino; questa è fuliggine che brucia, - diceva mio zio,
ansimando più che mai.
- Sono quelli
di sopra, - sosteneva la cuoca, - quel dannato di figliuolo dorme precisamente
qui sopra. Chi può dire che cosa stia macchinando? Giurerei che prepara la
polvere per far saltare in aria la cristianità.
Furono
chiamati manovali competenti, fu visitata accuratamente tutta la casa nostra,
la casa dei “dannati”, che protestavano, allarmati essi pure. Ma la ragione
dello strano fenomeno non si trovava. Fu persin necessario un abboccamento tra
mio zio e il vecchio di sopra, per la questione d'un camino in comune.
- Sembra un
uomo dabbene, nessuno lo direbbe il padre di quell'anticristo.
E mio zio tossiva,
tossiva e tossivo anch'io; e l'aria in questa sala si faceva sempre più
irrespirabile.
Ed una notte
l'incredibile catastrofe avvenne.
Fu nel buio e
nel silenzio un fragore, un rombo che scosse la casa dalle fondamenta. Tutti ci
trovammo in piedi, in camicia, nell'oscurità: io, lo zio, la cuoca, urlando
impazziti.
- Il
terremoto! Le mine! Una bomba! I ladri!
Quando furono
accesi i lumi e ci precipitammo verso la sala, l'aria era annebbiata di fumo e
di calce. La prima cosa che mi vidi venire incontro fu il cane dei nostri
vicini di sopra, che guaiva lamentosamente. E nella sala, alla luce delle
nostre candele, apparve una rovina spaventosa. L'ultima trave era spezzata, un
buon terzo del soffitto sfondato; nella sala, tra un cumulo di macerie, si distingueva
un letto, due sedie, materassi e lenzuola disperse e un uomo che si agitava -
non più in eroica camicia rossa, ma in prosaica camicia da notte - invocando
soccorso.
- Ortensia,
ritirati!
Mi rifugiai
nel corridoio, ascoltando.
- Ma come mai
lei s'è introdotto nella mia casa?
- Introdotto?
Ci sono precipitato, non vede?
- Ma che cosa
macchinava lassù? Chi ha fatto quel buco?
- Lo domando a
lei! Non io certamente! Sono salvo per miracolo! Ma una gamba non mi regge e
vedo le stelle...
- Vediamo,
vediamo, - e la voce di mio zio si rabboniva, - si accomodi intanto e si copra.
Io mi vesto e vengo subito.
S'udivano
dall'alto, dall'orlo della buca, le grida di spavento, le invocazioni della
famiglia di sopra che domandava notizie dello scomparso e la cagione dell'accaduto.
Era accaduta
una cosa strana e semplicissima. Una scintilla del camino aveva carbonizzato la
trave del soffitto, minandola come può fare un tarlo, per settimane e
settimane, pur lasciandone intatta la superficie. E nell'ora fatale aveva
ceduto.
- Mio figlio!
Mio figlio! Cesarino? Sei vivo?
- Vivo, mamma!
Non ti disperare.
Subito tutta
la famiglia di sopra fu nella nostra casa. Un dottore, chiamato d'urgenza,
giudicò la gamba non grave, ma temibilissima una congestione per lo shock del
capitombolo, necessaria l'immobilità assoluta ed il silenzio. Fu improvvisato
un letto in questa sala stessa, là, in fondo. E il ferito restò qui tre
settimane.
- E lei lo
vegliò amorosamente, come nei romanzi d'una volta.
- Proprio, ma
non sola. C'erano la madre e la sorella che si davano il turno; e mentre noi si
vegliava, il padre di lui e mio zio giocavano a carte, bevendo, ciarlando,
presi da quella reazione di simpatia improvvisa che segue sovente le avversioni
silenziose ed ingiustificate.
L'ammalato
migliorava. Ma verso sera sopraggiungeva la febbre ed il delirio. Una sera, per
adattargli la vescica del ghiaccio sulla nuca, fui costretta a sollevare la
folta chioma nera sulla bella fronte pallida. Egli mi baciò la mano che ritirai
subito; aprì gli occhi, arrossì come un fanciullo.
- Perdoni,
signorina, l'avevo presa per mia sorella.
Un altro
giorno, dopo un lungo silenzio, soli questa volta, io fissavo nel sonno quel
bellissimo volto, quando m'accorsi che il giovane mi guardava tra le lunghe
palpebre appena socchiuse:
- Signorina,
io sono umiliato.
- Umiliato di
che?
- Non le so
dire. Della figura grottesca che ho fatto, che faccio con lei. Penso che nella
mia vita avrei potuto conoscerla in dieci occasioni gloriose ed apparirle un
eroe. E invece le sono precipitato in casa come un sacco di legumi. Avrei
voluto averla infermiera a Milazzo, quando sbaragliammo le truppe di Bosco. Fu
una lotta a corpo a corpo contro i Borboni. Non guardavano più a noi. Tutte le
sciabole erano dirette a Lui, era Lui che volevano uccidere. E il Dittatore
sarebbe stato finito se Missori, se Statella, se noi più fidi non gli avessimo
fatto scudo. E fu nel fargli scudo che mi presi questa graffiatura.
E Cesarino
scoperse il petto sopra una larga cicatrice obliqua.
- Fui dieci
giorni in un fienile tra la vita e la morte: e avevo a vegliarmi una vecchia
quasi scema... Penso oggi, con rimpianto, che quella vecchia avrebbe potuto
esser lei.
- Sono giunta
troppo tardi, - sospirai, ad arte, - sono giunta troppo tardi, signor Cesarino.
- Troppo tardi
per la gloria, ma non per l'altra cosa.
- Qual cosa?
- La cosa che
penso, - mormorò fiocamente il malato.
E non parlò
più. E chiuse gli occhi. Ma quando gli posai il ghiaccio sulla fronte ardente,
mi baciò la mano ancora una volta. E non mi disse più di avermi prosa per sua
sorella.
***
E così, sei
mesi dopo, sposavo l'uomo che fu per quasi quarant'anni il compagno della mia
vita.
- Ed è stata
felice?
- La domanda è
indiscreta; ma le mie confidenze gliene dànno il diritto. Non felice, - la
felicità non è di questo mondo, - serena. Certo non si prolunga per mezzo
secolo la poesia dei vent'anni. Se penso a quei giorni mi par d'averli letti in
un bel romanzo.
- Signora, temo
che lei non abbia amato suo marito, mai.
- Signore,
l'ho adorato!
- Mi spiego.
Ha amato in suo marito l'eroe dei suoi diciott'anni: Giuseppe Garibaldi. Penso
che molti cuori diciottenni abbiano avuto in Italia, in quei giorni, la stessa
illusione e abbiano sposato un garibaldino non potendo sposar Garibaldi...
- Per copia
conforme, - e la vecchia signora sorrise, col suo bel sorriso giovanile - per
copia conforme: può darsi anche questo...
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