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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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AI ROMANI CHE VENDICHERANNO

L’ONTE NUOVE DEL VECCHIO SERVAGGIO

QUESTE SATIRE

DEL LORO POETA

DEDICA

IL RACCOGLITORE

 

 

I.

 

Dalla distruzione di esseri viventi rinascono altri esseri; dalla morte, la vita: è questo il fenomeno per cui si perpetua e quasi s’indìa la materia.

Codesto fenomeno si ripete anche nel mondo morale. «Le lettere (disse Cesare Balbo) si nutrono di fatti gravi, importanti, da discutere, o narrare, o ritrarre in qualunque modo di prosa o poesia; ondechè, cessando ovvero i fatti, ovvero la libertà del discuterli o narrarli o ritrarli, ovvero peggio ed insieme i fatti grandi e la libertà, cessa il cibo, il sangue, la vita delle lettere; elle languono, si spossano, infermano talora fino a morte1.A confermare queste parole del Balbo sta il fatto, oramai incontrastato, della decadenza delle lettere latine dalla fondazione dell’Impero in poi, e delle italiane, dopo la caduta delle repubbliche medioevali. Ma nel mentre l’eloquenza, la poesia epica, tragica o lirica, vivono, può dirsi assolutamente, della libertà, la satira de’ costumi e quella politica nascono e prosperano quando la libertà sta perdendosi o si è in tutto perduta; hanno vita insomma dalla morte d’ogni altro genere di letteratura.

La satira de’ costumi precede sempre quella politica: Orazio viene prima di Persio e di Giovenale; Parini prima di Giusti. potrebbe essere altrimenti, perocchè il declinare della privata e pubblica moralità è certo indizio di vicina tirannide. Fortuna simul cum moribus immutatur lo ha detto un giudice competente: il vizioso Sallustio, che assisteva al suicidio di Roma. I popoli grandi, virtuosi, incorrotti, non si domano, non si comprano. Innanzi che Roma si vendesse a Giulio Cesare, sulle porte di lei aveva letto Giugurta l’Est locanda. Giovanni Villani, Dante, Savonarola, quando inveivano contro il lusso, l’immodestia, le libidini dei Fiorentini, rimpiangendo i buoni tempi di quel de’ Nerli e quel del Vecchio, le cui donne stavano contente al fuso e al pennecchio, erano altrettanti profeti che prevedevano la rovina della patria nella morte de’ modesti costumi. Laonde, ben a ragione si disse, che il tiranno è sempre lo specchio fedele de’ milioni di sudditi che gli stan sotto, e che son degni di lui.

La satira de’ costumi è il canto funebre, la nenia della libertà morente; la satira politica ne è l’epicedio, l’elegia vendicatrice. Talvolta, la seconda va accompagnata alla prima, come in Persio e in Giovenale; poi che il poeta si avvede che la tirannide viene dal basso più che dall’alto, che gli uomini, se non fossero evirati dal vizio, scuoterebbero il giogo. Allora egli flagella a sangue i viziosi colla sferza tremenda del ridicolo, e la sua beffa morde e strazia, e dal riso è capace di farti rompere in uno scoppio di pianto rabbioso... Potenza dell’arte, che ha virtù di rifarci bambini!

Pertanto, la satira politica, — sia che coprasi del velo dell’allegoria, come ci dicono gl’indianisti, nelle favole del Pancha tantra2, od in alcune di Esopo3 e di altri; sia che faccia capolino frammezzo alle scene; sia che vesta panni tutti propri, — è sempre figlia della tirannide; ma insieme è il serpe che questa s’alleva nel seno; è il tarlo che rode lentamente il trono del despota; è la voce tremenda della virtù oltraggiata e concussa, che invoca ed affretta il giorno, dell’ira!4

Veramente, se le lettere debbono pur servire a qualche cosa, io non so quale altro ramo di esse possa reggere per l’utilità e per l’importanza al confronto della satira. Le dolci inspirazioni dei nostri cento poeti potranno allietarci e render più belli i giorni felici della libertà; ma il sarcasmo di Giusti era cote che ci affilava l’anima nello sdegno, e ci veniva compagno e conforto nella sventura.

Alle prime aure di libertà, mentre ogn’altro genere di poesia e di prosa risorge, la satira politica va lentamente mancando; intisichisce, come pianta posta in terreno non suo; diventa rettorica, e che Dio ce ne liberi!

 




1 Sommario della storia d’Italia, lib. iii, 16



2 Vedi Amari, Solvvan el Mota; Introduzione, X



3 Nunc fabularum cur sit inventum genus / Brevi docebo. Servitus obnoxia, / Quia, quæ volebat, non audebat dicere, / Affectus proprios in fabellas transtulit, / Calumniamque fictis elusit jocis, etc.

(Fedro, lib. iii, Prologo.)



4 Giulio Cesare, primo tra’ primi liberticidi, sperimentò assai per tempo il flagello della satira. Quando, dopo aver soggiogate le Gallie, entrò trionfalmente a Roma; siccome era ne’ del trionfo concesse al popolo libertà di parola; molti, ricordando le sue turpitudini col re Nicomede, andavano gridando:

 

Gallias Cæsar subegit, Nicodemes Cæsarem;

Ecce Cæsar nunc triumphat qui subegit Gallias:

Nicodemes nun triumphat, qui subegit Cæsarem!

 

Vedi Svetonio, Vita di Giulio Cesare, xlix.)

 

Quale effetto avranno prodotto sull’animo del dittatore trionfante quelle sanguinose parole? C’era di che morirne dalla vergogna! Pasquino non era ancor nato, ma la satira sarebbe stata degna di lui.






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