ALCINA
- Siete un
materialista.
- No!
assolutamente no!
- Lo siete.
Dite di non esserlo per eleganza, per snob, perchè il materialismo non è
più di moda: ma voi tutti, intellettuali, cerebrali dei nostri giorni siete
materialisti dissimulati da una sensualità più fine e da una maggiore eleganza.
E per questo più aridi, più infelici, più falsi!
Ancora una
volta Miss Eleanor Quarrell mi assaliva con la sua schiettezza un po' rude, ma
sentivo nella sua voce una pietà affettuosa che mi diceva quanto mi volesse
bene e quanto dovessi apparirle infelice. La gobbina mi fissava con gli occhi
dolci e indagatori dove a tratti, come sul ritmo del pensiero, l'iride azzurra
era divorata dalla pupilla color velluto; e quegli occhi, quel profilo
perfetto, quel sorriso beato dolente ricordavano la divina testa di un martire
tronca e deposta sopra un corpo non suo, condannata per castigo su quella
doppia gibbosità da Rigoletto, chiusa con dignità rassegnata in un'invariabile
tunica fratesca. Sul panno bigio, unico contrasto di ricchezza gentilizia,
s'avvolgeva come un cilicio una catena massiccia d'oro antico, costellata di
grosse gemme: gioiello di fattura quasi barbara, ereditato da madre in figlia,
portato da tutte le bisavole bionde dormenti da secoli nelle cripte dell'Abazia
paterna, lassù, nel Devonshire lontano.
Da anni Miss
Eleanor svernava in Sicilia, non ritornando alla vasta contea brumosa che a
primavera inoltrata. Su quel colle dominante Girgenti si era spento suo padre,
vari anni prima, e la giovinetta deforme si era votata a quel cielo, a quel
mare, sui quali si profilavano, come sopra due zone di cobalto diverse, i più
intatti esemplari dell'arte italo-greca: i templi famosi che erano stati la
passione e la gloria, forse la morte immatura, dell'archeologo illustre. Lord
Quarrell aveva appartenuto a quella schiera d'inglesi devoti e ferventi che
unirono le loro fatiche e il loro nome ai più illuminati intenditori italiani;
e che fecero della Magna Grecia la loro patria ideale. A Lord Quarrell dobbiamo
l'esumazione di due tra le più belle metope di Selinunte: Minerva che uccide un
gigante, Diana che fa lacerare Atteone; a lui dobbiamo l'assetto definitivo di
tutto il tempio di Demetra, la ricomposizione di uno degli Atlanti frantumati e
dispersi che reggevano l'architrave del tempio d'Ercole. Rimasta sola, la
giovinetta deforme si era votata a quella terra sacra, aveva fatto costrurre a
mezzo dei colli, tra gli uliveti e gli aranci, di fronte ai templi famosi, la
casa della Buona Sosta: Good Rest-House, bizzarra casa e ben modesta per chi
aveva un gusto d'arte perfetto e possedeva in Inghilterra un castello
elisabettiano ed un'intera provincia. Un bungalow di una semplicità elementare,
ad un solo piano, tutto bianco, aperto da vetrate immense sull'intero
orizzonte. Nell'interno l'assenza raffinata d'ogni stile: bianco il pavimento,
il soffitto, le pareti; legni candidi e smalti candidi, pochi mobili, nessun
sopramobile; una sola eleganza: fiori e piante di tutti i climi e lo scenario
del cielo, del mare, dei templi, offerto dalle immense vetrate.
Eppure emanava
dalla piccola casa bianca il fascino di una reggia, come dalla piccola persona
deforme una potenza misteriosa. Miss Eleanor era veramente la prima
“coscienza”, la prima “intelligenza” ch'io incontrassi in una donna; e
m'attirava in modo irresistibile quella sua serenità emanante dalla persona
miserrima, quella sua fede veemente alla quale l'anima si riscaldava come ad una
fiamma spirituale, m'attirava quella sua virtù di consolazione inesauribile.
- Voi
conoscete l'arte d'esser felice.
- È facile.
Basta dimenticarsi nella felicità altrui.
- Io non sento
l'umanità. Non amo il mio prossimo.
- Ma voi e il vostro
prossimo siete la stessa cosa. L'anima...
- Non credo
nell'anima, voi sapete!
- Non è vero.
Voi credete, perchè soffrite di non credere. Come non credere nell'unica cosa
certa, nella sola realtà che abbiamo in noi, più certa di qualsiasi realtà fisica,
più palese - che so io? - della rotondità della Terra, dell'infinità dello
Spazio? Perchè ridete? No, non ridete, caro! Non farò della teosofia. So che la
detestate. Vorrei farvi parte delle cose che sono il mio bene, ecco tutto!
Ragioniamo; - Miss Eleanor mi prese le mani; le tenne nelle sue, fissandomi con
tenerezza più intensa, - ragioniamo, voi che amate il nudo ragionamento. Ecco
le nostre mani che si stringono oggi. Non saranno più quelle che
s'incontreranno tra sei, tra sette anni. È risaputo anche dalla scienza più
volgare. Saranno altre, mutate fino all'ultima particella. Tutto il nostro
corpo sarà mutato. Le nostre due persone si muoveranno incontro, chiamandosi a
nome, sorridendo, e saranno due sconosciuti che si vedono per la prima volta. Eppure
c'incontreremo con la stessa effusione, non è vero? Ci riconosceremo con gioia,
e noi saremo sempre noi. La nostra amicizia sarà immutata e parleremo del
passato, parleremo di questi giorni fatti lontani come di cosa presente. C'è
dunque, sotto l'apparenza del corpo che varia, una cosa che non varia, un
elemento spirituale che registra i cambiamenti della materia miserabile. Come
non credere in questo testimonio che assiste?
Ero a Girgenti
da quasi un mese ed ogni giorno salivo alla “Buona Sosta”, per sentire la mia
amica parlare di queste cose singolari. Giunto da un lungo viaggio in Oriente,
disfatto dai disagi e dai climi, alterato dalla sciagurata abitudine degli
ipnotici, avevo scelto quel soggiorno prima di risalire in Piemonte; anche per
consiglio d'un mio caro Amico siciliano, il dottor Gaudenzi, il quale m'aveva
fatto osservare che dopo aver pellegrinato il Giappone e la Papuasia un
italiano può anche visitare l'Italia. E da un mese vivevo nell'incanto della
Magna Grecia, a Girgenti, tra le ruine dell'antica Acragante, “la bellissima
tra le città mortali”, la patria di Terone e di Empedocle, vergognandomi in
cuor mio d'esser giunto quasi a trent'anni ignorando, quella gloria del nostro
cielo.
Salivo ogni
giorno alla “Buona Sosta”. La parola di Miss Eleanor era un incanto. Parlava
l'italiano con la correttezza forse troppo letteraria dei forestieri che hanno
studiate a fondo la nostra lingua, ma il lieve accento esotico, insanabile,
dava una grazia tale che sovente godevo la sua voce, senza seguire il senso
delle parole.
- La cosa che
non varia! Il testimonio che assiste!... Cara, cara Eleanor, penso che con
tutta la vostra bontà non potrete far nulla per me. La fede non si consegue col
ragionamento. È una grazia.
- La fede! -
sospirò la mia amica volgendo lo sguardo sullo scenario di pietre colossali che
ci stava dinnanzi, - la fede! Quella che muove i macigni, che fa tutto
possibile, tutto.
- Tutto? - mi
domandai; e istintivamente, senza volgermi a guardarla, pensai la miserabile
persona gibbosa, alta come uno sgabello, lo scherzo atroce della natura
scellerata.
Ed Eleanor
rispose al mio silenzio, subito con voce calma:
- Tutto
possibile. Sì, anche questo.
Eravamo
nell'atrio, tutto rivestito di capelvenere. Dinnanzi m'era lo scenario che
godevo da un mese e che mi sembrava di vedere ogni giorno per la prima volta.
Il declivio verde di aranci, costellato di frutti d'oro, poi l'azzurro del
mare, l'azzurro del cielo; e su quell'orizzonte a tre smalti diversi, i più
divini modelli che l'arte dorica abbia, col Partenone, tramandato sino a noi.
Il Tempio della Concordia, e vicino il Tempio d'Era con la sua fuga di venti
colonne erette e di venti colonne abbattute, e, più oltre, il Tempio d'Ercole,
ossario spaventoso della barbarie cartaginese, meraviglia ciclopica tale che la
nostra fantasia si domanda non come sia stato costrutto, ma come sia stato
abbattuto; e oltre ancora il Tempio di Giove Olimpico, il Tempio di Castore e
Polluce: tutte le sacre ruine che Agrigento spiega a sfida tra l'azzurro del
cielo e del mare: ecatombe di graniti e di marmi che sembra dover ricoprire
tutta la terra di colonne mozze o giacenti, di capitelli, di cubi, di lastre,
di frantumi divini.
Ma dinnanzi a
noi era quello che Miss Eleanor chiamava “il mio tempio”, il tempio di Demetra,
eretto ancora sulle sue cinquantaquattro colonne, l'unico intatto fra dieci
altri abbattuti, l'unico sopravvissuto, per uno strano privilegio, al furore
fenicio e cartaginese, al fanatismo cristiano e saraceno.
- No, amico
mio. Dobbiamo ai cristiani e ai saraceni se il tempio è giunto intatto fino a
noi. Fu San Rinaldo, nel IV secolo, che lo scelse fra “i monumenti infernali
dell'idolatria” per convertirlo in una chiesa dedicata a San Giovanni
Evangelista, chiesa che fu trasformata in moschea al tempo dell'invasione
saracena. E l'edificio divino fu salvo, mascherato e protetto come un fossile
nella sua custodia di pietra e di cemento. Quale grazia del caso! Pensate allo
scempio che fu fatto degli altri! Pubblicherò un manoscritto di mio padre
dedicato tutto allo studio di queste distruzioni nefande. Pensate a quel
colossale Tempio d'Ercole che fornì materiale per tutti i porti nel Medio Evo!
Tutto fu abbattuto e spezzato. Abbattute le colonne ciclopiche, ogni
scannellatura delle quali poteva contenere un uomo, come in una nicchia,
abbattuti i giganti e le sibille alte dodici metri che reggevano l'architrave,
meraviglia di mole titanica e di scultura perfetta. Pensate le teste, le
braccia, le spalle divine, i capitelli intorno ai quali si gettavano gomene
colossali, tese, tirate da schiere di buoi fustigati, mentre le seghe
tagliavano, le vanghe scalzavano i capolavori alle basi. E le moli
precipitavano in frantumi spaventosi, con un rombo che faceva tremare la terra.
Ora sulle nudità divine, tra le pieghe dei pepli, nidificano le attinie e i
polipi di Porto Empedocle.
- Cose da
invocare un secondo toro di Falaride per i cristianissimi demolitori.
- Il gregge!
Il gregge dell'Abazia! - Miss Eleanor si interruppe ad un tratto, ebbe uno di
quei suoi moti fanciulleschi di bimba sopravvissuta, - il gregge dell'Abazia!
Guardate che incanto!
Dall'interno
del Tempio, sul grigio delle colonne immani, biancheggiarono d'improvviso due,
trecento agnelle color di neve. Uscivano dal riposo meridiano, dalla “fresca
penombra, correvano lungo il pronao, balzavano sui plinti, scendevano con
grandi belati e tinnir di campani. Tre pastori s'affaccendavano con i cani per
adunare le disperse e le ritardatarie. Alcune, le piccoline, non s'attentavano
a balzare dagli alti cubi di granito, correvano disperate lungo il pronao,
protendevano il collo invocando soccorso, con un belato lamentevole. I pastori
le prendevano tra le braccia, passandole dall'uno all'altro, tra l'abbaiare dei
cani.
***
- Non
rimpiango d'essere nato troppo tardi. Il quadro è più divino oggi che ai giorni
di Empedocle. Il cielo doveva essere meno azzurro tra le colonne a stucchi
troppo vivi; non so pensare le metope, i triglifi, i listelli a smalti gialli,
azzurri, verdi. Non so pensarli che color granito, color di tempo, come li vede
oggi la nostra malinconia. Colorato, ornato, fregiato, con i gradi del plinto e
le strie delle colonne, i frontoni a linee precise, non addolcite ancora dai
millenni; con i labari immensi che s'agitavano al vento e la folla che affluiva
nei giorni solenni, il tempio doveva essere men bello di oggi. Oggi ha la
bellezza che piace a me, la bellezza che strazia!
- È straziante
anche il vostro albergatore, - interruppe ridendo la mia amica. - Vedo una réclame
di più.
In fondo, ai
piedi di Girgenti, aggruppata sul suo declivio come un'erede poverella,
biancheggiava l'immenso cubo dell'Hôtel d'Agrigento, e sulle pareti candide,
sulle alte mura del parco, fin sui cipressi centenari, spiccavano a sillabe
colossali gli elogi di cordiali e di aperitivi.
- E che cosa
fanno all'HÔtel?
- Mi
dimenticavo di dirvi. Preparano un concerto di Nino Karavetzky, il prodigio di
nove anni; suonerà nel Tempio, al plenilunio di domani.
- Tutti gli
anni fanno qualche cosa di simile, - disse Eleanor abbuiandosi, - l'anno scorso
la colonie preparò una festa amena. Lampioncini veneziani dall'una all'altra
colonna, razzi, fuochi di bengala, danze, e Vedova allegra.
- L'idea di
quest'anno è meno scellerata.
- Scherzo,
conosco il piccolo Karavetzky. L'ho sentito l'estate scorsa al Conservatorio di
Bruxelles. È più che un enfant prodige. È un rivelatore. Sarò felice di
sentirlo.
- Oh! Che
piacere! Allora verrete anche voi!
- Non verrò. Lo
sentirò di qui. Sentirò benissimo le parole del violino e non i commenti delle
signorine Raineri e di madame Delassaux.
Fui
schiettamente addolorato del rifiuto reciso. Tentai la mia amica insistendo,
porgendole il programma.
- Guardate,
guardate che delizia.
Essa lo
scorse, lo commentò da fine intenditrice.
- Delizioso,
ma non verrò.
- Oh! Cara
Eleanor, quanto m'addolora il vostro rifiuto. Quando mi han detto del concerto
ho subito pensato a voi e ad una cosa sola; al piacere di starmene in disparte
su qualche capitello infranto ad ascoltare la musica lontana e le cose che voi
sola sapete sulle nostre bellezze sepolte.
- E bene
illuminati dal plenilunio e vigilati da Madame Delassaux o da chi per essa,
perchè si tessa qualche favola di più “sur la sorcière des ruines”. No, non
protestate, sapete benissimo anche voi che mi si chiama così.
Non risposi,
chinai il volto, premetti le gote che ardevano contro le due mani di lei,
gelide e fini.
- Il mondo ha
pure le sue esigenze, mio povero amico, finchè siamo tra i vivi.
Tacqui ancora,
parlando senza sollevare il volto.
- È una gran
delusione per me. Contavo sulla vostra presenza. Sono un vagabondo senz'anima,
che non crede e non sente. Ma accanto a voi mi par di sentire e di credere in
qualche cosa. Non so, non so dire che cosa io provi quando vi sono vicino.
Eleanor ritirò
lentamente le mani; sollevai il volto e vidi il volto di lei mutato, e gli
occhi, dove la pupilla color velluto divorava, a tratti, tutta l'iride azzurra,
che mi scrutavano fino in fondo dell'anima.
- È vero.
Siete sincero, - disse Eleanor con voce commossa, ma ferma. - Per l'affetto che
mi portate e che vi porto, verrò. Aspettatemi verso la quarta metopa; vi
prometto che al Notturno di Sinding sarò con voi. La mia anima -
corresse - sarà con voi!
Sorrisi
amaramente al gioco di parole, deluso e scontento. Ma Eleanor non sorrise, alzò
la mano come a suggellare una promessa.
- Sarò con
voi.
E poichè mi
volsi ancora a salutarla dalla soglia, con un sorriso deluso ed incredulo, essa
ripetè solenne:
- Vi giuro che
sarò con voi!
Perchè quella
promessa e quel volto atteggiato ad una tenerezza quasi tragica mi diedero il
brivido? Uscii dalla “Buona Sosta” con un'esaltazione strana, m'avviai quasi di
corsa verso l'albergo. A mezza via, dall'ombra di una siepe di agavi e di
cacti, balzò il dottor Gaudenzi.
- Ti si vede,
finalmente! Ma passi le tue giornate alla “Buona Sosta”! Dalle ruine alla
gobba, dalla gobba alle ruine. C'è poca differenza. Comincio a pentirmi
d'avertela presentata. Per tanti motivi.
- Sentiamo.
- Sei qui per
rimetterti dei tuoi nervi e la compagnia di quell'esaltata è la negazione della
cura. La conosco da anni. Giurerei che avete parlato tutto il giorno d'arte e
d'oltretomba. Sono le sue due specialità. Hai gli occhi di un allucinato anche
tu.
- Sentiamo, e
voi cosa avete fatto di meglio?
- Siamo stati
a Porto Empedocle a veder ritirare le reti. Abbiamo aiutato i pescatori e i
marinai; un esercizio che avrebbe fatto bene anche a te. Poi abbiamo invasa
un'osteria del basso porto, comprese le signore, e abbiamo mangiato il pesce
fritto alla saracena. Poi abbiamo scommesso a chi faceva più giri intorno alla
fontana di San Rocco con Madame Delassaux tra le braccia. Pesa novantasei
chili. Io ho vinto il secondo premio...
Il mio amico
aveva ragione. Ma l'errore era d'aver scelto per il mio riposo una terra dove
ogni pietra aveva un potere magico, un passato favoloso, e dava l'ebbrezza e
l'allucinazione. Meglio la Liguria, non bella che d'aranci e di oliveti, meglio
il mio Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove
l'anima s'adagia come una buona borghese.
- Diraderò le
mie visite a Miss Eleanor. Hai ragione. La sua conversazione mi esalta.
- Farai bene.
E non per i tuoi nervi soltanto. Si mormora non poco su questa tua assiduità.
Quest'oggi ho sentita una frase perversa sull'idillio “du poète languissant e
la bossue aux soixante millions”. No, non puoi prendere a ceffoni chi l'ha
pronunziata perchè era una donna. Soltanto le donne sono capaci di pensare
queste cose. Ma le donne le dicono e gli uomini le credono e le ripetono.
Il Tempio di
Demetra inargentato dal plenilunio! Una bellezza che nessuna forma d'arte
potrebbe ritrarre senza farne un'oleografia dozzinale, una bellezza non sopportabile
che nella dura realtà. Ma quale realtà! La terra, il mare, il cielo d'Agrigento
si erano fusi in una tinta neutra, quasi per favorire con uno scenario incolore
quell'unica forma; e il Tempio s'innalzava sui suo stereobate a cinque gradi,
le colonne esatte, rigide, convergenti dai plinti ai capitelli con un'armonia
che sembrava una preghiera lanciata in alto, verso l'assoluto. E sulla sinfonia
delle sette e sette, delle venti e venti colonne l'architrave, i triangoli dei
frontoni equilibrati come due strofe si profilavano intatti al plenilunio,
poichè la luce lunare ringiovaniva il Tempio come la ribalta ringiovanisce un
volto di donna.
- L'uomo ha
potuto far questo! Ha concretato nella pietra questo grido verso l'ideale.
La mia
esaltazione cresceva. M'aggiravo tra la folla con passo malfermo. La folla
brulicava intorno: ospiti giunti da tutte le parti, italiani e forestieri; ma
le figure moderne, minuscole su le scalee imponenti, fra gli intercolunni
colossali, non rompevano l'armonia del quadro, tanto le nostre foggie mutevoli
sono miserabile cosa di fronte alla bellezza che non muta. Nell'interno, tra il
doppio colonnato della cella, dinnanzi alle tre are consunte, s'addensavano gli
spettatori; e le donne cessavano dal cicalare e gli uomini si scoprivano il
capo entrando, istintivamente, quasi che ancora la divinità fosse presente.
- Eleanor!
Eleanor! Che faceva, la mia amica tra il capelvenere della “Buona Sosta”?
Perchè non era con me nell'ora divina?
Il plenilunio
illuminava a giorno le zone in ombra, faceva scintillare gli occhi, i denti, i
gioielli delle signore; alcune - quelle della colonia - in capelli, scollate,
con scarpe chiare o a vivi colori laminate d'oro e d'argento, altre - le
forestiere - in succinto vestito di viaggiatrici. E, tra la folla che fece ala,
apparve il piccolo Mago, condotto per mano dalla mamma, una signora ancora
giovane e bella. Ma quanto minuscolo il prodigio famoso! Fu un mormorìo di
tenerezza sorpresa che proruppe in una commossa ilarità quando il piccolo tentò,
due, tre volte, invano, di dare la scalata al plinto e la madre lo sollevò alle
ascelle, ve lo depose con un bacio e con un sorriso, offrendogli, nella
custodia aperta, lo strumento, come un giocattolo prediletto. E il bimbo lo
prese, lo accordò palpandolo, stringendolo tra le gambette nude, picchiandolo
con le nocche, pizzicando le corde con le dita e coi denti, così come avrebbe
fatto con un suo cavalluccio un po' guasto, prima di mettersi al gioco.
Addossato ad
una colonna lo guardavo, attraverso la folla, il Mozart minuscolo sul suo
plinto greco, e il mio malessere cresceva, sentivo il rombo del sangue contro
il granito al quale premevo la nuca, e gli occhi aperti mi dolevano e se li
chiudevo l'orlo delle palpebre mi scottava come se fosse stato di metallo
rovente. Aspettavo la musica come nelle notti disperate invocavo dal mio amico
la droga del nulla o la puntura pietosa.
Ma la prima
nota dolcissima - era il concerto in re minore di Max Bruch - mi passò
nel cervello come una scalfittura. Tutto il miracolo evocato dal piccolo
intercessore, che dalla gagliarda sonorità appassionata delle prime frasi si
chiude col finale allegrissimo, saltellante, fu per me un martirio senza nome,
come una musica diabolica eseguita da un demone con un archetto di diamante sopra
una lastra di cristallo.
- Eleanor!
Eleanor! Che faceva la mia amica in quell'ora? Ascoltava, con la povera persona
deforme palpitante tra il capelvenere della “Buona Sosta”?
Non vedevo la
folla, non vedevo che lei. Le note si convertivano in parole sue: - ...la fede,
la fede che fa tutto possibile: anche questo! - e abbassava gli occhi
accennandosi la sciagura della persona miserrima; poi sollevava le iridi
chiare: - ...verrò! Sappiate vedermi. La mia anima sarà con voi. Vi giuro che
verrò!
Tremai della
mia eccitazione. Cercai il dottore intorno, come un salvatore, senza trovarlo.
Cercai un capitello, una pietra dove sedermi: tutto era occupato dalle signore.
E le ginocchia non mi reggevano. Girai intorno alla colonna, passai dagli
intercolunni della cella agli intercolunni esterni, in piena luce lunare.
Avanzai quasi di corsa lungo il pronao per allontanarmi dal malefizio dei suoni
e per sentire la frescura notturna ventarmi in viso. Alla quarta metopa scesi
due, tre gradini, mi adagiai con le spalle addossate al granito, la nuca ben
sorretta da una curva della pietra consunta. Dinnanzi m'era la pianura incolore
ed il mare incolore, non rivelato che dal riscintillare tremulo della luna. Da
un lato, obliquo, il sarcofago di Fedra con le figure fatte più visibili dalla
luce obliqua. Mi dimenticai per alcuni secondi in quel dolore. La regina
seduta, con un braccio rigido appoggiato allo sgabello, e l'altro braccio
inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e
dolenti... E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s'addensa
tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo,
di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contemplava
sogghignando l'effetto del dardo, l'amore minuscolo come un piccolo demone. Ma
l'altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi
perseguiva fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca
di Sarasate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano
le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario.
- Il dolore,
il dolore anche qui, eternato nella pietra dura!
Cercai la
luna, in alto, per dimenticarmi in una cosa morta per sempre, in una cosa che
non soffre più, che non soffrirà mai più.
- Eleanor, Eleanor!
Ah! Perchè non l'avevo
vicina? Perchè non aveva consentito al convegno?
Fissai il
cielo a lungo, troppo a lungo. Quando abbassai gli occhi vidi il disco lunare
moltiplicarsi in rosso ovunque posassi lo sguardo; chiusi gli occhi, li premetti
a lungo con le dita per cancellare dalla palpebra interna l'immagine del disco
sanguigno. Giungeva nel silenzio la Chanson triste di Sinding, il
notturno prediletto di Eleanor. La sua anima era veramente vicina? Certo la sua
anima l'udiva anch'essa, dalla sua veranda fiorita, ma non soffriva come me! La
mia amica infelicissima conosceva il segreto d'esser felice!
E il piccolo
evocatore lontano moltiplicava gli effetti imprevisti e la musica m'era vicina
come se le corde mi vibrassero nelle orecchie. Ma udivo anche un passo lieve
lungo il pronao. L'importuno s'arrestò due, tre volte alle mie spalle, con un
fruscìo che sembrava cadenzato col ritmo musicale. Io non volli sollevare il
volto dalle mani. Non sollevai il volto nemmeno quando sentii che lo sconosciuto
scendeva, mi si sedeva vicino. Guardai, a volto chino, dal basso in alto. E
vidi i due piedi ignudi, minuscoli, perfetti nel coturno gemmato; poi il peplo
ordinato come un ventaglio semichiuso, raccolto alle ginocchia, il peplo che
fasciava con grazia attorta il busto perfetto, avvolgeva le spalle snelle,
lasciava la nuca e il volto come in un soggolo, non lasciando libero che il
profilo; il profilo di Eleanor.
Non balzai,
non diedi grido. Cercai di convincermi che non sognavo: palpai il granito, mi
morsi le labbra, per sentire il freddo ed il dolore. Non sognavo.
- Non sogni!
Non sogni!
Eleanor
parlava! Non so dire come fosse la sua voce; forse le sillabe delle sue parole
e le note che venivano di lungi erano la stessa cosa. Ma parlava, eretta
dinnanzi a me che non trovavo la forza di balzare in piedi; e m'aveva teso le
due mani intrecciando le mie dita alle sue dita soavi. La sua persona era
assoluta, poichè la parola bellezza è troppo umana per la rivelazione divina
che mi stava dinnanzi, per quell'anima fattasi carne in una forma imitata dalle
statue immortali.
- Non sogni!
Non sogni! Ho giurato. Sono venuta.
- No, non è
vero! - gemevo con le dita nell'intreccio delle sue dita, - mi sveglierò tra
poco e tutto sarà come se non fosse stato e non avrò più queste tue mani; non
avrò che le mie unghie infisse nella mia palma sanguinante. Conosco l'inganno
dei sogni.
- Non sogni!
Ah, perchè quest'orgoglio di fanciullo dinnanzi al mistero? Perchè ribellarsi?
Per tutto ciò che è divino m'hai chiamata. Sono venuta. E venuta quale voglio
essere. Tutto è possibile. Anche questo.
- Eleanor!
Eleanor! Che questa sia la realtà di un attimo e poi venga il buio senza fine.
- Verrà la
luce. È giunta l'ora. T'aspettavo da anni. È fatto il miracolo!
- Eleanor, se
questo non è sogno, - e balzai afferrandola alla vita sottile, - lascia ch'io
ti porti tra gli uomini, che io gridi alto il tuo nome nel mondo dei vivi!
E tentai di
trascinare la tepida forma palpitante lungo il pronao, verso l'interno del
tempio.
- No! no! La
fede sola ha fatto il miracolo. Non profanare il mistero!
Mi resisteva
ed io la cingevo alla vita, deciso di trascinare nella realtà il sogno divino,
ben certo che con l'ultima nota tutto sarebbe dileguato nel nulla. E non volevo.
Volevo ghermire alle potenze dell'occulto quella forma divina.
- No! Bada!
Profani il mistero! La fede sola ha fatto questo! Mi perdi per sempre!
Lasciami! Lasciami!
Fu la
resistenza decisa, la lotta ostile per il bene supremo.
- Lasciami!
Lasciami!
Sollevai la
persona che riluttava, guizzava come se la portassi alla morte; poi s'allentò
con un grido, s'abbandonò senza vita. E la portai tra gli intercolunnii,
trionfando di giungere dal sogno alla realtà con quella preda ben certa, di
sollevarla al cospetto di tutti gridando al miracolo.
Ma fu allora
come se cominciassi a sognare.
Vidi per un
attimo la folla adunata e il piccolo musico che suonava sul plinto. Poi più
nulla. E nel buio un grido, molte grida; e nel cervello che si smarriva
disegnarsi ancora in sanguigno il disco lunare poi una voce ben vera, la voce
di Madame Delassaux, la mia nemica.
- Il est ivre, il est fou! Par ici, sauvez-vous
par ici, miss Quarrell!
Poi più nulla.
L'assenza del tempo e dello spazio. La felicità del non essere.
- E dopo -
dopo quanto? - vidi per prima cosa attraverso le ciglia socchiuse una prateria
ondulata, costellata di fiori non terrestri, simili a quelli ritratti dagli
occultisti nei paesaggi di Giove e di Saturno e un gelo, un gelo che
contrastava con la flora meravigliosa. Ma aprii gli occhi ben vivi alla luce
ben vera, vidi che la prateria smagliante era la coperta del mio letto alterata
dalla prospettiva dell'occhio recline, e sentii che il gelo veniva dalla benda
che mi copriva le tempia. Portai la mano alla fronte, ma fui impedito dal
dottor Gaudenzi che mi sorrise, parlando affettuoso e calmo, come se
riprendesse un dialogo interrotto mezz'ora prima.
- Ieri?
Ventitrè giorni fa! Ventitrè giorni sono passati dal concerto famoso. Ma non
t'agitare... ti dirò poi.
- Voglio
sapere, voglio sapere!
- Tutte cose
innocentissime e amene. Amena anche la tua meningite, ora che è scongiurata. Ma
non ti agitare!
Mi rinnovò il
ghiaccio sulla fronte, m'impose il silenzio. M'addormentai nuovamente. Due
giorni dopo cominciai ad alzarmi, felice di sentire che le gambe mi reggevano
ancora. E volli il barbiere subito, per avere l'illusione di riprendere la mia
vita consueta. E mentre ero sotto il rasoio, il dottore si decise a parlare,
misurando a grandi passi la stanza.
- Bada di
dirmi la verità! Tanto saprò tutto oggi, da Miss Eleanor.
- Miss Elaanor
è partita da tre settimane per l'Inghilterra. Non ritornerà in Sicilia mai più.
Per quanto inglese e teosofessa, certe lezioni si ricordano una volta per
sempre. Ma lasciami parlare!
- Allora cose
gravi!
- Ma no!
Importa molto, a un carattere come il tuo, d'essere la favola allegra di
qualche migliaio di sfaccendati, per qualche tempo? Dunque nessun guaio.
L'unico guaio si è l'aver portato di peso, tra la folla, in pieno concerto, urlando
come un forsennato, la povera gobbina svenuta.
Avevo
allontanato il rasoio, per prudenza, m'ero alzato in piedi, torcendomi le mani.
Non potevo ridere, non potevo piangere.
- Non è vero!
Dimmi che non è vero!
- È vero
questo soltanto. E non ti descrivo la scena. Ti sarà descritta a sazietà dai
volonterosi e dalle volenterose, in tutti i particolari. I quali tornano più a
colpa di Miss Eleanor che a tuo disdoro.
- Dimmi che
non è vero!
- Ed è lezione
ben meritata per quella incompleta figlia d'Albione. Tutti gli anni ha sempre
tessuto qualche idillio, coronato da catastrofi amene. Ha anche avuto qualche
amante, forsennati che giuravano d'averla vista con un corpo fidiaco. Ora posso
confessarlo. Nei primi tempi ha tentato lo stesso gioco anche con me. Ma io ho
un cervello sano. E l'ho vista sempre con due gobbe e alta come uno sgabello.
Con te, ridotto come eri, la cosa è stata diversa.
Afferrai il
rasoio, per gioco.
- Non mi resta
che il suicidio od il chiostro!
Ridevamo
perdutamente.
Ma lasciai la
Magna Grecia per sempre, tre giorni dopo.
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