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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XLIV.

Sentite che ggnàcchera.1

Io me ne vado dunque in Dataria.
Me presento a ’n abbate: — Abbia pascenza,2
(Dico): vorìa3 durighe de liscenza,
Pesposà mmicuggina Annamaria.4

 

Disce: — Fijjolo, si chiama dispenza. —
Basta (dico), sia un po’ cquer che sse sia... —
Disce: — Er zunome? — Dico: — Er mio?… Tobbia».
Disce: — Er casato suo? — Schiatti, Eccellenza. —

 

Ggià llei, (disce), lo sa:5 ppe’ li cuggini
Ce 6 sseiscentonovantotto scudi,
Quarantasei bbajocchi e ttre cquadrini... —

 

Figuret’io come me fesci7 in faccia!
Me credevo8 tre ggiuli gnudi e ccrudi,9
Com’er promesso10 per fuscil da caccia.

 

 

 

 




1 Sentite che bagattella. —

2 Abbia pazienza. —

3 Vorrei. —

4 E’ noto che nell’uffizio della Dateria si spediscono tra le altre dispense quelle per matrimonio fra parenti; le quali tanto più costano, quanto è più stretto il grado di parentela che lega i supplicanti, e quanto più sono ricchi; benché talvolta, per intercessione di persone influenti, si faccia grazia di una parte del prezzo. —

5 Nota la naturalezza di questo Ggià llei lo sa, che fa dell’Abate un vero maestro di furberia mercantesca. —

6 Ci vogliono. —

7 Feci. —

8 Sottintendi: che ci occorressero.

9 Nudi e crudi. —

10 Permesso.




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