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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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A Lamoricière.

 

Secura all’egida

basta; a crescere

Del grande intrigo,

D’un buon boccone

Pescato al Mincio,

La mensa olimpica

Fritto a Zurigo,

Del re ghiottone,

L’Italia in fieri,

Empî! Allungarono

Dall’Arno al Po,

Le mani ladre

Mandava a rotoli

Sul patrimonio

Lo statu quo.

Del Santo Padre.

Tolti al benefico

E per difendere

Protettorato

L’atto nefando,

Dell’illustrissimo

Con san Crisostomo1

Signor Croato,

Vanno esclamando

I nuovi popoli,

«Che col dominio

Ormai padroni

Spirituale

Di dire al pubblico

Non dee confondersi

Le lor ragioni;

Il temporale

Stracciando il codice

Forse il Crisostomo

Del gius divino

Avrà ragione:

Ad un sacrilego

Ma nel pericolo

Re giacobino

D’una quistione,

S’immaginarono

Potean, servendosi

D’offrire in dono

D’un mezzo accorto,

Di tre legittimi

Salvare i cavoli

Sovrani il trono.

A un tempo e l’orto.

Se incompatibili

Scomunicati

Fra lor pur sono,

Mangiano e bevono

Come pretendesi,

Come prelati;

L’altare e il trono;

Pensò che il provvido

Nel bivio orribile

Metodo antico;

Dovean, mi pare,

A’ che corrono,

Anzi che il soglio

Non vale un fico;

Minar l’altare;

E che a decidere

E il buon Pontefice,

L’ardua quistione,

Serbando illesa

Meglio che il canone,

La parte solida

Giova il cannone.

Della sua Chiesa,

Ed ecco un sùbito

Non sconcertavasi

Grido di guerra

L’umor sereno

Dall’ime viscere

Per un eretico

Scuote la terra:

Di più o di meno

Monsignor d’Òrleans

Ma perchè l’avido

Sulla gran-cassa,

Re subalpino,

Sbuffando, predica

In barba a’ lasciti

La leva in massa.

Di san Pipino,

All’apostolico

S’è messo in animo,

Suon de’ baiocchi,

Povero allocco,

I sacri militi

Di far l’Italia

Scendono a fiocchi

Tutta d’un tocco;

In lor le belliche

Il Re-Pontefice,

Fiamme ravviva

A fin che il santo

D’altre Perugie

Dogma del quindici

La prospettiva.

Non vada infranto,

Potea benissimo

Nella sua collera

Di Dio il Vicario

Diede di mano

Sparmiar nel critico

All’armi emerite

Caso l’erario,

Del Vaticano.

Chiamando d’Angeli

Fu tutta polvere

Una legione,

Bruciata al vento!

Col solo incomodo

Il sacro fulmine,

D’un’orazione;

Scoppiato a stento,

Ma fatto il calcolo

Fe’ come un razzo

Così all’ingrosso,

Artificiale:

Che, grazie al fervido

Molto fracasso

Slancio ortodosso,

E verun male.

Le pie limosine

Visto che l’empia

Saldan l’ingaggio,

Sïon non crolla

E il Lloyd austriaco

Sotto le scariche

Provvede al viaggio;

Della sua Bolla;

Trovò più comodo,

Visto che i reprobi

Per ora almeno,

Farsi un esercito

Ne’ che furono,

Tutto terreno,

Tinto il cervello

E l’economica

Di certe massime

Del ciel caterva

Di Jon Russello,

Serbòlla in pectore

Colpì d’anatema

Come riserva.

La grand’impresa

Tedeschi, Svizzeri

Ch’a’ vecchi cardini

Belgi e Spagnuoli

Tornò la Chiesa.1

S’urtan, s’affollano

Ma dopo il celebre

Ne’sacri ruoli;

Colpo di Stato,

Commosso a’ gemiti

Di Dio la grazia

Del Papa-re,

Gli scese allato;

Tira la sciabola

E visto in pratica

Perfin Noè.2

Qual magro pane

Ma in mezzo al balsamo

Fruttin le fisime

Che versa Iddio

Repubblicane,

Sul beatissimo

Curvò lo spirito

Cuore di Pio,

Alla morale

Un pensier torbido

Del santo foglio

Ahi! lo molesta

Pagatoriale;

A tante braccia

E, l’onta a tergere

Manca la testa.

Dell’ex-peccato,

Via, non affliggerti,

Sublime apostata,

O santo Padre,

Si fe’ crociato.

S’ancora acefale

Viva lo scettico

Son le tue squadre:

Scudo romano,

Fede e coraggio,

Che metamorfosa

Coraggio e fede,

Bruto in Sejano,

Dio le tue angustie

E il bonnet frigio

Vede e provvede.

Del quarantotto,

De’ campi d’Affrica

Nella calottola

Noto campione,

Di don Margotto.

Disceso al règime

Il nuovo esercito

Della pensione,

Ha omai la testa:

Sotto le tegole

Campane ed organi,

D’un quinto piano

Suonate a festa;

Marciva un pseudo -

Ballate, o vescovi.

Repubblicano.

sulla Senna;

O fondi pubblici,

Bastò a Sansone,

Crescete a Vienna.

Che non può vincere

Rotta dal turbine,

L’eroe d’Algeri

Ritorna in squero

Con un esercito

La venerabile

D’asini interi?

Barca di Piero;

Che se l’elettrico

Più non pericola

Del patrio amore

Il roman soglio

A’ tuoi satelliti

L’oca già vigila

Non scalda il core,

In Campidoglio.

Su! galvanizzali,

Vieni, spes unica

Poveri grami,

Del Padre santo:

Colle cantaridi

Calma il suo spirito,

De’ tuoi proclami.

Tergi il suo pianto;

«La democratica

Vieni, coordina,

Idra infernale1

Addestra all’armi

Tira a sconvolgere

L’orda babelica

L’ordin sociale

De’ suoi gendarmi.

Fuoco alla miccia,

Un per opera

Avanti... Urrah!

Dell’uom divino,

Papa è sinonimo

L’acqua, oh miracolo!,

Di civiltà.

Cangiòssi in vino

Sol perchè in tenebre

Ma tu, corbezzoli!,

L’orbe non cada,

Quanto più bravo,

Snudo la ruggine

Muti un austriaco

Della mia spada,

In un zuavo.

E un’altra medito

Va, dunque, visita

Nuova Farsalia

Pesaro e Ancona

Per questi barbari

Col fiero vescovo

Turchi d’Italia.

Di Carcassona;2

Putti, coraggio!...3

Fa campi, edifica

Dal Vaticano

Ridotti e forti,

L’almo Pontefice

E alfin sguinzaglia

Su voi la mano

Le tue coorti.

Stende, e vi smoccola

Se l’empia a sperdere

Giù dal balcone

Oste d’Ammone

La sua apostolica

Un pezzo d’asino

Benedizione...

» Su dunque, impavidi!

Scomunicate,

Dai chiusi valli

E i nostri martiri,

Si scaraventino

D’un tiro solo,

Fanti e cavalli,

Lassù fra gli angeli

E il sacro intuonino

Spiccare il volo.

Inno guerriero:

Putti, coraggio!

Morte all’Italia,

Datevi drento

Viva san Piero.

Sangue d’eretici,

Viva il collegio

Sangue d’armento;

Cardinalizio,

Su! Massacrateli

Viva la fiaccola

Senza pietà:

Del Sant’Uffizio;

Papa è sinonimo

Viva la chierica,

Di civiltà

Viva la tiara,

Così, dal sudicio

Viva il battesimo

Limo deterso

Dato a Mortara!

Questo bell’angolo

Che val se irrompono

Dell’universo,

Da tutt’i lati

Strappato all’unghie

Quanti ha l’Italia

Della rivolta,

Armi ed armati?

Ritorni in floribus

Fuoco alla miccia

Un’altra volta.

Avanti... Urrah!

Tornino i Principi

Les Italiens

Diseredati

Ne se battent pas.

Alla legittima

Il suon terribile

De’ loro stati;

Di questi accenti

Tornino i popoli

Scuote gli esotici

Al solvo al quiesco,

Tuoi reggimenti,

Sotto la ferula

Che in coro mugghiano  

Del buon Tedesco.

Avanti... Avanti,

E a te benefico

In tutt’i diapason

Genio immortale,

Del Mezzofanti.1

Che nuovo Cerbero

Già mugge il turbine

Del Quirinale,

Della battaglia,

Ringhiando vigili

Già i bronzi eruttano

Papa e Papato,

Palle e mitraglia,

Qual degno premio

E le sacrileghe

Ti fia serbato?

Orde rubelle

Forse a’ tuoi meriti

Il sangue versano

Pronta giustizia

A catinelle.

Farà la porpora

Già veggo il diavolo

Cardinalizia?

A cappellate

Nel calendario

Insaccar l’anime

Forse porranti,

La cifra a crescere

Per piedestallo

Degli altri santi?

E sotto, a lettere

Queste serbandoti

Da cartellone,

Glorie modeste,

Vi farei incidere

Io vorrei fondere

Quest’iscrizione

L’alte tue geste

Sub Antonellico

In una statua

Pii noni imperio,

D’aureo metallo

Posuit Ecclesia

Col monte Pincio

Lamoricerio.

 

L’autore di codesta satira è ignoto: ma è senza dubbio romano, e la somiglianza dello stile fa supporre che sia quello stesso della Satira del Pappagallo. — Questo nascondersi degli autori ha per cagione principale il pericolo cui andrebbero incontro rivelandosi; ma dipende anche in parte da una certa ritrosia che hanno tutti i Romani dal far pompa del loro genio satirico, che per essi è cosa comune e naturale. A Roma la satira non è un oggetto di lusso, ma un’arma come qualunque altra per ferire il Papato; perciò nessuno se ne fa bello, allo stesso modo che il soldato, se non è un imbecille, non fa mostra della sua spada, e quasi non s’accorge d’averla a fianco.

Il dispotismo politico e religioso ha imbastardito a Roma l’eloquenza, la lirica, il romanzo, la drammatica, la storia e ogni altro genere di letteratura;1 ma ha fornito largo pascolo alla satira, ed ha fatto dei Romani il popolo più satirico del mondo2; tanto più satirico d’ogni altro popolo, per quanto il Papato è peggiore d’ogni altro governo. E finchè Roma non si sia rivendicata in libertà, la satira politica continuerà a prosperarvi; perciocchè un governo come quello de’ papi troverà sempre coscienze sdegnose che gli si ribelleranno, e che, non potendo altrimenti, faran prova di finirlo col ridicolo. Pasquino non può morire che col Papato!

 




1 Homel.:85, C.v. Matt. §54.



1 Il 16 aprile 1849 il generale Lamoricière alla Tribuna dell’Assemblea nazionale deplorava di non poter salvare la Repubblica di Mazzini, e non accettava la spedizione di Roma, che allo scopo di salvare almeno la libertà di quel paese.



2 Il visconte di Noé, pensionato tenente colonnello di cavalleria francese, nel mese d’aprile pigliò servizio nell’esercito papale.



1 «La rivoluzione, come altra volta l’Islamismo, minaccia oggi l’Europa. La causa del Papato è quella dell’incivilimento e della libertà del mondo.» — (Proclama dell’8 aprile 1860.)



2 Monsignor Bonillerie, che accompagnava sempre il Lamoricière.



3 Nel linguaggio birresco, la parola putti corrisponde al soldatesco mes enfants.



1 Celebre poliglotto.



1 Non mi è ignoto che parecchi Romani onorano le lettere italiane; ma pochi fiori non fan primavera, e resta sempe vero che coll’Indice, colla Censura, e col Sillabo, la sola satira può prosperare.



2 Una ricca raccolta di satire romane, nel mentre sarebbe un prezioso documento storico, rileverebbe una faccia quasi nuova del genio del popolo, e messa di costa alle fiabe, a’ canti e a’ proverbi, completerebbe la collana della letteratura popolare. — Quella intitolata Pasquino e Marforio, che ho citato più volte, è troppo incompleta e non risponde al bisogno.






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