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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XLVII.

’N odore de rivuluzzione.

Ce penzeranno lôro!1 — Ecco sti santi
Che cianno2 sempre in bocca, pe’-ddio-doro!3
E cco’ sto bbêr4 Ce penzaranno lôro,
Intanto cqui nun ze annà5 ppiù avanti.

 

Ma sti lôro chi sso’?…6 Si ttutti cuanti
Nun fannantro qui ddrento ch’un lavoro
De dormí, maggnà, bbéve, e ccantà in coro
Ma sti lôro chi sso’? l’appiggionanti?

 

Si le cariche a Rroma l’hanno tutte
Li portroni,7 sti lôro indóve stanno?
Dove stanno sti lôro? in Galigutte?8

 

Sai come va a ffiní? finissce poi
Che ssi sti lôro nun ce penzeranno,
Un po’ ppiú in cce penzaremo noi.

 

 

 

 




1 Ci penseranno loro, cioè: «ci penserà chi può, chi comandaPare che fosse il ritornello, con cui i clericali rispondevano a chi lamentava i danni del malgoverno de’ preti. —

2 Ci hanno. —

3 È una bestemmia mezzo velata, come peccristallina, potendosi intendere per Diodoro. Avrà di certo avuto origine quando il Sant’Uffizio condannava alla berlina sulle porte delle chiese, colla morsa alla lingua, i bestemmiatori. E poichè cade in acconcio, giovi qui ricordare che non v’è paese del mondo, dove si bestemmi tanto, quanto a Roma. —

4 Con questo bel. —

5 Non si può andare. —

6 Se. —

7 Poltroni. —

8 Calcutta.




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