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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XXVI.

L’incontro der beccamorto.

(21 gennaio 1843)

Padron Zanti1 me sbajjo? — Oh ssor Pasquale! —
Filiscia2 notte. — Grazzie: bbôna sera. —
Che n’è de tu’ fratello? — Sta in galera. —
Poveraccio! E ttumojje?— A lo spedale. —

 

Vanno bbene l’affari? — Ah! vvanno male. —
E da quanno? — Dar tempo del collèra. —
Ma ssento vojji aritornà.3 — Se spera. —
Me l’ha ddetto un dottore. — E a me un spezziale. —

 

Quanti sta sittimana? — Eh! appena dua. —
E llantra?4 — S’annò llisscio.5 — E llantra avanti? —
Uno, madètta6 l’animaccia sua! —

 

E ttu mmuta parrocchia. — È tempo perzo.7
Ma er curato che ddisce, padron Zanti? —
Disce quer che ddich’io: sémo a traverzo.8

 

 

 

 

 




1 Colla z aspra, come in prezzo. Sante, nome proprio. —

2 Felice. —

3 Sento che voglia ritornare. La variante popolare è più naturale: Disce che vojji aritornà. —

4 E l’altra? —

5 Si andò liscio: non si fece nulla. Metafora tolta dal gergo del giuoco delle boccie. —

6 Maledetta. La variante popolare ha mannàggia. —

7 Perduto. —

8 Siamo a traverso.




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