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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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LIV.

Er tempo cattivo.1

Me sapressivo a ddìcche nn’è dder zole?
Accidenti!, dich’io: Cristo, ch’inverno!
E ppiove, e ppiove, e ppiove in zempiterno!
E cche llòmmini sorrote de mole?2

 

Ranocchie? granci teneri?3 sciriole?…4
So cch’è un penziero d’annàcce a l’inferno,5
Ma mme sta in testa a mme ch’er Padreterno6
Abbi7 dato de vôrta a le cariòle.8

 

De cqui nun zesce: o er Padreterno è mmatto,
O pecquarche gran buggera ch’ha in testa,
Nun zaricorda ppiù come scià9 ffatto.

 

Nun c’è antra raggione: o quella, o questa;
O che, sinnò, ppeffa’ ’na chiusa d’atto,10
Cojje a cchi cojje,11 e bbuggiarà cchi resta.

 

 

 

 




1 Questo sonetto è di Francesco Spada romano, vivente, amicissimo del Belli; ed è tra i rarissimi che sieno degni di andare per le bocche sotto il nome del Poeta romanesco. —

2 Ruote di mole. Pigliano la mola per il molino. Anche nell’Umbria s’ode spesso: «Dove se’ jito? — Sojito a la mola.» —

3 Specie di granchi, chiamati così, forse perchè sono più teneri di altri. —

4 Ciriuole. —

5 Intendi: «So che questo pensiero che ho io, è tale da andarci all’Inferno; ma tuttavia lo dirò

6 Variante: Ma in testa me sce sta ch’er Padreterno.

7 Abbia. —

8 Dar di volta alle carriole, vale impazzire. —

9 Ci ha. —

10 Fare una chiusa d’atto significa «finir qualche cosa in modo straordinariodacchè gli atti al teatro finiscono per lo più colla sparata, come i sonetti. Qui poi la metafora calza a puntino, trattandosi della commedia che si chiama mondo. Una variante di codesto verso suona così: Oppuro peddà ffine all’urtimatto. —

11 Coglie chi coglie, cioè: chi le tocca, son sue; chi more, more. Variante: Chi cojje, cojje.




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