UN VOTO ALLA DEA THARATA-KU-WHA
- I miei
bagagli! I miei bagagli!
Perduti!
Perdute le nove casse di zinco sulle quali avevo disegnato di mia mano una fascia
tricolore per distinguerle nel caos delle stazioni e dei porti, perdute le
pelli di tigre, di pantera, di pitone, le spoglie di paradisee: ottocento
paradisee della Nuova Guinea: un capitale! E gli astucci e i barattoli degli
insetti rari, tutto il bottino di un anno di fatica e di esilio: perduto!
Ah! quella
stazione di Lambahadam, sepolta sotto il verde dei cocchi, nell'estremo
Industan meridionale! Credevo di impazzire. E doversi esprimere, dover leticare
e smaniare in una lingua non nostra, con uno chef-station indigeno, un
Cristo di bronzo in divisa gallonata, che per consolarmi mi citava il caso di
altri preziosissimi bagagli perduti in quell'intreccio di linee telegrafiche
che chiude come in una rete tutta la penisola; una penisola vasta trenta volte
l'Italia.
Maledetta
l'ora che ho deciso di ritornare in patria attraversando in ferrovia tutto
l'Industan! A quest'ora navigherei nella calma cerula dell'Oceano Indiano,
resupino su una sedia a sdraio, la sigaretta in bocca, l'ultima bricconata di
Weber tra le mani, in attesa della campana di colazione; e le mie casse
dormirebbero ben custodite nella stiva profonda. Maledizione!
Il mio
compagno di viaggio, un francese, un agente consolare incontrato a Madura, non
osava più consolarmi con lo scherzo: ripeteva macchinalmente:
- C'est rigolo, c'est rigolo...
Ma ecco
giungere di corsa il boy mandato al Post-Office per i telegrammi;
ci portava la posta: lettere e giornali rimbalzati da venti stazioni: notizie non
liete dall'Italia: una lettera di mia madre angustiata dai soprusi di un
vecchio prozio, un prete genovese, cancro e tiranno della nostra famiglia da
tempo immemorabile; tre numeri d'una massima rassegna letteraria italiana.
Apro, leggo il nome più velenoso ch'io mi conosca: Tito Vinadio, sotto venti
pagine che riguardano un mio ultimo libro scritto con tutto l'amore e tutto il
sacrificio di sei anni di giovinezza; dirà certo cose poco gaie per me. Ma no,
non è possibile! Non è una recensione: è una serie di contumelie ridanciane, di
arguzie alla Guerin Meschino, di indagini personali, in uno stile che
sembra la collaborazione di uno scrivano pubblico ubriaco e d'una maestra
zitella fegatosa. E questo sulla rivista massima, sull'organo ufficiale della
letteratura italiana! Delizie che in patria dànno cinque minuti di malumore e
non altro. Ma là, in fondo all'India idolatra, in quella Refreshment-room
d'una stazione barbara, con l'animo già spezzato da un'angoscia mortale, il
colpo basso mi dà la nausea e un livore ingiusto contro tutta la mia patria, e
mi evoca la figura del letteratoide romano, biondiccia come un tedesco,
petulante, loquace, stridulo, strano sosia di Camillo Cavour nelle caricature
del Teja.
M'alzo con
violenza. Che strano! Non soffro più: l'angoscia e l'odio si sono neutralizzati
a vicenda cancellando improvvisamente ogni sofferenza:
- Quante ore
abbiamo per visitare i templi di Lambahadam? Benissimo. Andiamo.
***
Fuori, che
attendevano i passeggeri, tre mezzi di trasporto: le carozzelle con zebu, il
bue indiano gobbuto, dalle lunghe corna ritorte, ripiegate sul dorso e dipinte
a cerchi rossi e azzurri; i rickshaws, le vetturette di lacca e di bambù
trainate a tutta corsa dagli indigeni ignudi; gli elefanti dalle alte torricelle
a otto posti, elefanti centenari, grinzosi come otri, dipinti anch'essi a vivi
colori come vecchi cuoi e gualdrappati di sete, di velluti logori e stinti.
Nessun europeo: intorno è tutta una folla indigena: nudità di bronzo, bagliore
di denti candidi, occhi già troppo grandi, fatti più tenebrosi ed immensi dal
bistro con un'arte sconosciuta alle nostre più raffinate mondane, giovinette
svelte con non altra veste che una catenella appesa alle reni e un cuore di
metallo oscillante, molto incertamente, sul luogo che dovrebbe coprire.
La città, case
bianche o rosee ad un piano, è linda e gaia, sepolta nel tremolìo verde dei
cocchi e dei banani. I tetti sono coronati da lunghe striscie nere di corvi, o
verdi di pappagalli, e da infinite code di scimmie convenute a concistoro
mattutino. La nostra cavalcatura ci mette all'altezza delle finestre e vediamo
nell'interno una donna che si pettina, una madre che sgrida il bambino, un
mercante che conta moneta, un'immagine di Vichnou, una statuetta di Siva dalle venti
braccia o di Ganesa dalla testa elefantina. E dalle finestre, uomini, donne,
bambini, s'inchinano sorridendo con le due mani alla fronte in saluto indiano.
- I miei
bagagli! I miei bagagli!
La memoria,
assopita, distratta per poco dallo spettacolo nuovo, si ridesta con un sussulto
dolorosissimo.
Siamo al
completo nella torricella, noi due e sei indigeni, pellegrini anch'essi verso
il tempio della Nuvola.
Ed ecco il
tempio.
Si dimentica
tutto. Sopra il mare ondeggiante dei cocchi verdi, contro il cielo turchese,
s'innalza la mole titanica tutta d'oro, terrazzi, guglie, cuspidi, scalee
sovrapposte in un ammasso babelico che supera, confonde ogni legge di gravità,
ogni concetto architettonico della proporzione e della linea; una cosa alta
forse tre volte la gran piramide, una cosa che non può essere opera d'uomo.
Non è opera
d'uomo. È un macigno caduto dal cielo nel piano infinito dell'Industan, per una
stranezza geologica dei cataclismi primitivi. Quando Vichnou ebbe creata la
terra, si trovò fra le dita l'avanzo dell'opera sua, l'arrotolò, lo gettò a
caso nel vuoto, lo mandò a cadere sul piano di Lambahadam, ove formò un blocco
dominante di quattrocento metri sul mare di verzura. Gli uomini, nei millenni,
lo lavorarono come si lavora la zanna dell'elefante; la roccia viva è tutta
traforata a gallerie, a verande, a scalee; santuarî immensi s'aprono
nell'interno, dedicati ai tremila Dei delle mitologie brahamiane; fuochi sacri
ardono di continuo da tempo immemorabile; e tutto è rivestito, placcato d'oro
vero, poichè da tutta l'India accorrono i fedeli, offrono a piene mani gioielli
e monete.
Si sale per le
scalee quasi a picco, sculpite a zig-zag nella parete verticale; sotto di noi è
l'infinito piano verde, non limitato che dal cerchio cerulo dell'orizzonte,
rotto qua e là da altre cuspidi, da altre cupole di templi minori. Intorno è un
turbinìo di corvi e di avvoltoi sacri, uno stridìo assordante e ostile. Viene
dall'interno, da ogni santuario, un salmodiare selvaggio, un tam-tam
rauco, una musica che a volte si fa spaventosa come cento ruggiti, a volte si
spegne ronzando come l'agonia d'una libellula.
- I miei
bagagli! I miei bagagli!
Si sale
sempre. Attraversiamo altre verande, altri corridoi. Brahamini superbi di
forme, non vestiti che d'una zona alle reni, ma più nobili, più imponenti di
gentiluomini in isparato, c'incontrano, ci seguono con lo sguardo assente, e
tutti hanno sulla fronte, disegnato in rosso, il tridente di Vichnou, lo stesso
simbolo che fiammeggia sull'architrave delle case, sui tronchi delle palme,
sulla testa, degli elefanti e degli zebu. Passando dalla luce abbagliante nei
santuarî profondi si resta per alcuni attimi nella notte completa, poi si
distinguono le lampade votive, i roghi fiammeggianti dinnanzi alle divinità, il
luccichìo dell'oro e delle gemme sulle braccia multiple, sulle tiare, sui seni
mostruosi, sulle trombe elefantine. Colonne, arcate monolitiche lavorate come
trine, pendono nell'ombra all'infinito e dalle vôlte buie giunge uno squittire
continuo, un aliare silenzioso d'immensi lembi di stoffa nera: sono i
vampiri-rossetta, i pipistrelli larghi come braccia umane distese, che di
giorno pendono a migliaia dalle vôlte tenebrose e a notte si lanciano in razzia
di frutti sulle piantagioni.
Riposiamo da
forse mezz'ora, nell'ultimo santuario, alla sommità del tempio, seduti nella
frescura semibuia, poichè di fuori il sole è già alto e terribile. Gli occhi si
sono avvezzi alle tenebre. Vedo intorno le cripte delle divinità; ogni idolo è
chiuso in una gabbia di ferro come un felino, e il braciere che arde dinnanzi,
anima con il riverbero tremulo e sanguigno i volti spaventosi dei mostri.
- I miei
bagagli! I miei bagagli!
Un uomo, un policeman
indu ha sentito il mio gemito, m'ha visto con la fronte chiusa tra le mani,
s'avvicina, ci interroga premuroso...
- I signori
hanno ricevuto qualche torto?
- No, nessun
torto - e il mio amico parigino racconta i motivi delle mia desolazione.
Mentre si
parla, un brahamino, un vecchio ignudo dalla gran barba candida, si è alzato,
si volge al policeman che ci guarda e sorride:
- Signori, l'High-Priest
di Aparapandra, il gran sacerdote della dea delle-cose-lontane-dalla-mano,
vi propone un voto pei vostri bagagli; la spesa è poca, una rupia, e il
risultato certo!
Il policeman
si allontana ridendo.
Un voto alla
dea delle-cose-lontane-dalla-mano? Ma subito! Dov'è questa signora?
Quella? Offro la moneta e mi inchino all'orribile ceffo chiuso in una delle
gabbie millenarie. Altri preti ci sono attorno nell'ombra, incuriositi da quei
due impuri riverenti alle loro divinità. Ad uno ad uno s'avanzano,
parlano profferendoci le loro grazie: “Un voto al Dio contro il veleno di
cobra? Al Dio contro le disavventure del cammino? Alla Dea della Fecondità? Al
Dio contro il malocchio? Alla Dea Tharata-Ku-Wha: la Dea-del-nemico-non-più?”
Oimè! che cosa
ha fatto la folla del divino tesoro dei Veda! A quale turpe idolatria ha mai
ridotto il sublime retaggio filosofico dell'Upanishad, l'essenza
dell'Ineffabile, dell'Uno, dell'Assoluto! Un laido mercato dove ogni grazia ha
il suo ciurmadore come quei grandi magazzini europei dove speciali commessi
presiedono alle merci varie!
- La Dea-del-nemico-non-più?
Che cosa significa?
- La morte -
rispose il sacerdote, calmo - o altra soppressione di chi vi molesta.
L'immagine di Tito
Vinadio mi balenò nella memoria, sogghignò di tra le fedine biondicce alla
Camillo Cavour.
Tacevo, ma
l'amico parigino gridava entusiasta:
- Mais très bien ça! Ho anch'io
almeno una ventina di persone che desidero non più ritrovare in Francia!
Ci avviciniamo
al nuovo altare, ridendo forte. Il sacerdote, più decrepito e più sinistro del
primo, taglia un rettangolo da una gran foglia di palma-palmira, me la porge
con un pennello intinto, facendomi cenno di scrivere.
Scrivo il nome
Tito Vinadio e lo getto sulla brace che lo divora crepitando. Subito la mano
ossuta mi porge un altro foglio. Un'altra vittima? Io non ho nemici. Chi
sopprimere ancora? Ah sì! Don Fulgenzi, tormento della nostra casa. E il nome è
scritto e divorato dal fuoco. La mano ossuta mi porge un altro foglio, cerco
nelle mie antipatie... Ah, sì, quel detestabile signore dal naso ricurvo: un
jettatore certo, dacchè tutte le cose mi andavano a rovescio quando
l'incontravo, e l'incontravo sovente in tram, in ferrovia, a teatro. Scrivo:
“detestabile innominato dal naso ricurvo”.
Un quarto
foglio. No! No! Basta. Rido, ma lo scherzo comincia a darmi non so che brivido
pauroso, in quell'ombra, fra quegli idoli sinistri, fra lo stridìo dei vampiri.
Il mio amico
parigino invece è implacabile. Scrive e getta sul fuoco, foglio su foglio,
dannando alla Dea tutta la parentela:
- Ma tante Véronique! Mon oncle Alexis! Mon
cousin Frédéric! Mon cousin Ciprien! Mon ami Chautel!
Lo afferro, lo
trascino all'aperto, nella luce del sole; scendiamo le scale ridendo:
- Combien en avez-vous foutus?
- Tre.
- Seulement?
Io mi sono liberato di quattordici persone, tra parenti e colleghi in
diplomazia!
A sera - il
treno è già molto lontano da Lambahadam - il mio amico è chino all'angolo della
tavola del Dining-car e scrive sul rovescio del menu una lista di
nomi e di cifre; tace e ride:
- Scusate, ho
finito. Ho fatto l'elenco dei soppressi. Non calcolando i vantaggi morali e
materiali per la scomparsa di cinque colleghi, io devo trovare in Francia, se
la Dea Tharata-Ku-Wha mi esaudisce, un'eredità di quattro milioni e
settecentomila lire...
***
Nella notte,
non più distratto dal paesaggio e dallo scherzo, fui ripreso dall'angoscia dei
miei tesori perduti. L'insonnia e la disperazione mi tormentarono al ritmo
vertiginoso del treno fino all'alba. Dormivo da forse un'ora, quando mi
svegliai alle grida gioiose del mio compagno. Si era alla stazione di Kahalla.
- Mon ami!
Presto! Uscite!
Balzai fuori.
A dieci passi da me, sotto la veranda fiorita, le mie nove casse, accumulate in
bella piramide, scintillavano al sole del tropico con i tre colori d'Italia.
Prima le
toccai, le palpai a lungo, credendo di sognare, poi abbracciai lo chef-station
sbigottito, abbracciai una vecchia indu che fuggì allibita, toccandosi gli
amuleti, abbracciai il mio compagno frenetico più di me e cominciammo a girare
tenendoci per le mani, congiungendo i piedi a poco a poco, facendo delle nostre
due persone un arcolaio vertiginoso.
- Viva la
Francia!
- Vive
l'Italie!
Lo chef-station
ci divise, ci calmò prendendoci alle spalle, forzandoci con dolce violenza a
salire in treno; ma io non risalii senza doppia garanzia di vigilanza e previo
avviso telegrafico a tutta la linea fino a Bombay.
E furono venti
giorni di viaggio delizioso con quel parigino sempre gaio.
Ma a Bombay -
dovevamo lasciarci quel giorno e imbarcarci per le rispettive patrie su diversi
piroscafi - lo vidi impallidire improvvisamente con una lettera che gli
tremava, gli garriva tra le dita convulse.
- Ah! les malheureux!
- Ebbene?
- Mes cousins...
- Ebbene!
-
...precipitati dal monoplano di Guastin: ...mio zio impazzito... nessuna
speranza!
Allibii.
Riudii i tre nomi, rividi l'antro buio dei vampiri e il brahamino dal petto
canuto, e la Dea sogghignante di tra le sbarre al riverbero del braciere
sanguigno.
Confortai
l'amico, l'accompagnai sul battello che levò l'àncora nel pomeriggio. Io
m'imbarcavo poco dopo per l'Italia con tutti i miei bagagli, felice.
Ma dieci
giorno dopo, ad Aden, mi era consegnata a bordo una lettera di mia madre, che
mi diede un brivido di gelo:
“...dovrei
scriverti su carta listata a lutto, ma sarebbe ipocrisia, tu lo sai... Don
Fulgenzi è mancato ai vivi tre giorni fa...”.
Tremavo. No!
No! Ma che Dea! che tempio! che malefizio! Due ragazzi imprudenti precipitano
da mille metri, il padre impazzisce, un vecchio maligno cessa di far soffrire:
non è tutto placidamente naturale? Tremi? Diventi scemo o teosofo, anche tu?
Suonava la campana di pranzo. La luce, i fiori, i cristalli, le belle spalle
ignude, la gaiezza degli ufficiali mi ridiedero il senso della realtà. Arrossii
e mi schermii. Volli dimenticare. E otto giorni dopo, toccando Genova, avevo
tutto dimenticato.
***
Passarono i
mesi.
A Venezia,
l'autunno scorso, sedevo sul divano centrale della Sala Viennese, un po' per
riposarmi, un po' per godere di lontano, ad occhi socchiusi, la bella sirena
del Krawetz.
Ma due
visitatori vicinissimi alla tela mi toglievano d'un terzo il mio piacere:
l'uno, alto e bruno, sorreggeva l'altro, piccolo, curvo, un vecchietto dalla
nuca biondiccia. Quello bruno si volse, lo riconobbi, andai verso di lui con
espansione affettuosa; era Claudio Girelli, il pittore. Guardai il vecchio: non
era un vecchio, era un malato.
- Tu lo
conosci, il nostro buon Tito Vinadio.
L'infermo mi
diede la sinistra attraverso il braccio dell'altro: - La destl... la destla non
gliela posso dale che così...
E ridendo e
piangendo si tolse con la sinistra la mano destra che teneva nella tasca, me la
porse inerte, pendula come una cosa non sua. Rideva e piangeva. Ma solo una
metà dei muscoli facciali obbediva al riso e al pianto; l'altra metà del volto
restava immobile o si torceva in un rictus asimmetrico che ricordava
certe maschere antiche.
- Questo calo Gilelli,
- proseguiva con un sorriso lagrimoso, -mi accompagna all'esposizione, mi
accompagna allo stabilimento eletl... eletl...
-
Elettroterapico del prof. Gaudenzi - concluse l'altro - il quale guarirà in
pochi giorni il nostro buon Vinadio. È tardi, bisogna andare.
Pietosamente
Girelli gli sollevò il braccio pendulo, gli rimise la destra in tasca, lo
riprese a braccetto sorreggendolo all'ascella. Ma prima di avviarsi guardò me
che ero ricaduto sul divano senza parola.
- Non
affaticarti in queste stupide sale... Devi essere ancora stanco del viaggio;
hai una cera poco buona anche tu.
Impazzisco?
No, non
ancora. Impazzirò forse il giorno ch'io sappia la morte certa della mia terza
vittima, il signore detestabile dal naso ricurvo. Non l'ho più rivisto.
Ma da qualche tempo una cosa terribile avviene. Ho riconosciuto in tram, a
teatro, un signore con il quale si accompagnava sovente quell'innominato; e a
stento resisto alla tentazione di presentarmi a lui, di chiedergli in bella
forma che è mai avvenuto di quel suo amico così e così...
E se allora
l'altro mi rispondesse: - Ma non sa nulla? Non sa che è morto un anno fa? - io
balzerei dal tram, fuggirei dal teatro, irromperei in questura per rifugiare il
mio rimorso, tre volte assassino, sotto il castigo dell'umana giustizia.
Ma sono certo
che il buon giudice, dopo aver ascoltata la mia confessione convulsa,
considerando che il codice umano non contempla ancora gli omicidi per ex-voto
alla Dea Tharata-Ku-Wha, mi consolerebbe con paterne parole, poi, fatto un cenno
d'intesa ai due custodi amorevoli, mi farebbe tradurre non al carcere
dell'espiazione, ma al frenocomio...
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