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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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LI.

L’Inferno.

Si vvôi1 che tte lo dica chiaro e ttonno,2
Io nun ce pôzzo crede’3 ch’er Zignore4
Ch’ha fatto l’omo, ciabbi5 d’avé er core
De mannàllo laggiù nne lo sprofonno,

 

S’infrattanto che stane6 in de sto monno
Ar Papa nun créde’ e ar confessore,
E lla penza a ssu’ modo. — Sarvatore!7
Sta cosa nun me carza,8 e mme confonno.9

 

Disceva la bbônanima de zio,
Che ttanto er poverello ch’er riccone
Libberi in ner penzà10 lli fésce Ddio.

 

Si ar Papa nun je garba… In concrusione,
Bisognerebbe dì’, ssangue de bbìo,
Che nne sa più er Vicario, ch’er Padrone!11

 

 

 

 

 




1 Se vuoi. —

2 Chiaro e tondo. —

3 Non ci posso credere. —

4 Signore. —

5 Ci abbia. —

6 Sta. —

7 Salvatore: è il nome della persona con cui parla. —

8 Calza: non mi quadra. —

9 Mi confondo. —

10 Nel pensare. —

11 Il costrutto poco naturale delle due quartine e parecchi altri difetti ci fecero sospettare che questo sonetto non fosse del Belli, e infatti nessuno de’ suoi amici potè dirci di averlo udito mai dalla sua bocca.




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