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Matteo Bandello Fragmenti de le rime IntraText CT - Lettura del testo |
Ne le fiorite piagge, e fertil piano
d'ombrose selve e folti boschi pieno,
che la bell'Adda press'Insubria bagna,
Pan dio d'Arcadia venne, poi che 'n vano
seguí Siringa che d'Amor il seno,
superba e ritrosetta, discompagna.
d'antiche quercie mezz'ai santi orrori
l'albergo elesse, e eterno nome diede
oggi di piú felici e veri onori,
di virtú nido, e seggio a' casti Amori.
Quivi la bella e glorïosa Donna
ch'a' nostri giorni di virtute e grazia
e di beltate albergo si ritrova,
stassi con sparso crine in nera gonna,
e sol di lagrimar s'appaga e sazia:
tant'in lei doglia il duol ognor rinova,
altrui conforto: sí l'affligge e sface
la morte di un figliuol, tal ch'ella suole
da l'uno a l'altro sole,
piagnendo sempre priva d'ogni pace
starsi, qual neve al sol che si disface.
Onde, chiavate insieme ambe le mani,
con gli occhi fissi al ciel si lagna e grida
tal ch'a pietate il marmo può piegarse.
E dice sospirando: ahi! sciocchi e vani
nostri pensieri, e pazzo che si fida
in ciò ch'ogni momento suol cangiarse!
che 'l caro mio figluol sí tosto a morte
tiraste con sí duro e orrendo caso,
del sol non fu giammai sí fiera sorte
tra quanti qui n'ancide l'empia morte.
Come non puoté in me tanto la doglia
ch'i' ne morissi allor ch'i' vidi il sangue
da quelle membra uscir sí caldo fòre?
I' vidi, ahimè! la pargoletta spoglia
d'alto cadendo pallidetta e esangue
restar come tra l'erbe un secco fiore.
di doglia alcun. I' pur dovea morire
allor che 'l vidi. I' pur morir dovea
il caro mio figliuolo in tal martíre,
che 'n me non può per tempo mai finire.
Questa è pur doglia ch'ogni doglia avanza;
e sovra ogni credenza in me può tanto,
ch'i' ne torrei morir per minor pena.
E peggio si è, che fòr d'ogni speranza
i' vivo che cessar mai debbia il pianto,
ch'esce dagli occhi miei con larga vena.
d'aspri tormenti! I' veggio ben ch'omai
sperar non debbo piú diletto o gioia,
che con dogliosi e sempiterni lai
mi tengan sempre, fin ch'io viva, in guai.
Che se per morbo il mio figliuol la vita
finit'avesse a poco a poco, quale
suol avvenir in tal etá sovente,
forse ch'a l'aspro mio dolor aíta
darei. Ma quand'i' penso a l'alte scale
cagion de la rovina sí repente,
né come viva resti dir saprei.
Ahimè figliuolo! ahimè figliuol mio caro!
il resto lasci de li giorni miei,
che se morta non fossi i' ne morrei.
Or quando mai potrò, figliuol, vederti?
Ché senza te la vita non m'aggrada,
ove mai sempre il cor doglioso geme.
Lassa! che non feci io per ritenerti?
Ma non puote Esculapio o Apollo a bada
l'alma tener in tante doglie estreme.
a piena luna, e meno il suco d'erbe,
né tra le pietre il verde e fin smeraldo
sangue fermò che da le piaghe acerbe
correa qual rio che larga vena serbe.
Ind'io mirando que' begli occhi, quelli
occhi tuoi dolci ombrar eterna notte,
e 'l dolce ragionar finir in tutto,
piú di te morta, i giá leggiadri e belli
lumi bagnai con lagrime interrotte
da fier singhiozzi e sospiroso lutto.
baciai piú volte, stand'intenta allora
acciò cogliessi almen lo spirto amato
su le tue labbra con l'ultimo fiato.
Dunque, figliuol, l'acerbo mio cordoglio,
s'hai teco quell'amor che 'n terra avevi,
mira dal ciel, e vieni a consolarmi.
Tu sai che giustamente pur mi doglio,
dapoi che fur i giorni tuoi sí brevi,
ch'assai piú tempo lieta dovean farmi.
non volle grazia il ciel, ch'a questo passo
teco, figliuol... Qui tacque, né piú disse,
al ciel avendo, il corpo quasi casso
parve di vita, ed ella farsi un sasso.
per non veder che 'l cor di duol si svella
fra le piú belle donne a la sí bella.