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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XXVI.

Le spille.

 (27 novembre 1832)

Chi ddà una spilla a un antro che bbene,1
Se perde l’amiscizzia in pochi ggiorni;2
Er zangue je se guasta in de le vene,3
E vvatte a rripescà cquannaritorni!4

 

Si ssosgrinfi,5 principieno le pene:
Si ssosposi, cominceno li corni:
E ggià in un mese de ste bbrutte scene
N’ho vviste cinqu’o ssei da sti contorni.

 

Ne li casi però ch’in testa o in zeno
D’appuntàvve un zocché,6 ssora Cammilla,
Nun potessivo fànne condimeno,7

 

A cquela mano che vve esibbìlla,8
Dateje, pe ddistrùgge’ sto veleno,
’Na puncicata9 co’ l’istessa spilla.10

 

 

 

 

 




1 A cui vuol bene. —

2 La sintassi degli antecedenti due versi dia un saggio della reale dei romaneschi. —

3 Guastarsi il sangue verso di alcuno, vale «prenderlo in odio.» —

4 Vatti a cercare quando ritorni in salute. —

5 Amanti. —

6 Un non so che. —

7 Farne a meno. —

8 Vuole esibirla. —

9 Puntura. —

10 Dimorando a Roma, ricordo di aver udito più volte dalla bocca di donne, che non erano femminette, questo curioso pregiudizio. Del resto, ho già avvertito in più luoghi che il nostro Poeta copiava sempre dal vero.




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