L'OMBRA DELLA FELICITÀ
La felicità è veramente
come una veste, come un gioiello - pensò Claudio Soranzi. - Non vale se non in
quanto la si può esibire all'ammirazione ed all'invidia dei nostro prossimo.
Appoggiato
alla finestra della sala di lettura con lo scenario del mare alle spalle, guardava
la moglie silenziosa, intenta a spedire cartoline a dozzine, cartoline
fotografiche effigianti la loro luna di miele in tutti i luoghi più lieti
dell'obbligatorio pellegrinaggio: dalla piazza San Marco con i piccioni
svolazzanti intorno agli sposi sorridenti, al Portofino-Vetta, dove la snella
figura di Nada si disegnava investita, isnellita dal vento marino.
- E ora a te.
Nada passava
al marito le cartoline, ad una ad una, ed egli sottoscriveva i saluti e gli
abbracci per amici e parenti d'Europa e d'America, la più parte non conosciuti
mai.
- Ottantatrè!
- esclamò con un sospiro di sollievo all'ultima cartolina.
- Per oggi
potrà bastare, - consentì la moglie, meditando il libretto dei nomi con la
gravità d'una rubrica commerciale. - A domani il seguito.
- E allora
scendiamo? Scrivi da due ore!
- Desolata! Ma
ne avrò per altre due: ho sette lettere, indispensabili.
Claudio
sorrise, si chinò a baciare la chioma biondissima.
- Allora ti
lascio ad informare l'universo e scendo a passeggiare.
Nada assentì
col capo, già assorta nel preludio d'una descrizione rosea, per un'amica
d'oltremare. Erano le sole ore che Claudio avesse libere, quelle della
corrispondenza della moglie; scese, attraversò il parco dell'albergo, seguì la
strada lungo il mare, solo con se stesso. Mai come in quell'ora potè misurare
col raffronto dei ricordi la sua piena felicità. Aveva lasciato l'Italia otto
anni prima, subito dopo la morte della madre; era partito sfiduciato, quasi
povero, senza più legami d'affetto. Ritornava quasi ricco, pieno di speranze,
adorato da una sposa che adorava: una piccola italiana dell'Argentina: svelta,
aggraziata, vivace come una polledra delle sue praterie, innamorata della
Patria che vedeva per la prima volta.
Claudio era
felice. Non sentiva il bisogno di gridarlo alle persone lontane, come la
moglie: gli bastava dirlo alle cose che riconosceva intorno. Aveva abitato quei
paesetto ridente della Liguria dieci anni prima, un anno intero, con sua madre
già sofferente, ed ora, seguendo la strada tra il colle ed il mare, si stupiva
di riconoscere certi particolari minimi del paesaggio: uno scoglio dal profilo
umano, un pino proteso in atteggiamento disperato, la curva ondosa d'un oliveto
grigio, sul quale spiccavano in fila, come lacrime nere, i sette cipressi centenari
detti “i sette compari”, un tabaccaio con la stessa insegna dalla stessa
odalisca: le ville ed i giardini, le pietre e le piante, il cielo ed il mare:
tutto era immutato.
E Claudio si
sentiva così giovane, non ancora trentenne, e felice, felice fino alla
sofferenza, nel mattino radioso di settembre. Camminò lungo il mare fin dove
finivano le ultime case di Sant'Erasmo e cominciavano le prime di Sesto. E
allora anche Claudio sentì il bisogno di dire a qualcuno la propria felicità.
Sollevò gli sguardi istintivamente, come ad un richiamo, e riconobbe a mezza
costa, mal celate dal verde, le ogive sottili della Villa Candiani.
La figura
della giovane vedova gli balenò nel ricordo, quale l'aveva vista l'ultima
volta, otto anni prima: tutta vestita di rosso secondo la moda di quel momento
e a rivendicazione delle gramaglie smesse da poco, tutta vestita di rosso a
contrasto magnifico dell'immensa chioma nera e lustra, degli occhi nerissimi,
oblunghi nel volto sempre più gaio, dal sorriso aperto di continuo sui denti
splendidi.
Si chiamava
Costanza: poteva chiamarsi Gaiezza.
Claudio ne
riudiva la voce, il riso trillante, tutto suo, la rivedeva appoggiata al tronco
d'un palmizio, attirandosi vicina la figlia, una bimbetta pensosa, quasi a
farsene scudo, nella coorte dei troppi ammiratori.
Ma non era,
per Claudio, un ricordo galante: non era nemmeno un ricordo sentimentale.
Claudio era un ragazzo poco più che ventenne, e veniva tra gli ultimi degli
assidui a Villa Candiani, accolto tuttavia dalla signora con una gaia
benevolenza, perchè sapeva suonare e danzare e animare una serata, una recita,
una gita con giovanile disinvoltura. Costanza Candiani civettava con lui come
con gli altri; era un'anima volubile, tormentata dalla noia, e questo occupata
di continuo ad intessere di nuove distrazioni la sua vedovanza. Gli ospiti di
Villa Candiani dovevano tutti collaborare allo svago; poche donne, quindi,
molti uomini e quasi tutti giovani. Non aveva amanti: ne convenivano anche le
amiche più feroci. Spensierata, leggera, civetta fino all'indecenza. Ma non
aveva amanti. Aveva un fidanzato, il conte Zeni, di qualche anno, dicevano, più
giovane di lei, che faceva di quando in quando un'apparizione. Quando Claudio
era stato a Villa Candiani l'ultima volta, la signora gli aveva appunto
presentato il conte, lasciando capire apertamente l'imminenza delle seconde
nozze. E aveva salutato il giovane senza più civetteria, con uno schietto
augurio di buona fortuna ed un accento, affettuoso, quasi materno. Claudio era
uscito dalla villa, per l'ultima volta, e aveva considerato quel nido elegante,
immerso nel folto degli aranci e dei palmeti, e quegli ospiti fortunati: la
snella figura femminile e lo sposo prescelto e la bimba che correva garrendo,
aveva considerato quel quadro di felicità irraggiungibile che gli aveva fatto
pesare più ancora il suo destino oscuro e l'esilio senza mèta, forse senza
ritorno.
Ritornava,
invece, oggi, ed era felice. Si compiacque all'idea di rivedere la gaia signora
d'un tempo, di offrirle lo spettacolo della sua felicità, di dirle grazie del
buon augurio. Le avrebbe fatto una breve visita quel mattino; e nel pomeriggio
o all'indomani le avrebbe presentata la sposa; immaginò la moglie biondissima e
la bella signora bruna lungo il sentiero, tra gli ulivi e gli eucalipti.
Sarebbe stata un'amicizia improvvisa, una dolce distrazione per Nada, in quei
pochi giorni di sosta nel paese ridente. Affrettò il passo, giunse quasi
senz'avvedersi a Villa Costanza: il nome splendeva sempre sul marmo immutato.
Spinse il
cancello socchiuso, come un tempo, senza suonare, avanzò sotto gli aranci verso
la rotonda: un chiosco di caprifoglio che circondava il tronco d'un palmizio,
dove per solito s'adunavano gli ospiti. E un ospite già attendeva, una signora
attempata, dalla canizie scintillante come l'argento sullo sfondo verde, ai
raggi del sole obliquo. Claudio avanzò incerto, contrariato d'essere preceduto:
avrebbe preferito quel primo colloquio senza testimoni venerabili. La signora
si volse, lo considerò un attimo, s'alzò a mani tese.
Ma solo quando
gli fu vicino e dopo qualche secondo, Claudio riconobbe quegli occhi e quel
sorriso. Trasalì, volle dissimulare il suo sbigottimento, invano.
- Signora! Mi
riconosce? Mi riconosce?
- Subito l'ho
riconosciuto! È lei, caro Soranzi, che non mi riconosce più! Ed è così poco
cavaliere da lasciarmelo capire!
Claudio
s'imbalbettava.
- Non si
confonda! Segga. Non si confonda, è scusato! Lei è un giovanotto sempre! Ma
segga, la prego.
Claudio
sedette, le due mani prese dalle due mani della signora che tremavano d'una
schietta effusione. Egli non trovava nemmeno le poche parole di menzogna
adulatrice che la pietà suggerisce ad ogni uomo per ogni donna che invecchia.
Ma come si poteva sfiorire, in otto anni, a tal segno? Di tutta la grazia spensierata
d'un tempo, di tutta la bruna avvenenza più nulla restava che il sorriso e gli
occhi profondi, irriconoscibili pur quelli, nell'ovale emaciato tra i capelli
quasi candidi, troppo semplici, troppo raccolti.
Era il tramonto
completo, precipitato non dagli anni soltanto, ma dal tormento interiore,
dall'abdicazione volontaria.
- Caro, caro
Soranzi! Quante belle cose mi ricorda lei! - incalzava la signora, sempre
stringendogli le mani, tentando di ritrovare il suo sorriso ed il suo riso
leggero, irriconoscibile ormai, nota pallida sulla corda allentata dal dolore e
dagli anni.
- Tutto il mio
tempo migliore! Che festa se Santina...
- E Santina?
- Sposata, da
due anni, all'avvocato Gribaudi.
- Nonna?
- Di un pupo
adorabile.
La signora
accennò al servo, che serviva un rinfresco.
Il servo
rientrò, ricomparve con una fotografia d'un piccino tutto nudo, tutto bianco
sul velluto nero. Soranzi sentì che il servo aveva detto “signora contessa” ed
il nome di Zeni, del conte Zeni gli venne alle labbra, mentre osservava la
fotografia. Contessa Zeni dunque? Ma tacque. Capì che in quel nome era la
tragedia di quella vita. “Contessa Costanza Zeni”: lesse sulla fascia d'una
rivista abbandonata sul marmo, e decise di non parlare se la signora non
parlava.
La signora non
parlò che del nipotino.
- Adorabile,
non è vero? La mia pena è di averli così lontani. Palermo.
- Perchè non
convive con loro? - fu per domandare Claudio, ma tacque, prudente; e fu bene,
perchè la signora disse subito:
- Li ho visti
l'ultima volta a Pasqua, pensate! Li rivedrò a Natale. I Gribaudi sono
palermitani, in tutta l'espressione. Famiglia patriarcale, bigotta,
pedantissima. Ottima gente, m'accolgono con tutta cordialità, ma... alla larga.
Lei conosce il mio carattere, caro Soranzi...
- Santina le
vuol molto bene!
- Molto. Ma il
bene delle figlie sposate per le mamme lontane. Una decima parte di quello che
noi si porta loro...
Ancora una
volta Claudio non trovò parola.
- Contessa...
- Ah! non mi
chiami contessa per carità; almeno lei!...
E Claudio
rinunciò a parlare di Zeni, e s'accorse di non saper come annunciare alla
signora la notizia, delle sue nozze felici: ora più che mai il momento non era
propizio, ed il raffronto doloroso, e l'argomento indelicato da parte sua.
- Ah! caro
Soranzi! il tramonto non pesa. Pesa la solitudine.
- Ma gli
amici...
- Quasi tutti
dispersi, come lei... E i pochi superstiti vengono ben di rado. Non attira la
casa dove non si ride più. - Le ripeto, la vecchiaia non pesa...
- Ma non parli
di vecchiaia alla sua età! - protestò Claudio schiettamente. Sapeva per calcolo
certo, per confidenze del tempo andato, che la signora era poco più che
quarantenne. - Non parli di vecchiaia a quarant'anni!
La donna ebbe
uno sguardo pieno di tristezza e di ironia:
- Povero
Soranzi, lei calcola sulle mie confidenze d'allora. A lei, come a tutti, ho
sempre confessato... sette anni di meno!
E si ripagò
dell'umiltà di quella confessione, la più dolorosa per una donna, con
l'imbarazzo buffo del giovane amico.
- Gli anni non
contano, - protestò Claudio, - e se non fosse questa canizie precoce...
- Precoce? Ero
canuta a venticinque anni! Mi sono tinta sempre, fino a tre anni or sono...
Ebbe un
sogghigno crudele che le si fissò sulle labbra, sino alla fine.
Claudio s'alzò,
e s'accorse che per la terza volta stava per darle notizia della sua felicità e
della sposa che voleva presentarle; ma che una timidità, un pudore lo
tratteneva, e non sapeva quale. Forse il pudore del fortunato che non osa
ostentare la bella veste di fronte al mendico. Volle parlare. Ma pensò che era
tardi, che non poteva dare la notizia dopo un'ora, a visita finita, e che
sarebbe stato più buffo che mai.
- Se ne va?
L'accompagno un tratto verso Sant'Erasmo...
La signora
l'accompagnò lungo il declivio. Claudio paventava l'avvicinarsi all'albergo. Ma
a mezzo il colle la sua ansia ebbe fine:
- È tardi. La
lascio, caro Soranzi. Le son tanto grata della visita. E la rinnovi qualche
volta. Farà una carità evangelica. Si ferma a Sesto qualche giorno?
- Sì.
Veramente no. Ma devo premettere...
- Premettere
che cosa?
Claudio trovò
una frase qualunque:
- Premettere
che scenderò a Sesto soltanto per lei.
La signora
s'allontanò con un sorriso triste, e lo minacciò con la mano, incredula e pur
riconoscente.
E Claudio
scese correndo, inquieto, scontento di se stesso. Ancora una volta gli era
mancato il coraggio dell'annunzio troppo tardivo.
Giunse a
Sesto, deciso di lasciare il paese quel giorno stesso, per non esporsi
all'incontro ormai inconciliabile delle due donne.
Trovò la
moglie che usciva dall'albergo.
- Ti venivo
incontro. Andavo alla Posta.
E sollevò un
fascio di cartoline e di lettere.
- La mia
piccola grafomane! - e Claudio prese il fascio, lo soppesò nella mano
sorridendo.
- Mah! E tutto
questo perchè il mondo seppia che siamo felici?
- Sì. Perchè
il mondo sappia che siamo felici...
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