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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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ALL’ABATE PIETRO SOMAI

 

REVISORE TEATRALE.

[1825?]

 

Del sommo Pietro, Adamo del Papato,
Puoi dirti, Abate mio, fratel cugino
Abbietto nacque Pietro, e tal sei nato;
Pietro pescò nell’acqua, e tu nel vino.

 

Peccò colla fantesca di Pilato
E ne pianse col gallo mattutino;
Tu, colla serva tua quand’hai peccato,
N’hai pianto col cerusico vicino.

 

Pietro irato fe’strazio agli aggressori
D’un solo orecchio; ma tu sempre, il credi,
Ambo gli orecchi strazi agli uditori.

 

Giunto alfin Pietro ove tu presto arrivi,
Pose nel luogo della testa i piedi:
E com’egli mori, così tu vivi.

 

Allorquando morì Pio viii, che aveva pontificato soli venti mesi, una satira lo proponeva a modello al nuovo papa, e finiva così:

 

Se imitar nol saprete in tutto il resto,

Imitatelo almeno in morir presto!

 

*

* *

 

Un anno, per la festa di sant’Ignazio di Lojola, i padri gesuiti eressero nella loro chiesa un altare veramente splendido. Sopra la statua d’argento rappresentante il Santo, si vedeva il solito Padreterno di stucco. Un pasticcetto co’ li guanti, uscendo di chiesa, disse ad una signora: «Vada, vada al Gesù: c’è la statua di sant’Ignazio d’argento e un altare tanto bello, che lo stesso Padreterno n’è rimasto di stucco

 

*

* *

 

Un tal padre Lorini, in una sua predica aveva spiegato agli uditori come il fuoco del Purgatorio non sia vero, ma simbolico. Pare che questo modo di pascere le pecorelle non andasse a genio a’ guardiani superiori del gregge, e che perciò toccasse al frate una bella lavata di capo. Fatto sta, che sulla porta della chiesa dove predicava il Lorini, venne affisso un sonetto, che noi raccogliemmo mutilato com’è dalla bocca di un sartore. A’ versi che mancano supplisca la immaginazione de’ lettori: ex ungue, leonem!

 

Senza neppur di fuoco una scintilla
Ci pingesti, o Lorini, il Purgatorio
Dicesti, quasi in cella o romitorio
Starsi colà ogn’anima tranquilla.

 

Perdio! se fai cosi, come si strilla!
Addio messe, addio esequie, addio mortorio!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

 

E non sai tu che il fuoco de’ purganti,
Sorgente di dovizie al sacerdozio,
Fa bollir la marmitta a tutti quanti?

 

Deh, per pietà! dismetti un tal negozio,
E lascia come pria che gl’ignoranti
Ci mantengano i vizi in grembo all’ozio.

 

*

* *

Sotto il pontificato di Gregorio xvi, mentre era tesoriere il Tosti, e si facevano i prestiti con Rotschild al 65 per cento,1  il Governo sciupò una grossa somma di danaro per costruire una enorme fabbrica presso il porto di Ripetta, sulla sinistra del Tevere. Non piacque il disegno, e le male lingue dissero che l’architetto Camporesi ci aveva messo da parte un buon gruzzolo di pecunia. Checchè ne sia di questo, comparve una incisione rappresentante il Tevere che portava su le spalle il nuovo edifizio, e sotto v’erano scritte le parole del Salmo 128: «Supra dorsum meum fabricaverunt peccatores;» e poichè al primitivo disegno della fabbrica fu aggiunto un altro braccio, rieccoti il padre Tebro a proseguire collo stesso versetto: «et prolongaverunt iniquitatem suam.»

 

 

*

* *

Talvolta la satira si fa lecito di penetrare nel santuario delle pareti domestiche. Ciò non è bene; ma tuttavia non possiamo astenerci dal recarne un curioso esempio.

Un buon diavolo di avvocato condusse in moglie una giovane un po’ cervellina. Per un capriccio del caso, egli si chiamava Cesare, ed ella Roma. Il giorno delle nozze, l’avvocato trovò sulla porta di casa questo avvertimento:

 

cave, cæsar, ne roma tua respublica fiat.

 

Ei non era uomo da perdersi per così poco: staccò il cartellino, e ce ne mise un altro con questa risposta:

 

stulte! cæsar imperat.

 

Il satirico, che in furberia poteva dar dei punti al diavolo, vedendo quella risposta, vi scrisse sotto:

 

imperat?... ergo coronatus est!

 

L’avvocato non fiatò più.

 

*

* *

 

Allorchè, nel 1853, il celebre areonauta bolognese Piana morì per aria assiderato, il luttuoso caso fornì argomento a una satira, della quale non ricordo che pochi versi. Il Piana era andato personalmente dal Santo Padre a chiedergli il permesso di volar nel pallone, e Pio ix, concedendoglielo, aveva voluto per soprammercato impartirgli la benedizione apostolica. È noto che Pio ix ha fama di jettatore per eccellenza: ebbene, la satira diceva così:

 

Morì per l’aere l’infelice Piana,

Lottando con libeccio e tramontana.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ma già si prevedea un destin fatale.

Per l’alzata di Pio, che ha sempre male!

 

Il Papa fu dolente della morte del Piana, e certo dovette risaper della satira; perocchè pochi anni dopo, una signora chiese il permesso di fare un’ascensione, e le fu ricisamente niegato. Allora essa domandò che almeno le si desse facoltà di metter nel pallone una bestia qualunque — ben inteso che non portasse chierica; — e questo le fu concesso. La scelta cadde sopra una povera pecora, che fece la sua ascensione tra gli schiamazzi di una pazza moltitudine. Il pallone ricadde presso gli orti farnesiani, e il giorno vegnente, sui muri di quella contrada si trovò scritto a lettere cubitali:

 

Quest’anno è volata la pecora; st’altr’anno volerà il pastore.

 

Predizione che non si è, pur troppo, avverata!

 

*

* *

Quando nel 1857 Pio ix andò a fare il famoso viaggio per gli Stati felicissimi, all’atto della partenza, mentre saliva in carrozza, il grande elemosiniere di Cortevecchio monsignore, secentista per la pelle — gli diresse queste parole: — «Beatissimo padre! Voi partite bello e splendido come il sole che risplende in questa bella giornata, ed io vi auguro che torniate vegeto e grasso come la luna.» — «Che aritorna a quarti a quarti!» soggiunse nell’orecchio a’ compagni un trasteverino che per curiosità si trovava presso.

Arrivato a Sinigaglia o a Bologna, il Papa ricevette colla posta di Roma una lettera, nella quale era scritto: «Santo Padre!» e poi seguiva, senz’altro, il numero 610, che letto cifra per cifra, significa: «Sei uno zero Dicono che Pio ix; solito a ridere delle pasquinate, indovinando quel complimento, facesse un po’ la brutta cera.

 

*

* *

Nella Piazza di sant’Eustacchio, sopra un casotto dove la sera dell’Epifania si vendevano pupazzi pei bimbi, si videro scritte queste parole: «La ville de Paris.»

 

*

* *

Anche l’anagramma vanta a Roma i suoi cultori. La parola cardinali, per esempio, fu da tempo immemorabile voltata a significare ladri cani.

 

*

* *

Le iniziali R. C. A., poste sulla insegna di una prenditoria del lotto, e che significano Reverenda Camera Apostolica, vennero interpretate: Rubate, canaglia, allegramente.

 

*

* *

Durante la effimera Repubblica del ’49, nella farmacia di un tal Peretti stava un bel pappagallo, ammaestrato a dir villanie ai preti, quando li vedeva passare. Dopo la restaurazione del Governo pontificio, il povero animale fu catturato, e non se ne seppe più nuova. È probabile che finisse anche lui vittima delle feroci repressioni del Triumvirato rosso.1 Circolò allora una satira intitolata: Il Pappagallo di Peretti mandato in esilio dalla Commissione governativa; satira che fu letta avidamente, e che, non ostante la soverchia prolissità e la trascuratezza della forma, è bella per molti passi in cui è toccata la vera corda del ridicolo, e per un affetto vivo e direi quasi disperato sulle sventure d’Italia. Leggendola, ti accorgi subito che non fu scritta da un poeta laureato; e perciò la riferisco quasi per intero, a comprovare sempre più quel che ho detto in principio, che cioè a Roma si nasce coll’epigramma sulle labbra.

La satira comincia così:

 

O dei volatili

Pinto drappello,

Odi la storia

D’un tuo fratello.

Nella romulea

Città beata,

Dal suo Pontefice

Infranciosata,

Era bellissimo

Un pappagallo,

Bianco, porpureo

E verde e giallo.

Presso d’un chimico

Laboratorio,

Cantava i scandali

Del fu Gregorio.

Era satirico

Motteggiatore,

 

E de’ retrogradi

Persecutore.

Vedea canonici,

Frati e piovani?…

Gridava subito

«Razza di cani

Un battendosi

Vita per vita,

Beccò la chierica

D’un gesuita.

Siccome indigeno

Americano,

Era fierissimo

Repubblicano;

Quindi in sua stridula

Lingua nativa,

Alla Repubblica

Cantava evviva.

 

Ma ecco, un bacchettone va e riferisce al Triumvirato rosso che il pappagallo ha dato dell’apostata a papa Mastai. Le eminenze, sorprese del novissimo caso e dell’audacia della bestia,

 

Cospetto! (esclamano)

Anche gli augelli

In questo secolo

Sono rubelli?

È un sacrilegio

Con malefizio:

 

 

Bisogna chiuderlo

Al sant’Uffizio.

è bestia eretica,

Indemoniata,

In cœna Domini,

Scomunicata. —

Ma cessato questo primo bollore di collera, le eminenze si accorgono d’aver detto spropositi:

 

Ah! no, alle bestie

Non istà bene

Dar la scomunica

In bulla cœna. —

Ebben (ripiglia

Il Della Genga),

Ad un rimedio

Dunque si venga:

Vada in esilio

Fuor degli stati,

A far combriccole

Cogli emigrati

— In Christo Domino

Cari fratelli,

(Rispose il bambolo

Di Vannicelli),

Io per l’ergastolo

Ho più passione;

 

 

Questo volatile

È un demagogo;

Senza giudizio,

Si danni al rogo. —

— Non è più l’epoca

D’esser severi

(Disse il patrizio

Mistico Altieri

Questa è politica

Punizione!

E qui la trïade

Dissenziente

Ai voti appellasi

Inimantinente.

Fu per l’esilio

La maggioranza,

D’appello o grazia

Senza speranza.

 

E a questo punto il poeta compiange la sorte del povero pappagallo, il quale non troverà un lembo di terra che lo accolga nella sventura. «Se tu vai in Austria, gli dice, ti rinchiudono nello Spielbergo. In Inghilterra, son tutti mercanti e ti venderebbero per pochi soldi. In Ispagna, c’è donna Isabella, che ama gli uccelli, è vero, ma senza favella. Se torni in America, i tuoi compagni ti fischiano. Dunque, dove si va? Ah! ecco, è trovata! In Francia. Ma che! tu ridi? Orsù, ascoltami:

 

Di’: per qual crimine

Ti dan lo sfratto?

Per le tue chiacchiere,

Per nessun fatto.

Ebben, tal genere

Di crimenlese

É proprio il genio

Di quel paese.

Colà, di chiacchiere

E cicalate

Si fa commercio,

E son pagate.

Thiers, il celebre,

Con che s’aiuta?

Colla linguaccia

 

 

Che s’è venduta!

. . . . . . . . . . . . . .

E i capocomici

Dell’Assemblea

Non fanno vendita

Di panacèa?

v’è commedia

Ogni momento,

Sotto il bel titolo

Di parlamento.

Chi più sofistica

Ha più ragione,

E chi più strepita

È un Cicerone.

le bestie fanno fortuna, e ve n’ha di tutte le razze:

 

Bestie che rodono

Tozzo plebeo;

Bestie che vestono

Da generali;

Bestie che gracchiano

Da curiali;

Bestie che nacquero

Presso del soglio;

Bestie che rubano

Il portafoglio.

. . . . . . . . . . . . .

E non è l’ultimo

In tal corteggio

L’eminentissimo

Duca di Reggio.

Di Roma il lauro

Porta sul fronte,

Generalissimo

Rinoceronte.

E de’ suoi militi

Alla presenza

Legge il chirografo

Dell’indulgenza

Che il gran Pontefice

Scrisse a que’ bravi

Che combatterono

Per le sue chiavi.

 

 

Bestie che ingrassano

Nell’Eliseo;

Oh! dolce premio

Di sacre mani,

Per un esercito

Di sagrestani!

Ma la grossissima

Bestia potente,

Della Repubblica

È il Presidente.

Bestia cattolica,

Belligerante,

Nella politica

È un elefante.

Ei scrive lettere,

Détta messaggi;

Ma ci si nettano

Ministri e paggi.

Vorrebbe l’aquila

Di quel divino...

Ma un teschio d’asino

Gli sta vicino.

Cerca la celebre

Spada fatale,

Ma stringe il manico

Dell’orinale!

Va dunque, mio pappagallo; chè , fra tante bestie, farai fortuna tu pure:

 

Vanne, e salutami

La grande armata,

Che già s’esercita

Alla parata.

Saluta i poveri

Nostri emigrati

E i democratici

Perseguitati.

E, se d’Italia

Parlar ti lice,

Narra lo strazio

Dell’infelice!

Di’... ma deh! lascia,

Per carità!

Neppur un’anima

T’ascolterà.

 

 

 

Narra l’infamia

Di Rostolano,1

Che a feccia d’uomini

Diede la mano:

E de’ suoi militi

Narra lo scempio,

Ridotti ad essere

Sgherri del tempio.

Di’ ch’essi baciano

I delatori,

E il pan dividono

Coi monsignori;

v’è politica

Senza ragione,

E babilonica Confusione.2

. . . . . . . . . . . . .

 

 

*

* *

Nel luglio 1860, fece chiasso una satira contro il generale Lamoricière buon’anima. Tutti ne sapevano a memoria qualche brano, e l’andavano ripetendo nei luoghi degli amichevoli convegni. Oggi parrà una freddura a chi non si riporti coll’animo a que’ giorni d’ira, di speranza e di trepidazione.

Eccola:




1 Vedi la nota 5 al sonetto Er zervitore de Monziggnor tesoriere.

1 Così chiamarono i romani la Commisione governativa, incaricata di mettere la testa a partito ai liberali del 48 e 49, e composta de’ cardinali Altieri, Della Genga e Vannicelli.



1 Rostolan, generale succeduto all’Oudinot nel comando dell’esercito francese in Roma.



2 Molte belle varianti di questa satira, le devo alla cortesia dell’egregio professore Francesco Mancini di Terni.






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