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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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LI.

La lezzione der padroncino.

 (8 aprile 1834)

 

Mo hanno messo er più fijjo granniscello1
A la lingua itajjana. Oh ddì’, Bbastiano,
Si2 nun ze chiama avé pperzo er cerbello
D’imparà l’itajjano a un itajjano.

 

Lo sento sempre co’ un libbraccio in mano
Dì’: «Er fraggello, ar fraggello, cor fraggello,
Der zurtano, er zurtano, dar zurtano…»
E ’ggnisempre3 sta storia, poverello!

 

Sarà una bbella cosa, e cquer che vvôi;
Ma a mme me pare, a mme,4 cche ste parole
Socquellistesse che ddiscémo5 noi.

 

Si ffussino indiffiscile6 uguarmente
Come che llantri7 studî de le scôle,
Io nu’ ne capirebbe8 un accidente.9

 

 

 

 

 




1 Il figlio più grandicello. —

2 Se. —

3 Ogni sempre; sempre. —

4 Ma a me mi pare, a me: ripetizione efficace e d’uso frequente. —

5 Diciamo. —

6 Se fossero difficili: e qui notisi che i nomi femminili che nel singolare escono in e, ritengono la medesima desinenza nel plurale, quasi che la naturale ideologia de’ romaneschi temesse di cambiar sesso alle cose, dove accettasse la desinenza in i. —

7 Gli altri. —

8 Capirei. —

9 Equivale a nulla.




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