I SANDALI DELLA DIVA
Io parlo sovente,
forse troppo sovente della mia infanzia. Ma devo risalire a quell'origine
prima, se voglio ritrovare qualche immagine fresca, qualche cosa viva e vera da
raccontare. Via via che scendo verso il presente tutto si confonde, si
illividisce, s'abbuia: la mia memoria, per una strana inversione, non conserva
nitide che le impressioni remote.
Palmira
Zacchi. Basta il nome per resuscitare la donna, anzi, tutto un tipo di donna:
la gran ballerina, la Diva della quale abbiamo perduto la specie. Strano esemplare
d'una galanteria che non è più! Due gambe agili, muscolose, che l'esercizio ha
fatto un po' maschili, dal polpaccio eccessivo, guizzante nella maglia rosea,
erette sul pollice irrigidito, gambe più importanti di tutta la restante
persona, innestate nei petali vaporosi del gonnellino di tulle come due
pistilli troppo rosei e troppo carnosi, sui quali s'appuntavano i mille
binocoli di tutto un pubblico defunto: viveurs decrepiti o adolescenti
stilizzati secondo l'umorismo di Teja o di Gavarni: “le gambe d'una
ballerina...”. La restante persona contava poco. Sul gonnellino una vita di
vespa reggente due seni sferici e gonfi di nutrice, due braccia per lo più
scarne e bruttine, un visuccio camuso e volgare, un'acconciatura a toupet
con diadema a mezzaluna e relativa stella in brillanti...
- E per donne
di tal fatta i nostri papà tradivano le nostre mamme, per donne di tal fatta si
leggeva nei drammi e nei romanzi di Sardou e di Dumas come il marchesino
Gastone sperperasse le sostanze del padre, facesse morire di dolore la canuta
sua madre, tradisse il puro affetto di madamigella Sidonia e finisse col farsi
saltar le cervella...
Rallegriamoci
di esser nati mezzo secolo più tardi.
Molte cose
hanno progredito in buon gusto, compreso il tipo della donna fatale. Ma
esistono oggi donne fatali?
Certo, al
tempo in cui risale il mio ricordo, Palmira Zacchi aveva cessato d'essere una
donna fatale. Aveva quasi sessant'anni ed era diventata baronessa Altari,
moglie legittima del barone Altari, nobile canavesano, scudiere di S. M. il Re
Vittorio; come gran parte delle ballerine d'alto rango aveva coronata la sua
vita di falena spensierata e vagabonda con un blasone autentico. Il che le
faceva indulgente tutto il paese e tolleranti tutte le signore. Il Barone era
morto due anni dopo, in condizioni finanziarie non liete, lasciando alla vedova
non altro che una villa attigua alla nostra, una villa di gusto atroce: stile
anglo-svizzero-cinese, con i nani in terracotta sui balaustri del giardino e i
moretti reggenti i lampadari lungo lo scalone di marmo. Là Palmira Zacchi
trascorreva la sua vedovanza e scendeva qualche volta da noi. La ricordo nel
nostro giardino in certe sere d'estate, seduta accanto a mia madre che a me
sembrava divinamente giovane, quasi una bimba minuscola accanto a quella donna
alta e possente, in gramaglie, dal volto aspro, con sotto il mento (sono mie
impressioni d'allora) una pelle che tremava nel parlare come quella delle
testuggini; e ricordo nitidamente qualche intera sua frase, e quella sua voce
buona e dolente, mista di nativo milanese, e quel sorriso che le increspava il
volto di rughe e le scopriva i denti troppo belli...
- Signora, lei
è giovane; mi creda, non c'è ferita che il tempo non risani...
E ricordo
ancora:
- Le han fatto
del male? Passa! Meglio ricevere il male che farlo; a me ne han fatto tanto...
Poi ricordo
mio padre sopraggiunto e il commiato e la Baronessa che s'allontanava lungo il
viale, agile ancora e svelta, e il commento dei miei:
- Dev'essere
stata una magnifica creatura.
- Magnifica.
- E d'animo
non volgare, di cuore veramente grande.
- Grandissimo,
- sorrideva scettico mio padre. - Lo possono attestare re e imperatori.
***
Aveva una
grande predilezione per me.
Ero allora un
bimbo di forse sei anni, ricciuto, precoce, ciarliero, e la vecchia danzatrice
solitaria s'illuminava tutta vedendomi, m'abbracciava con tenerezza infinita,
con la nostalgia di maternità insoddisfatta che è in fondo alla vita d'ogni
mondana. Se entrava in giardino e mi trovava solo, mi rincorreva, mi ghermiva,
mi sollevava in alto, mi sbalzava nel vuoto quattro, cinque volte, mi faceva
turbinare sulle sue spalle a passo di danza, a piroette vertiginose con tutta
la forza e l'agilità della sua arte provetta: ed io non vedevo più nulla,
soffocato di gioia e di spavento.
Un episodio
improvviso venne a ribadire la nostra intimità. Una mia sorella s'ammalò di non
so che febbre contagiosa, rosolia o morbillo. Fu necessario esiliarmi di casa
subito. La Baronessa era presente nell'ora d'angoscia, in giardino, mentre il
dottore consigliava ai miei parenti la mia partenza immediata. Subito ella
profferse d'ospitarmi. I miei rifiutarono. Ma quella insisteva con buone
ragioni: la sua villa era isolata, garantita da ogni contatto e vicinissima ad
un tempo: mia madre avrebbe potuto vedermi ad ogni ora. Accettassero! Non era
un favore: era un favore che facevano a lei, sola con la servitù e col suo
dolore, nella grande casa squallida. Tanto supplicò che ottenne il consenso e
mi portò via tutta lieta, correndo giovenilmente, col suo passo di danza.
***
Altre cose ho
visto nella vita: e terre lontane e grandi capitali e uomini strani, e ho
passate ore di gioia e d'angoscia. Ma nessuna equivale l'emozione di quei quindici
giorni d'ospitalità a villa Palmira.
La Baronessa
aveva adunato nella villa d'improvviso, alla rinfusa, tutti i ricordi del
passato: una miniera d'emozioni intraducibili per la mia fantasia che s'apriva
allora avidissima alla vita. Intere sale erano ingombre dal pavimento al
soffitto di mobiglio accatastato, di quadri, di libri, di armi, di cassapanche
semiaperte donde traspariva un diadema, un pettorale di falsi brillanti, una
lorica a scaglie d'oro. E fotografie, infinite fotografie d'uomini e di cose,
giochi meccanici che mi mozzavano il respiro per la meraviglia: il Trocadero
con le cascate multiple, di cristallo a spirale, la torre Eiffel in oro, con i
visitatori che salivano e scendevano, un albero carico di colibrì smaglianti
che si mettevano a trillare agitando le ali, un Tempietto Greco dove al suono
d'un congegno melodico apparivano una ballerina e un ballerino intrecciando
piroette.
- Sei tu?
- Sono io. E
l'altro è il famoso mimo Radesi. È un dono dello Czar. Il mio volto è fatto
come una miniatura dal più grande pittore russo.
- Non ti
somiglia.
- Non mi
somiglia più. È passato il tempo, piccolo mio!
E i paesaggi
al mutoscopio, il congegno che vedevo per la prima volta, Londra, Parigi, le
cascate del Niagara, la Neva gelata coi pattinatori, le Piramidi coi cammelli e
coi beduini.
- E tu ci sei
stata proprio dentro, alle Piramidi?
- Sicuro.
- E i mori non
t'han fatto niente?
- Niente, ero
con il loro Re.
- Il Faraone?
- No, quello
d'adesso, che si chiama il Kedivè.
- E questo
gran teatro?
- È il teatro
Palmira, di Vienna, che porta il mio nome.
- Ma perchè?
- Perchè così
ha voluto l'Imperatore.
- E tu hai
ballato davanti a lui?
- Sicuro.
- E ti ha
parlato?
- Sicuro. Sono
stata anche a tavola con lui.
- Oh! E non
avevi vergogna?
- Ma nessuna vergogna,
piccolo mio!
Palmira Zacchi
rideva. Ma il più delle volte parlava seria, come ad un ometto, dandomi
ragguagli minuti su tutto e su tutti; e a me piaceva quel tono di
considerazione da eguale a eguale.
Rispondeva
diffusamente ad ogni mio perchè, quasi godesse d'insistere nei ricordi. E quali
e quanti ricordi! Le regioni più favolose, le figure più leggendarie, tutto il
mondo si profilava per me, dietro quella testa mal tinta.
Erano presenti
ai nostri colloqui un servo in livrea, che sembrava tolto da un armadio, e una
vecchia cameriera milanese: la fida Ortensia, che aveva seguito la Diva in
tutta la sua carriera luminosa e la consolava ora nel suo raccoglimento troppo
signorile di vedova blasonata: la fida Ortensia che si permetteva di consigliare
la sua padrona, di contraddirla sovente, di leticare qualche volta
affettuosamente con lei, in purissimo dialetto milanese. La giornata mi volava.
Dormivo nella camera immensa della Baronessa. Avevano fatto scendere dai
soppalchi, appositamente per me, un lettuccio a dondolo, in ferro, memoria di
una nipotina del Barone, morta a dieci anni. Cameriera e padrona andavano a
gara a spogliarmi, scherzando, ridendo del mio cicaleccio. Poi, già sotto le
coltri, mi facevo ripetere dalla Baronessa le cose che più m'avevano colpito.
Una certa corsa disperata, in troika, attraverso una foresta d'abeti, sotto la
neve che aveva fatto perdere ogni traccia e l'ululo dei lupi sempre più vicini,
la storia d'un nubifragio sulle coste del Marocco, di notte, dove la ballerina
aveva dovuto camminare fino all'alba per una landa selvaggia, la storia d'un
incendio in un teatro di Nizza, dove tutti erano morti e la mia amica si era
salvata gettandosi dai tetti in un lungo tubo di tela miracoloso; tutta una
serie di episodi che sentivo il bisogno di farmi ripetere fino alla sazietà. E
la ballerina raccontava, raccontava infaticabile, spogliandosi. Poi, quando
Ortensia ultimava la sua trasformazione notturna, si volgeva verso di me per
assicurarsi che non la guardassi. Ed io la guardavo quasi sempre:
- Adesso
volgiti, caro, che l'angiolino piange.
Io mi volgevo.
Ma qualche volta no e l'angiolino piangeva: non tanto, credo, sul mio candore
offuscato, quanto sulla caducità irrimediabile d'ogni terrena opulenza.
***
- A Vienna ho
una villa dieci volte più bella di questa, con un giardino che non finisce più
e un'uccelliera grande come una casa e un fiume che passa in fondo al giardino
e che si chiama il Danubio. Si ride, si va in barca tutto il giorno... Ma i
cattivi...
- Ma i
cattivi... - incalzavo io, lasciando di mangiare per la curiosità.
- I cattivi
gliela vogliono prendere, - proseguiva la fida Ortensia, sdegnata, - ma anche a
Vienna ci sono dei bravi avvocati.
- Taci,
vecchia mia, - sospirava la Baronessa.
Ed io la guardavo
e il mistero s'addensava più folto dietro quel profilo stanco.
Tutto era
misterioso, quasi pauroso per me, anche le lettere che giungevano dalla
Francia, dalla Russia, dall'Austria: quest'ultime a caratteri alti ed aguzzi,
con un francobollo effigiante un vecchio signore dalle fedine.
- È il signore
della porticina?
- Proprio lui!
Serva e
padrona si guardavano, con un sorriso d'intesa. Io allora volevo rivedere per
la centesima volta la porticina. La quale era un trittico di cuoio a sbalzo, di
stile gotico, che si chiudeva a chiave. Nel mezzo, in miniatura, stava un
signore dalle fedine biondissime e dagli occhi azzurri - il signore dei
francobolli - e a sinistra una dedica, a destra una rosa stinta, sotto il
cristallo.
- Adesso
basta, - sussurrava la Baronessa con tono di mistero pauroso; e mi prendeva il
cuoio dalle mani, lo chiudeva accuratamente, lo riponeva con un sospiro
profondo.
***
Una sera,
mentre si era a tavola, arrivò un lungo telegramma.
La Baronessa
ebbe tale gesto e tale espressione che Ortensia posò la zuppiera e si portò
dietro le spalle della padrona, a leggere tranquillamente.
- Signora, che
succede mai?
- Il
maresciallo col suo segretario. Saranno qui tra due ore. Ripartiranno subito;
bisogna mandare il landau alla stazione.
- Ma che
succede mai?
- Niente;
certo per la pensione.
- Signora, le
raccomando, non desista!
- Cara mia,
con i tempi che corrono, cinquecentomila in contanti mi fanno più comodo che
ventimila d'assegno.
- Pensi a
quello che fa!
- Ci penso, non
temere. Fa che tutta la casa sia in ordine. Fiorenzo metta la livrea.
- E lei come
si veste?
- Già, come mi
vesto? Infagottata in questo crespo odioso, no. Metti fuori la tunica di Tisbe,
quella viola, con i sandali viola; mi sta bene ed è a lutto lo stesso.
Quella sera
fui messo a letto prima dell'ora, in gran fretta.
Non parlai,
non protestai. Capivo vagamente che qualche cosa di grave stava per accadere
nella notte. La notte era fatta più tragica da un violento uragano estivo.
Solo, raggomitolato nel lettuccio, vedevo il buio illuminarsi a tratti al
riverbero dei lampi. Sentivo lo scoscio della pioggia furibonda contro i vetri
e il rombo strepitoso del tuono e la casa scossa alle fondamenta.
Tremavo, avevo
la ferma certezza che nella notte sarebbe giunto l'uomo della porticina, l'uomo
effigiato sui francobolli sconosciuti. Poi tutto si fece queto: m'addormentai,
udii più tardi, in sogno, la sonagliera e lo scalpitìo dei cavalli. Poi
silenzio profondo. Quando mi svegliai era notte alta; attraverso le sale
aperte, attraverso lo scalone sonoro, giungeva chiara, sillabata la voce della
Baronessa, alternata con un'altra voce rauca, con una terza voce stridula.
Balzai a
sedere sul letto, col respiro mozzo dallo spavento e da una curiosità più forte
dello spavento. Attraversai tre stanze, in camiciola, a piedi nudi, scesi il
primo ramo dello scalone; i denti mi battevano pel freddo del marmo e per la
voluttà del rischio; giunto al limite della zona in ombra, mi protesi tra due
balaustri della scala. Di là vedevo, attraverso la grande vetrata aperta, la
Baronessa seduta e i due signori alzati, già in atto d'accomiatarsi. L'uno
bruno, dalla barba aguzza, l'altro piccolo e tozzo. Non c'era il signore
effigiato sui francobolli e ne fui deluso. Parlavano una lingua aspra e
sconosciuta, ma capivo che dovevano dire alla Baronessa cose non liete, perchè
la mia amica scuoteva il capo con un sogghigno amaro. Poi ci fu un lungo
silenzio, essa si alzò, i due s'inchinarono, uscirono dalla gran porta di fondo
che si chiuse lentamente. La Baronessa fu sola in mezzo alla sala, si portò le
mani alle tempie con gesto disperato, s'abbandonò ancora sulla poltrona; poi,
chinandosi con un gesto di rabbia, si tolse i sandali gridellini, li scagliò
l'uno dopo l'altro contro la porta, alle spalle dei due visitatori scomparsi.
***
Raggiunsi il
mio letto con il cuore in tumulto. Quando, pochi minuti dopo, la stanza
s'illuminò ed entrarono la Baronessa e la cameriera, io fingevo di dormire.
- Signora!
Signora, mi dica subito, per carità, la pensione, la pensione?
- Che cosa
vuoi che m'importi della pensione? Voi gente venale non pensate che a questo!
- Non
s'offenda, signora, mi tolga di pena.
- La pensione?
Ebbene ho rinunciato alla pensione.
- Per
cinquecentomila?
- Per trecentomila.
- Vergine
Santa! Ma lei sa che non bastano nemmeno a riscattare la villa di Vienna!
- Per me il
denaro non conta. - E la Baronessa cominciò a singhiozzare forte, china sulla
proda del letto.
- Tu non puoi
capire. C'è l'onore prima di tutto, il puntiglio d'onore, per una donna come
me! Sono bandita, capisci, bandita! Io: Palmira Zacchi, Baronessa Altari,
bandita come una sgualdrina!
- Ma non
capisco! Mi parli, mi dica.
- Sì, sì! Me
l'han fatto firmare di mio pugno! Bandita per sempre, tempo tre mesi.
- Ma in tre
mesi non potrà assestare le cose di Vienna! Dovrà rendere la villa per un tozzo
di pane; la strozzeranno!
- Mi
strozzeranno, dici bene, m'hanno rovinata, mi hanno finita!
Serva e
padrona vociferavano, singhiozzavano senza più ricordarsi di me, che vegliavo.
E il mio terrore crebbe a tal segno che balzai sul letto, invocando aiuto.
- Taci,
vecchia mia; facciamo morire il piccolo di spavento.
La Baronessa
mi prese tra le braccia, mi cullò passeggiando per la stanza - non a passo di danza,
questa volta! - baciandomi e inondandomi i capelli di lacrime, poi si sedette
sul divano, mentre la fida Ortensia, in piedi, ci guardava costernata; e si
piangeva tutti e tre di un pianto diverso.
- Ma che cosa
- proruppi quando il singhiozzo mi ridiede il respiro. - Ma che cosa... t'han
fatto?
- Tanto male,
piccolo mio!
- L'uomo dalla
porticina?
- No, non lui;
lui non ne può niente...
- Ma non
piangere così, - protestai, vedendo quel volto convulso, rigato di pianto
continuo. - Perchè piangi tanto? Che cos'hai?
- Ho che gli
uomini sono tanti delinquenti.
Palmira Zacchi
singhiozzò ancora a lungo, nei miei capelli, e conchiuse con una voce di
mortale stanchezza:
- Col tempo,
piccolo mio, ti farai un delinquente anche tu.
***
E fu l'ultimo
ricordo nitido di lei.
Palmira Zacchi
non ritornò in Canavese nè l'estate dopo, nè poi.
La villa fu
venduta e la figura della Baronessa dileguò senza traccia e senza rimpianto. Il
mondo si chiude con una rapidità inesorabile sul naufragio della bellezza e
della rinomanza.
Si seppe che
aveva fondata a Parigi una scuola di ballo, ma senza fortuna, poi una a Milano
con qualche successo, tanto da poter vivere.
Lessi, anni or
sono, l'articolo d'una rivista: “Come si preparano le Silfidi della Scala”. E
v'erano interessanti fotografie di danzatrici adolescenti, capitanate da una
vecchietta rigida, che scopriva l'abito di seta nera, mostrando a modello le
gambo stecchite, una vecchietta dalla scarsa canizie e dal volto scolpito nel
legno.
- È proprio
lei! Palmira Zacchi, la ricordi? - esclamò mia madre, con sorpresa affettuosa.
- Povera creatura!
Poi fu ancora
il silenzio, per anni, e l'oblio assoluto.
E l'altro
giorno ho letto su un grande quotidiano la colonna di amabile prosa funeraria
che la moda consacra agli scomparsi: “La morte di Palmira Zacchi”. Tutto era
detto e profilato senza reticenze: le sue origini, plebee - figlia d'un
fiaccheraio, mi pare, - e le sue prime lezioni a furia, di sferzate sulle
gambine non ancora decenni e poi l'attitudine, la bravura crescente, la
rivelazione, la fortuna strepitosa. E non erano taciuti i nomi grandi che
servirono da aureola alla Diva: da Cavour a Radetzky, da Garibaldi a Francesco
Giuseppe e la lunga permanenza a Vienna dell'austriacante e il suo fasto
radioso nell'aureola imperiale. Poi le giuste nozze col barone Altari, il
crepuscolo, la scuola di Parigi, la scuola della Scala, la miseria, la
malattia, l'Ospizio (nemmeno l'Ospizio è mancato, a far più completa l'istoria
e più classica la parabola), il ricovero dove, sotto il robone bigio dalla
targa di metallo numerato, la più che ottuagenaria si dev'essere spenta in una
specie d'allucinazione demente.
Ora la
creatura di bellezza e di follia è divinamente bella e divinamente felice
perchè non è più. Il non essere l'ha ritornata all'eterna giovinezza.
Ma io penso
alle ore di lei che conosco e che nessuno conosce e che m'appartengono come
doni fatti da lei sola a me solo.
E penso
all'uomo dalla porticina, alla figura romantica di giovine biondo-cerulo. E
penso con un brivido d'infinita pietà che quell'uomo vive.
Vive, il
centenario! Si muove il povero scheletro, la povera maschera ridotta ad un
teschio tra le fedine d'argento, con incastonate nelle orbite cave due turchesi
stinte!
E se io
potessi varcare la soglia di una reggia, salire i gradini di un trono,
sillabare a quella reliquia umana, a voce alta, più volte: - Palmira! Palmira
Zacchi! - vedrei forse la calvizie di vecchio avorio sollevarsi e le iridi
pallide animarsi per un attimo, debolmente, d'un riflesso remotissimo: il
riflesso della giovinezza, l'unica cosa che valga, la bellezza sola, spenta la
quale nulla c'è di buono per l'anima in attesa del sonno senza risveglio.
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