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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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LXIX.

Li pericoli der temporale.

 (13 gennaio 1835)

Santus Deo, Santus fòrtisi,1 che scrocchio!2
Serra, serra li vetri, Rosalia;
Chè, ssarvoggnuno, viè una porcheria,3
Te sfraggne,4 nun zia mai,5 com’un pidocchio.

 

Puro6 lo sai quer c’aricconta zia
Ch’assuccesse a la nonna der facocchio,
Ch’arrivò un tôno e la pijjò in un occhio,
Che mmanco poté ddìggesummaria.

 

E la soscera7 morta de Sirvestra?
Stava affacciata; e cquella je disceva:
— Presto, chè ssarifredda la minestra. —

 

E vvedenno8 che llei nun ze9 moveva,
L’aggnéde10 a stuzzicà ssu la finestra...
Cascò in cennere llì ccocquanto aveva!11

 

 

 

 

 




1 Sanctus Deus, sanctus fortis ec., trisagio angelico che si recita, segnandosi, al balenare o allo scoppiar del tuono. —

2 Quasi croccamento; lo scoppio elettrico. —

3 Fulmine. La plebe ha ripugnanza di chiamarlo col suo nome. —

4 T’infrange. —

5 Non sia mai. —

6 Pure. —

7 Suocera. —

8 Vedendo. —

9 Non si. —

10 L’andò. —

11 Crede il nostro popolo che il fulmine passando presso una persona la incenerisca, lasciandole nulladimeno tutte le forme del corpo e delle vesti, che si dissolvano poi al minimo urto.




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