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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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LXXXIX.

Er pupo.

 (20 settembre 1835)

Ajo,1 commare mia, ajo che ffiacca!2
Tenéllo3 tutto er zanto ggiorno in braccio!
Mai volé sta’4 in ner crino!5 mai per laccio!6
Io nu ne pôzzo ppiù: ssoppropio stracca.

 

Lo vedete? Mo adesso me s’attacca
E mme la tira inzin che nun è un straccio.
Uf, che vvita da cani! oh cche ffijjaccio!
Làssala, ciscio, via: fermo, ch’è ccacca.

 

Bbasta, Pietruccio mio, bbasta la sisa.7
Dajjela un po’ de pasce8 a mmamma tua...
Ecco er pianto. Che ggioia, eh sora Lisa?

 

Ssì, ssì, mmo jje menàmo ar cattivello.9
Bbrutta sisaccia, c’ha ffatto la bbua
A li dentíni de Pietruccio bbello.10

 

 

 

 

 




1 Ahi! —

2 Quale fiacchezza. —

3 Tenerlo. —

4 Voler stare. —

5 Crino, è quel cesto a campana, entro cui si pongono i bambini perchè si addestrino a camminare di per stessi, senza cadere. —

6 Il laccio che loro si attacca dietro le spalle onde sorreggerli nel camminare. —

7 Poppa. —

8 Dagliela un poco di pace. —

9 Al putto. —

10 Così fin dai primi momenti della vita, si principia da alcune madri ad educare i bambini alla vendetta delle reali offese e delle immaginarie, contro gli animati esseri e gl’inanimati.




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