IL MARTIRE VENDICATO
Io ho composto
molto prima di Gabriele d'Annunzio un Mistero di San Sebastiano.
D'Annunzio l'ha scritto in francese e a cinquant'anni, io a nove soltanto e in
inglese addirittura; e ho sostenuta la parte del martire versando lagrime e
sangue.
In quel tempo
- quasi vent'anni sono - la mia famiglia era in grande Amicizia con la famiglia
di un certo sir Goldsmith, agente consolare di Melbourne, da poco giunto in
Torino: un anglo-australiano che aveva preso stanza in Val Salice, in una villa
squallida, con una sorella brutta e vetusta come lui, miss Chloe, e una bimba
di dodici anni, Eleanor, alta e robusta come un maschio e tanto bruna e fosca
quanto il padre e la zia erano scialbi e biondicci, con un volto camuso e i
sopraccigli congiunti come due mustacchi, sotto una selva di capelli cresputi:
documento vivente degli amori di sir Goldsmith con qualche antropofaga degli
antipodi. Eleanor! Raramente ho incontrato in seguito nella vita una donna
perfida come quel piccolO mostro. Ah! quelle gite in Val Salice, quella vettura
che ci portava lungo il Corso Vittorio, attraversava il ponte di ferro sul Po
(detestabile anch'esso, detestabile tutto il paesaggio in quel ricordo!) e saliva
la collina passo passo, fino alla villa della mia dannazione! Tutto m'era
odioso là dentro: la lingua non mia, il giardino tetro, la casa squallida, alla
quale il passaggio di quei nomadi aggiungeva un cattivo gusto, zingaresco, le
accoglienze meccanicamente cordiali di sir Goldsmith, il suo bacio sulle mie
gote, l'inchino ipocrita di Eleanor che sorrideva con tutti i suoi denti di
cannibale, già sogguardandomi come la vittima designata... Convenivano là, due,
tre conoscenti con i loro bambini; i “grandi” si adunavano nell'atrio o in
sala; le signore cinguettavano di mode, sir Goldsmith parlava con gli uomini di
edilizia americana e di concia di canguri, di bridge e di pericolo
giallo; sovente invitava la figlia ad un saggio d'arpa e si esaltava, s'insuperbiva,
prorompeva in tali applausi prima della fine e prima degli altri che gli altri
più non sapevano trovare elogi adeguati. Ma, poco dopo, all'ora prefissa, con
una puntualità rituale, solenne di pastore evangelico, miss Chloe (o Straziante
ironia dei nomi!) compariva sulla soglia, faceva un inchino alle signore, un
cenno di richiamo a noi piccoli. Era l'ora della lezione.
Si saliva
all'ultimo piano della casa, in una stanza nuda, con non altri arredi che un
armadio immenso, una lunga tavola, due panche di legno. Noi piccoli ci si
disponeva attorno al tavolo, miss Chloe toglieva dall'armadio una Bibbia
inglese, una lunga asta minacciosa, una scatola di pasticche e una ciambella
pneumatica in caucciù rosso. Pare che la poveretta, per non so quale occulta
infermità, non potesse sedere senza quell'aureola sottoposta; era quella
ciambella l'unica speranza di salvezza, poichè sovente, o per caso o per la
furtiva trafittura di un nostro spillo, si udiva nel silenzio della lezione un
sibilo sommesso, e la professoressa s'inabissava, non più sospesa sul suo cinto
aereo.
Si era in
cinque, sei: io solo di maschi. Avevo vicino Eleanor tormentatrice, di fronte
miss Chloe mi dominava dall'alto del suo collo di condor, con due occhi
verdognoli, terribilmente miopi sotto la calvizie biondiccia non dissimulata.
Teneva l'occhialetto in una mano, nell'altra l'asta cara ai pedagoghi d'altri
tempi e raggiungeva con quella i più lontani, assestava ai negligenti e ai
distratti un colpo leggiero, ma secco, quasi propagasse al legno la malignità
delle sue nocche ossute. Ma la cosa terribile in quella virago era la bocca.
Ancor oggi, passando dinnanzi a certe vetrine-saggio d'abilità dentaria, miss
Chloe m'appare tutta d'improvviso: quella donna era la sua dentiera. Forse me
l'ha impressa nel ricordo lo studio continuo che dovevo farne per imitare lo
squittire, il sibilare della perfetta pronunzia.
Ma i tormenti
della lezione non erano nulla paragonati al terrore che avevo dei giochi.
Eleanor prendeva possesso di noi come di cose sue, come di schiavi che le
spettassero di diritto, ci confinava in un cortile solitario dietro alla villa,
perchè le nostre proteste non giungessero agli orecchi dei grandi. Mai ho visto
in una bimba, in una donna, tanto serena e spudorata sincerità di prepotenza.
L'arroganza anglo-sassone, sposata alla ferocia australasa, faceva di quel
meticcio un mostro di malvagità incredibile. Non era lecito preporre,
discutere, interrogare: “Perchè voglio così,” rispondeva fissandoci con i suoi
occhi verdi, spruzzati di punti neri come d'inchiostro. Ci aveva scelto tutti
inferiori a lei d'anni e di forze; io ero il solo maschio fra quattro o cinque
bimbe disciplinate e sottomesse. Mi ribellavo qualche volta, dicevo
ostinatamente no, deciso alla lotta con tutta la forza della mia piccola
dignità esasperata.
Ma Eleanor
stringeva le mie braccia nelle sue mani chiudendole come in una morsa; le
unghie s'infiggevano nella mia povera carne; non reggevo più, chinavo il capo,
assentivo, obbedivo. In tanto avvilimento avevo una sola grande soddisfazione.
Si ricorreva a me per l'invenzione dei giochi. Eleanor stessa faceva la voce
men rude, l'occhio meno feroce, quando mi consultava perchè “inventassi”. E
quell'omaggio reso alla mia fantasia lusingava la mia vanità di futuro letterato.
Ma allora non pensavo alla letteratura; sognavo di farmi missionario, ero in
pieno misticismo, praticavo la Chiesa con fervore, leggevo con trasporto i
libri sacri e la Bibbia. Per questo i miei soggetti erano quasi tutti ispirati
dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Avevamo già giocato al Trionfo di
Semiramide; alla Regina di Saba, al Salvataggio di Mosè.
Quel giorno
Eleanor era perplessa; salì in casa, ritornò poco dopo con due stampe tolte
alla camera della zia Chloe, me le porse: - What is this? Racconta!
Erano:
Giuseppe alla Corte di Putifarre e il Martirio di San Sebastiano. Il primo non
entusiasmò: nessuno seppe chiarire per quale negligenza nelle faccende di casa
Giuseppe fosse in lotta con la sua padrona. Ma il Martirio di San Sebastiano,
che io rammentai con fervore, piacque alle bimbe ed entusiasmò Eleanor.
- Very well.
Io faccio la parte della regina Diocleziano.
- Ma era un
uomo.
- Un uomo? Never
mind, non importa.Io metto i tuoi calzoni, tu devi ben toglierli per fare
il martire.
- Io faccio il
martire vestito.
- Ma guarda, -
incalzava Eleanor, - il santo non ha che questo gonnellino: non devi tenere che
le mutande.
- Allora non
faccio niente.
Protestai
recisamente, mi ribellai con tale fermezza che Eleanor stessa venne a
trattative.
- Bene, terrai
le mutande e la camicia, sei contento?
- Sì, ma
voglio vedere le frecce.
Le bimbe mi
portarono un fascio di canapuli bianchi e leggeri: ne provai uno sulla mano,
non c'era da temere.
- E le corde?
Mi fu mostrata
una gran matassa di corde per il bucato.
- Va bene, ma
non voglio essere legato, fingerete soltanto.
- Sì, sì,
fingeremo, - disse Eleanor rivolgendosi alle compagne con insolita compiacenza,
- fingeremo soltanto, lo giuro.
Il Mistero
ebbe principio. Gli arcieri, quattro bimbe con sciolti i capelli, mi
trascinavano dinnanzi all'imperatore. Eleanor sedeva su una sedia, sopra un
tavolo: aveva i miei calzoni, un tappeto per manto, in capo un vecchio allume
consolare del padre, in mano una zagaglia australiana. La sentenza era
pronunciata. Venivo trascinato contro l'albero del supplizio.
- Gli sia
tolta la camicia!
- No! No!
Avevi giurato di no!
Tardi! Le
complici mi tenevano alle gambe, alla vita, alle braccia. L'imperatore stesso
era balzato dal trono, mi denudava fino alla cintola; io mi divincolavo,
cercavo di liberare le mani, di mordere...
- Sia legato!
Eleanor
stessa, con le sue braccia nerborute (oh quanto più delle mie!) mi incrociava
le mani sul capo, le avvinceva all'albero con la corda, mi ripiegava la corda
sul petto, la ribadiva ai piedi.
- Bugiarda!
Spergiura!
Eleanor non
udiva l'insulto, era presa dalla follia, rideva, cantava, danzava; oggi ancora
rabbrividisco, ripensando a quella maschera disfatta dal piacere selvaggio. Si
risvegliavano in lei, esultando, le antenate che avevano danzato ignude nella
foresta attorno allo spiedo d'un missionario o d'un esploratore...
Anche nelle
altre bimbe si diffondeva lo stesso furore: intorno a me era una ridda
vertiginosa di piccole Menadi inferocite contro quell'unico maschio. Allora il
mio dolore e il mio sdegno cercarono nel vocabolario inglese l'oltraggio più
sanguinoso.
- Miss Crow
(signorina Cornacchia: figlia di negri), miss Crow, Dio ti punirà!
Miss Crow:
subito tra il biancheggiare e il frusciare innocuo dei canapuli, udii contro la
corteccia, presso la mia testa, due, tre colpi sordi. Pietre. Una quarta,
tagliente, non risuonò, mi colpì alla guancia: fu come un pizzico che quasi non
mi fece male: ma subito il sangue ne spicciò violento, mi rigò il petto d'una
striscia vermiglia.
Mi vidi
perduto: gridai come grida chi affoga, chi arde.
Una finestra
cigolò dall'alto, s'udì una voce. La ridda cessò, le carnefici dileguarono. Ero
solo, tacqui a capo chino: vedevo il cuore pulsarmi sollevando il costato,
vedevo, - terrore ben più atroce di tutti, per la morbosa mia pudicizia
d'allora, - vedevo e sentivo le leggiere mutandine, slacciate nella lotta,
scendere lungo i fianchi e le gambe; emergevo in tutta, la mia magra nudità,
come Salomè dopo l'abbandono del settimo velo!
Si schiuse una
porta, miss Chloe apparve avanzando rigida, con proteso il suo collo di condor.
Le mie mani fecero - invano!- l'atto istintivo di portarsi nell'atteggiamento
della Venere Medicea, miss Chloe s'avvicinò, alzò l'occhialetto, turbinò su se
stessa senza nemmeno dir “shocking”, disparve in casa a galoppo di giraffa.
L'allarme era dato, quasi subito apparve mia madre, si precipita su di me con
il grido del terrore e della tenerezza: ero slegato, avvolto non so dove,
trasportato non so dove, dalle sue braccia.
Un'ora dopo,
adagiato in un salotto a terreno, rivestito, riscaldato, riconfortato, ero
ancora scosso da singhiozzi convulsi. Ma non piangevo, non avevo pianto; non
volevo che mia madre, il buio ed il silenzio.
- Ora bisogna
andare, caro. Lasciamo questi cattivi per sempre...
Udivo nella
stanza attigua la voce di mio padre:
- Moderatevi,
sir Goldsmith, che in ogni caso sarei io... - e la Voce di sir Goldsmith: -
Caro ingegnere... un degenerato... pena per lei... vero sadismo... - e la voce
di Eleanor che dominava i due uomini in rudezza e franchezza: - Interrogatelo,
non negherà...
Entrarono
parlando: io non alzai il capo dalla spalla di mia madre.
- Ragazzo, -
interloquì sir Goldsmith solenne, - è necessario che tu risponda sinceramente a
qualche domanda. Sei tu che hai proposto il gioco... yes... di San
Sebastiano?
- Sì.
- Vede,
egregio ingegnere, che Eleanor ha detto la verità. E sei tu che hai ordinato le
scene e le parole e tutto il resto?
- Sì, ma non
le pietre.
- Sta bene,
non le pietre. Le pietre le ha scagliate Eleanor: l'ha confessato: mia figlia
dice sempre la verità. O yes, ma dimmi un po': hai pronunciato veramente
la parola... che non si può dire? L'hai pronunciata?
- Sì.
- E l'hai
detta prima che Eleanor ti scagliasse le pietre?
- Sì.
Padre e figlia
ebbero un gesto e un grido represso di trionfo.
- Vede dunque,
egregio ingegnere, che se non fossi in casa mia, potrei quasi desiderare da
lei, ma non le pretendo, le scuse che lei desiderava da noi...
La dignità
britanna non poteva uscirne più illibata. Valeva che io mi difendessi? La
innocenza, la colpa si delineano forse nelle pastoie di quattro sì e di quattro
no? Tacqui. E da quell'istante mi facevo dell'umana giustizia un concetto chiaro,
definitivo, che non s'è mutato più mai.
In carrozza,
tra mio padre e mia madre, ripassando sotto il muro del giardino che
strapiombava sulla strada, alzai gli occhi con un sussulto, come ad un
richiamo, e vidi fra il caprifoglio Eleanor che rideva: con una mano mi faceva
le corna, le fiche con l'altra. Non ne soffrii. Pensavo con sollievo che non
l'avrei rivista mai più.
***
Dovevo
rivederla invece, quasi vent'anni dopo. La Vita ha inverosimiglianze che
ripugnano alla pena, ma è pur forza raccontare le cose che la Realtà ci
racconta.
Vent'anni! Il
piccolo santo s'è ben persuaso che l'umanità si divide in due categorie esatte:
deboli e forti, buoni e malvagi, e che la vita oscilla tra due necessità
opposte: percuotere o essere percossi, soffrire o far soffrire. E ha scelto. Il
cuore s'è fatto più arido del tuo, o piccola cannibale dell'infanzia remota.
Eleanor!
Già fatto
uomo, a venti, a venticinque anni, sovente osservavo, nel radermi, quel piccolo
segno sulla gota sinistra e l'onta di quel giorno mi balzava netta alla memoria
con l'insanabile veleno delle cose invendicate. Miss Eleanor Goldsmith! Che aveva fatto
il tempo di lei? Forse una grande artista (aveva realmente allo studio
dell'arpa una selvaggia disposizione), forse la moglie di qualche plutocrate
dell'acciaio o del petrolio. E il pensiero di quella felicità impunita mi
faceva soffrire come vent'anni prima.
***
Port-Said:
città singolare, sorta come per incanto tra l'Asia e l'Africa, sulle sabbie
fulve, fra un cielo azzurro di vetrata e un mare di ametista: porta
dell'Occidente e dell'Oriente, miscela turbinosa di tutti i suoni, di tutti gli
odori, di tutte le tinte: cenci luminosi di donne e di bimbi egizi, bianchezza
di barracani; bagliori di uniformi europee, ingiurie, bestemmie arabe,
spagnuole, francesi, maltesi, fruscii di sete, melopee arabe, lagni di flauto e
di barduca... E strani edifizi a colori vivaci, a terrazzi, a colonnette
policrome e svelte. E su tutto, il fiato veemente del mare e del deserto, un
profumo d'oleandro e di pesce fritto, di carogna e di essenza di rose.
La nave che ci
portava verso il Sud avrebbe sostato due giorni per rifornirsi. Si era
approdati da un'ora: io pellegrinavo in quella babilonia col dottore di bordo,
famigliare del luogo, tempra d'artista inespresso e di scettico argutissimo. Ci
riposammo in un caffè egiziano, strano covo invaso dai venditori di bronzi
cesellati e di pelli lavorate, visitato a quando a quando da una capra o da un
dromedario, infestato da prosseneti elogianti la merce ad alta voce, in tutte
le lingue. Ero stanco e deluso; un liquore troppo forte dava la vertigine
malinconica, non l'ebbrezza al mio cervello d'astemio. Passammo in un corridoio
a grate intrecciate di convolvuli, riuscimmo in un cortile interno e là fu
calma improvvisa. Era un patium moresco, ampio, luminoso d'acque e di
marmi; ricorreva intorno un colonnato a musaici, in mezzo era una vasca
protetta da tre palme eccelse, sopra, teso come un velum quadrato,
l'azzurro quasi nero del cielo d'Egitto. Presso la vasca un gruppo d'ufficiali
europei e di mercanti parsi faceva corona ad un tappeto immenso e sul tappeto,
fra una suonatrice nubiana e un flautista arabo, danzavano due mime.
- Le sorelle
Tau, egiziane. Arriviamo in buon punto; val la pena di vederle.
Ci sedemmo.
Appena le mime
riconobbero il dottore, lo salutarono, pur sempre danzando, con un sorriso
della bocca e degli occhi, un sorriso d'intesa fraterna, un po' derisoria.
Un negretto
annunciava in inglese le didascalie:
- ...Allora le
figlie del sacerdote invocano lo sciacallo Anubi...
L'illusione
cominciava a prendermi. Il quadretto era oleografico, ma pensavo che era vero.
Vere erano sopra tutto le due egiziane, non per il costume simile a quello di
una qualunque Iside da operetta, ma per la sveltezza e la grazia insuperabile
della persona, per la scienza dei gesti imitati sui bassorilievi, e sulle
pitture delle necropoli, e pel viso sopratutto, ovale, olivigno, dagli occhi
immensi, chiuso nella cuffia enorme dei capelli azzurri, densi, come scolpiti
nel legno...
- Che strano,
- dissi al dottore, - hanno veramente gli occhi “senza prospettiva”, “senza
profilo” come nelle pitture egizie: e io credevo fosse la maniera d'un'arte
ancora troppo infantile! È invece un carattere etnico; come si vede
l'autenticità della razza!
Il dottore mi
cinse affettuosamente le spalle col braccio.
- Infatti una
è nativa di Sorrento, l'altra è una marsigliese puro sangue...
- ...?
- Povero
amico, ma tutto qui è chincaglieria fabbricata in Europa ed esposta
all'esotismo nostalgico e allo snob internazionale. L'Egitto non è mai
esistito. Quando questi scimuniti se ne saranno andati, pregheremo le due
signore di togliersi la parrucca di stoppa azzurra, di farci grazia della danza
dello sciacallo Anubi, dello scarabeo Tacki e delle altre citrullerie! La
francese sa delle canzoni in argot deliziosissime, l'italiana conosce
tutte le cose di Salvatore Di Giacomo...
Tacevo. Dunque
quel cortile esotico, quei palmizi sui quali le nubi accese si sfaldavano come
fiamme inviate a incendiare una città maledetta, e quel pavone bianco e quella
scimmia che presso la vasca tormentava una testuggine dolente, palpandola,
voltandola e rivoltandola fra le dita irrequiete, e quelle mime e i tappeti e i
musici, tutto era un numero da caffè concerto, uno scenario disposto pel mio
sguardo europeo!... E il mio sguardo fu distratto, assorto improvvisamente
dalla vecchia nubiana che suonava l'arpa.
Il dottore
incrudeliva:
- Non è
vecchia, ma non è nubiana: è spagnuola; anzi, è un'inglese sposata ad uno
spagnuolo e ritinta al cioccolato, come una comparsa dell'Aida. Un fiore
di delinquente; ma è stata una signora autentica: ho conosciuto ad Alessandria
il marito che per poco esalava l'anima per una pozione arsenicale; la consorte
ha fatto cinque anni di carcere. Poi è capitata a Port-Said, cadendovi come in
un pantano. L'ho rivista l'anno scorso all'Ospedale delle Missioni, per la
rasoiata d'un facchino arabo: le è rimasto il naso camuso, il che le dà maggior
colore locale, ma ha perduto l'ultimo vestigio di giovinezza, l'unica merce che
valga. Da un anno è qui, travestita in quel modo, e suona la giarizza: ha una
certa abilità: per questo la sfamano...
Io non
ascoltavo il dottore. Fissavo quel volto spaventoso sotto l'arco ricurvo dello stromento
egizio, che le protendeva sul capo, a maggior contrasto, una sfinge d'oro. Le
mani salivano, scendevano lungo le corde come due ali nere, come cose non sue.
E il volto era chino in avanti, fra i ginocchi socchiusi. Un volto non
descrivibile, deforme, con non so che di mancante all'altezza degli occhi, come
se riflesso in uno specchio rotto; la mascella inferiore, non sorretta dalla
volontà, s'abbassava; cadeva lasciando aperta la bocca in un abbrutimento
supremo. A tratti la sciagurata si scuoteva, chiudeva la bocca, ma le forze
l'abbandonavano quasi subito, la mascella si riabbassava lentamente, come nei
cadaveri. Quel gioco alterno e gli occhi - occhi di belva ferita a morte -
s'impressero nel mio ricordo fra le cose spaventose e bellissime.
***
Ripensavo a
quegli occhi giorni dopo, in pieno Mar Rosso, all'altezza del Monte Sinai,
mentre tutti i viaggiatori puntavano cannocchiali e binocoli verso la vetta
biblica. Passeggiavo col dottore, ma non l'ascoltavo; quegli occhi mi perseguitavano
dandomi un brivido di terrore troppo forte che mi incuriosiva, mi inquietava
come una musica che non si ritrova, una cifra che non si ricorda... Ad un
tratto passò nel buio della mia memoria uno di quei raggi obliqui che tagliano
le tenebre d'una stanza chiusa. Mi fermai col respiro e la parola mozza.
- No! No! Mi
dica, dottore: quella negra... il nome...
- Señora...
señora Vinca De Ycaza.
- Che c'è? Si
sente male?
- No! No! Il
nome di lei, del padre...
- Non so.
Inglese. Ma ecco chi può dirlo.
Sul ponte di
comando, sopra di noi, un altro ufficiale passava di corsa. Il dottore si fece
portavoce con le mani.
- Gribaudi! -
L'ufficiale s'arrestò in ascolto. - Gribaudi, il nome di Vinca, Vinca di
Port-Said; il nome del padre.
Nell'attimo
d'attesa, il cuore mi si arrestò come per una sentenza.
Dall'alto
l'ufficiale gridò:
- Goldsmith. Miss Eleanor Goldsmith,
- e disparve.
- Dottore,
dottore, è lei! È proprio lei! Sono vendicato!
- Ma che c'è?
si calmi...
Mi calmai, e
raccontai, passeggiando, mentre la nave ci portava sempre più giù, verso i mari
del Sud.
Il dottore
ascoltava, sorrideva, rideva. Poi ci sedemmo presso una scialuppa di
salvataggio, tacendo. Quello scettico delizioso si era fatto serio, quasi
triste.
- È strano,
anch'io nella vita ho notato questo: che presto o tardi il male si sconta.
Qualche volta si sarebbe quasi indotti a credere che un equilibrio, che una
morale presieda e vendichi i nostri piccoli casi, si sarebbe quasi indotti a
credere che il Bene e il Male siano due valori autentici, che esistano
veramente...
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