LA CASA DEI SECOLI
La casa dei
secoli è il Palazzo Madama.
Nessun
edificio racchiude tanta somma di tempo, di storia, di poesia nella sua
decrepitudine varia.
Il Colosseo,
il Palazzo dei Dogi, tutte le moli ben più illustri e più celebrate, ricordano
il fulgore, di qualche secolo; poi è l'ombra buia dove tutto precipita. Il
Palazzo Madama è come una sintesi di pietra di tutto il passato torinese, dai
tempi delle origini, dall'epoca romana, ai giorni del nostro Risorgimento. Per
questo io lo prediligo fra tutti. Noi torinesi non lo sentiamo più, non lo
vediamo più, come tutte le cose troppo vicine e troppo familiari, sin
dall'infanzia, o lo consideriamo come un ostacolo non sempre gradito per la
nostra fretta di attraversare la grande piazza. Non per nulla nel 1802 ne fu
progettato l'abbattimento totale; si voleva liberare Piazza Castello della mole
ingombrante; e sia lode a Napoleone I (benefattore dell'arte questa volta come
poche volte fu mai) che intervenne scongiurando con un veto formale l'inaudita
barbarie.
Noi torinesi
siamo anche avvezzi a considerare il Palazzo Madama come un piacevole luogo di
convegno solitario, ben difeso dalla pioggia, dal sole, dalla curiosità. Sotto
la mole vasta, passeggiando dall'androne medioevale al porticato settecentesco
si può attendere una signora - mamma, sorella, amica, amante - e la mezz'ora di
ritardo, che ogni donna si crede serenamente in diritto di prelevare sulla
pazienza maschile, è meno grave che altrove. In una mezz'ora d'attesa nel
rifugio semibuio ci si può inebriare della poesia di due millenni, dimenticare,
come in un'oasi risparmiata dal tempo, la vita moderna che pulsa intorno,
dimenticare la folla varia e modernissima, le rotaie corruscanti, il balenìo
delle lampade elettriche, il rombo delle automobili, dei tram, della civiltà
che passa ed incalza.
Due millenni:
tutta la vita di Torino. Si può risalire nella notte dei tempi, quando la
storia non ha più date e non ha più nomi e il nostro sogno prende non so che
tinta crepuscolare livida e paurosa, non priva di un fascino indefinibile: il
fascino delle cose non certe.
Qui, tra
queste due torri giganti, s'apriva la Porta Decumana (o Phibellona?). Com'era,
come poteva essere la Torino di Giulio Cesare? La nostra fantasia la chiude in
una cinta quadrata ad imitazione dei castra e gli storici confermano con
arida sicurezza la sua planimetria. Della città romana, l'Augusta Taurinorum,
costrutta sullo stampo quadrangolare degli accampamenti legionari romani di
Giulio Cesare, ampliata ed abbellita dall'Imperatore Augusto, si può segnare
approssimativamente la cinta perimetrale delle mura con i nomi delle attuali
vie. Lato Nord per Via Giulio da Via Consolata e per Via Bastion Verde
sino al Giardino Reale; lungo questo lato aprivasi la Porta Principalis
dextera, ora Porta Palatina: all'angolo di Via Consolata e Giulio è rimessa
in piena vista la base della torre angolare nord-ovest delle mura; presso
l'angolo nord-est, lungo la Via XX Settembre, era il Teatro Romano. Lato Est,
dal Giardino Reale alle Torri Occidentali di questo Palazzo Madama e poi per
una linea mediana tra Via Roma e Accademia delle Scienze. Lato Sud, da
questa linea per Via Santa Teresa e Cernaia al Corso Siccardi: lungo questo
lato aprivasi la Porta detta Marmorea nel Medio Evo. Lato Ovest, da Via
Cernaia per Corso Siccardi e Via della Consolata a Via Giulio: lungo questo
lato aprivasi la Porta Praetoria detta Segusina nel Medio Evo.
La Torino
Medioevale spopolata e immiserita non si ampliò oltre la città romana della
quale conservò la planimetria. Vista dalle alture della collina la città doveva
ricordare quelle città minuscole, chiuse da alte mura, che le sante reggono per
ex-voto nella palma della mano protesa.
Torino finiva
adunque qui, dove oggi è il suo cuore più pulsante; qui era un fortilizio: una domus
de forcia. Infatti il trattato fra Guglielmo VII, Marchese di Monferrato, e
Tommaso III, Conte di Savoia, venne conchiuso nel fortilizio che su queste
pietre stesse preesisteva al Castello dei D'Acaja. Il patto fu stretto in
domu de forcia quam ibi de novo aedificavimus... La porta romana - scrive
il prof. Isaia - era per dimensioni, struttura e pianta, del tutto, uguale alla
Porta Principalis dextera o Palatina. Della porta romana, oltre
le due torri, conservate nel lato orientale del palazzo, si rinvennero le
fondazioni ed una parte dei pilastri tra le fauci, oltre a molti tratti del
selciato poligonale.
Addossato alla
cinta romana e alla porta sorse all'esterno della città, all'epoca di Guglielmo
VII di Monferrato, un fortilizio chiamato nei documenti col nome di Castrum
Portae Phibellonae.
Dal 1404 al 1417
il Principe Ludovico d'Acaja ampliò le costruzioni difensive, provvide al
rinforzo delle torri romane ed aggiunse alla casa forte del Marchese di
Monferrato un corpo di fabbrica fiancheggiato da torri.
Altra
trasformazione importante fu quella compiuta al tempo di Carlo Emanuele II, che
mutò completamente la disposizione del Castello, riducendo il cortile ad atrio
con vôlte a crocera, sostenute da pilastri ed erigendo il grande salone
centrale, che fu poi l'aula del Senato.
A tutti i
precedenti lavori si aggiunsero infine, nel 1718, la facciata di ponente e il
grandioso scalone a due rami costrutti dal Juvara.
L'epoca romano
con le sue pietre massiccie, il medio evo col profilo merlato delle sue torri,
il Rinascimento che cercò di illeggiadrire la casa forte con qualche
segno di bellezza, il 700, infine, che chiude questo sovrapporsi di epoche e di
stili con l'arte del Juvara: tutto un poema di pietra. Quali figure di donna
animarono questa pietra che reca nel nome stesso una chiara dedicatoria
muliebre e non so che imponenza matronale? Palais de Madame Royale, Palazzo
Madama nel dialetto infranciosato subalpino, ma prima ancora, fin dall'inizio
del medio evo, intitolato a Nostrae Dominae, a Nostra Signora. E non in
senso mistico, non a Nostra Donna, che sta nei cieli, ma ad una donna di carne,
certo molto bella.
Quale dei rudi
Marchesi di Monferrato, quale dei Principi d'Acaja ebbe pel primo l'idea di
quell'ossequio coniugale, veramente cavalleresco, verso la sua amatissima
sposa? Dominae, Mesdames, Madame: le Marchese di Monferrato, le Principesse
d'Acaja, le Contesse e le Duchesse di Savoia, animarono per secoli, per quasi
un millennio, lo squallore tetro di queste mura e forse i loro fantasmi
attirano la nostra fantasia più degli avvenimenti che qui si svolsero o furono
sanciti. Avvenimenti solenni e storici: dalla pace conchiusa tra i Marchesi di
Monferrato e i Conti di Savoia, dalla pace tra Genovesi e Veneziani, che ebbe
ad arbitro inappellabile il Conte Verde, al Senato del Regno, che meditò le sorti
dell'Italia risorgente ed ebbe sede nella grande aula dal 1848 al 1864.
Avvenimenti giocosi e pittoreschi, l'Abbazia degli Stolti, ad esempio,
la singolare associazione privilegiata ed approvata dal Duca, la quale aveva
qui la sua sede, apprestava le pubbliche feste e le pubbliche facezie e
attendeva a cariche singolari come la percezione del diritto di barriera,
tassa che gravava sui novelli sposi che giungevano a Torino. La coppia era
fermata precisamente tra queste torri, alla Porta Decumana; l'Abate degli
Stolti, con i suoi Monaci si recava incontro agli sposi in pompa magna e
con rituale scherzoso fingeva di voler loro impedire il passo: lo sposo doveva
sottostare ad alcune formalità e sborsare un tanto per fiorino sulla dote della
sposa novella. I Monaci cedevano il passo e la coppia entrava in città.
Consuetudini che sanno di lepida farsa; ma l'Abbazia attendeva ancora
all'allestimento di feste solenni, di giostre sontuose, quali si sognano
soltanto nei poemi cavallereschi; e il cortile antistante al Palazzo si gremiva
di popolo plaudente. Gli storici rammentano la giostra allestita a cura
dell'Abbazia nel dicembre 1459 tra il Cavaliere errante Giovanni di Bonifacio e
Giovanni di Compei, i quali si provarono alle armi a piedi ed a cavallo.
Rammentano le splendide feste del 1474 in occasione della elezione del Rettore
dell'Università, alle quali era presente la Duchessa Violante di Francia vedova
del beato Amedeo IX e quelle per la Marchesa di Monferrato, moglie di Guglielmo
VIII. Nel 1500 per le nozze del Duca Carlo Emanuele con Caterina d'Austria -
scrive Daniele Sassi - nella sala maggiore del Palazzo si formò un teatro per
rappresentare il Pastor Fido del Guarini. Il Duca Carlo Emanuele aveva
spirito d'artista, incoraggiava le pubbliche festività, componendo egli stesso
azioni spettacolose di soggetto mitologico o marziale. La Corte ne seguiva
l'esempio. Così nel gran salone del Palazzo Madama il Conte San Martino d'Agliè
produsse un suo Ercole domatore dei Mostri e un Amore domatore degli
Ercoli, ed altre inventioni; il Principe Maurizio, figliolo del
Duca, scrisse e recitò il suo Nettuno Pacifico... Dolce accademia,
arcadia di endecasillabi sciolti, di stucco e di tela dipinta! Come si
conciliava il “bello stile” con la rudezza guerresca piemontese? Come la
letteratura iperbolica con il gaio stuolo illetterato di quei tempi in cui la
lingua, italiana era lingua straniera e poche erano le dame che sapessero
scrivere il proprio nome o lo scrivevano con quella calligrafia tremula,
deforme che oggi distingue soltanto certe serve campestri?
Non erano però
illetterate le spose dei signori: non era illetterata la moglie di Guglielmo
VIII di Monferrato, nè la moglie di Ludovico I, se scrivevano in corretto
latino epistole affettuose ai consorti, lontani e guerreggianti; non quella
Giovanna Battista di Savoia Nemours che componeva in un dolce francese arcaico
strofe piene di sentimento aggraziato, non Cristina di Francia, la prima Madama
Reale, che culmina nella storia e nella leggenda. Il solo suo nome sembra evocarne
l'ombra imponente; e l'ombra invade gli atri, le scale, i saloni di questo
Palazzo Madama, l'occupa tutto come sua dimora, esclusiva, sembra offuscare
d'una luce unica i fantasmi leggieri delle altre principesse.
“Beauté, douceur, esprit, mémoire, jugement fin,
éloquence, libéralité, constance dans le malheur, tout concourait à en faire
une princesse, accomplie. Elle s'exprimait avec noblesse et avec grâce en
français, en espagnol, en italien. Ses connaissances, variées, sa sagacité
d'esprit ne l'empêchaient pas de déférer volontiers aux bons avis.
“Quoiqu'elle ne fut pas ennemie des fêtes et des
plaisirs, elle se livrait avec assiduité aux affaires d'état les plus graves.
Nous la verrons exercer une grande influence durant le règne de son époux, gouverner
avec sagesse pendant les onze ans de sa régence, être, toute sa vie, l'âme des
affaires. Vêtue en amazone, cette Princesse conduit elle-même au camp de Verole
cinq régiments d'infanterie, et deux mille hommes de cavalerie, inspecte les
troupes, les exhorte à bien faire, et ne revient à Turin qu'après leur avoir vu
prendre la route de Verceil”.
Così
l'ufficioso, e molto timorato storico Jean Frézet, abate di Corte e pedagogo.
Certo è che,
rimasta vedova giovanissima, lanciata dal destino tra le vicende più tragiche
che possano turbare un reame, Madama s'innalza nella nostra fantasia come
un'immagine di forza e avvedutezza che pochi regnanti possono vantare. Ella sa
equilibrarsi, tra cupidigie opposte, tra nemici formidabili. La Francia da una
parte, che è pure la sua patria perduta, la quale l'incalza contro la libertà
del Piemonte con la politica subdola, terribile, inesorabile di Richelieu e del
fratello Luigi XIII. Dall'altra la fortuna e la libertà del Piemonte che è
anche la fortuna e la libertà del figlio superstite, un gracile bimbo di sei
anni che ella adora e che sarà col tempo il grande Vittorio Amedeo; dall'altra
i cognati: il Principe Tommaso e il Cardinale Maurizio implacabili contro la
Reggente. Da questo nodo di cupidigie opposte scoppia la guerra civile del
1640. C'è, di quei giorni, una lettera di Madama, che non si può leggere senza
un fremito di commozione e di ammirazione, e che rivela la tempra veramente
superiore di quella donna che ha paura d'esser donna. Ella deve lasciare
per qualche giorno la Cittadella, deve abboccarsi segretamente col fratello
Luigi XIII e Richelieu, a Grenoble, per moderarne i disegni crudeli e
conciliare il destino di tutti quelli che ama. Essa lascia il figlio piccolino
al Marchese di San Germano, lo affida con queste parole che è bene meditare:
“Je vous confie le dépôt le plus cher. Ne laissez point sortir monn fils de la Citadelle: n'y recevez pas
d'étrangers. Ne remettez cette place forte à personne. Si vous receviez des
ordres contraires, fussent-ils revêtus de ma signature, regardez-les comme non
avenus. On me les aurait extorqués. Je suis femme”.
E altrove,
accasciata per un attimo dal destino che minaccia la catastrofe ultima,
oppressa dalla malvagità dei più famigliari, scrive al fratello: L'heureux a
peu d'amis: le malheureux n'en a point!
Je suis femme. Com'era? Bella? Nessuna stampa dell'epoca
la ritrae come doveva essere: è forse bene che il nostro sogno faccia di tutte
le sue effigi una sola, per vederla com'era, o basta sillabare il suo nome,
pensarla intensamente ad occhi socchiusi perchè la sua figura si profili contro
la parete sanguigna, sotto le vôlte a crociera. Ha una veste nera - non ha
deposto le gramaglie più mai, dal giorno che è rientrata in Torino vittoriosa
centro i suoi sudditi - la quale l'avvolge graziosamente, con un guardinfante
appena accennato: una veste che potrebbe ricordare la foggia odierna se non
terminasse alle maniche, alla gorgiera con sbuffi di velo bianco e ondulato.
Madama non ha più gioielli. Dato fondo al Tesoro per sostenere le spese della
guerra, essa ha venduto i famosi brillanti, dono e retaggio di principi
sabaudi, ha venduto “le smaniglie e le boccole pesanti”, ha venduto la collana
di Ahira, la meravigliosa collana bizantina d'oro massiccio e di smeraldi che gli
Avi Cristianissimi avevano portato da Gerusalemme al tempo delle Crociate: “J'aime
mieux, mon frère, me passer de joyaux que de lasser mes troupes sans paie...”.
Il volto è circondato da un'acconciatura di tulle nero, alla Holbein, che gli
darebbe non so che espressione monacale se sotto non balenassero gli occhi
chiari di amazzone, il profilo diritto, la bocca volontaria, la mascella forte:
un volto che sembra la maschera dei guerrieri greci, come si sognavano nelle
fantasie mitologiche di allora, non il volto d'una Regina, d'una donna segnata
dal destino al dolore ed all'amore.
L'amore? “Elle eut des envieux, des ennemis qui
s'efforcèrent de répandre des nuages sur ses belles qualités: la calomnie
n'épargna pas la grande Princesse”.
L'amore? La
immagino dolorante, tragica, combattiva: non la so pensare amante. Se qualche
verità c'è in fondo alla calunnia e alla leggenda, se in un'ora di sconforto
supremo ella ha piegato la bella fronte virile sulla spalla di qualche amico,
certo deve essersi sollevata subito, conscia del suo destino, deve aver
ripetuto fieramente al favorito d'un'ora le parole che scriveva al Marchese di
San Germano: “Regardez-les (trattati politici o baci che fossero) -
regardez-les corame non avenus, on me les aurait extorqués. - Je suis femme”.
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