- SONETTI CONSERVATI DALLA TRADIZIONE POPOLARE
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LIV.
Er tempo cattivo.1
—
Me sapressivo a ddì’ cche nn’è dder zole?
Accidenti!, dich’io: Cristo, ch’inverno!
E ppiove, e ppiove, e ppiove in zempiterno!
E cche ll’òmmini so’ rrote de mole?2
Ranocchie? granci teneri?3
sciriole?…4
So cch’è un penziero d’annàcce a l’inferno,5
Ma mme sta in testa a mme ch’er Padreterno6
Abbi7 dato de vôrta a le cariòle.8
De cqui nun z’esce: o er Padreterno è
mmatto,
O pe’ cquarche gran buggera ch’ha in testa,
Nun z’aricorda ppiù come scià9 ffatto.
Nun c’è antra raggione: o quella, o
questa;
O che, sinnò, ppe’ ffa’ ’na chiusa d’atto,10
Cojje a cchi cojje,11 e bbuggiarà cchi resta.
1 Questo sonetto è di
Francesco Spada romano, vivente, amicissimo del Belli; ed è tra i rarissimi che
sieno degni di andare per le bocche sotto il nome del Poeta romanesco. —
2 Ruote di mole. Pigliano la mola per il molino. Anche nell’Umbria
s’ode spesso: «Dove se’ jito? — So’ jito a la mola.» —
3
Specie di granchi, chiamati così, forse perchè sono più teneri di altri. —
4 Ciriuole. —
5 Intendi: «So che questo pensiero che ho io,
è tale da andarci all’Inferno; ma tuttavia lo dirò.» —
6
Variante: Ma in testa me sce sta ch’er Padreterno. —
7
Abbia. —
8 Dar di volta alle carriole, vale impazzire.
—
9 Ci ha. —
10 Fare una chiusa d’atto significa
«finir qualche cosa in modo straordinario;» dacchè gli atti al teatro finiscono
per lo più colla sparata, come i sonetti. Qui poi la metafora calza a
puntino, trattandosi della commedia che si chiama mondo. Una
variante di codesto verso suona così: Oppuro pe’ ddà ffine
all’urtim’atto. —
11 Coglie chi coglie, cioè: chi le tocca,
son sue; chi more, more. Variante: Chi cojje, cojje.
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