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Giuseppe Gioachino Belli Duecento sonetti in dialetto romanesco IntraText CT - Lettura del testo |
III.
Da quanto abbiamo discorso fin qui, si può logicamente dedurre che per guadagnarsi il nome di poeta satirico in Roma, dove tanti sono i maestri di finissima satira, bisogna aver toccato il sommo dell’arte. E questo può dirsi di Giuseppe Gioachino Belli, i sonetti del quale s’odono sulle bocche di tutti i Romani, e formano anche oggi, come quarant’anni fa, la delizia delle loro conversazioni. È una prova un po’empirica, se vogliamo, ma la più certa che possa darsi del valore di questo poeta.
Egli nacque a Roma nel settembre del 1791, e rimasto in tenera età orfano del padre, dovette sul più bello abbandonare le scuole, per darsi a qualche occupazione lucrosa, dacchè un suo zio, che l’ospitava, pare non avesse modo o volontà di mantenerlo.
Fu scrivano-apprendista nella computisteria del principe Rospigliosi, e in quella delli Spogli ecclesiastici; poi segretario del principe Poniatowski, dalla casa del quale uscì per ritirarsi in un convento di Cappuccini, dove più liberamente potè attendere agli studi letterari, consacrando tuttavia una parte del suo tempo a dar lezioni private di grammatica italiana, di geografia, di aritmetica, e persino all’umile ufficio di copista di scritture forensi, affine di procacciarsi quel tanto che gli bisognava per pagar la dozzina a’ frati, e provvedersi di libri e di vestiario.
In quel tempo all’incirca, anche il Parini (che sempre aveva vissuto meschinamente, e dicono facesse anch’egli l’amanuense) versava nelle maggiori strettezze, e scriveva quel Capitolo, diventato poi famoso, in cui pregando il canonico Agudio a prestargli dieci zecchini, esclama:
......... Ch’io possa morire,
Se ora trovomi avere al mio comando
Un par di soldi sol, nonchè due lire.
Limosina di messe Dio sa quando
Io ne potrò toccare, e non c’è un cane
Che mi tolga al mio stato miserando.
La mia povera madre non ha pane
Se non da me, ed io non ho danaro
Da mantenerla almeno per domane.
Versi che fanno piangere, perchè al certo furono scritti piangendo. E poco prima del Parini e del Belli, Gian Giacomo Rousseau aveva copiato musica per campare la vita.
Dalla rivoluzione del 1789 al trattato del 1815, fu un avvicendarsi di fatti così grandi e così strani, un succedersi così rapido di speranze e disinganni, e direi quasi una fantasmagoria storica tanto bizzarra, che chi visse quel solo breve periodo, poteva già dire di averne vedute più assai di Matusalemme.
In tempi così burrascosi, i cervelli un po’ deboli per natura perdono facilmente la bussola, e mal reggendo agli scotimenti subitàni, finiscono per diventar pancotto; ma i cervelli robusti, nella lotta che durano per rendersi ragione di quanto avviene intorno a loro, s’aguzzano e s’ingagliardiscono maggiormente, e v’acquistano tesori di esperienza. E sotto questo rispetto, il Belli fu fortunato. Da fanciullo egli udì raccontare e forse novellare della grande Rivoluzione, e poi sotto ai suoi occhi (proprio negli anni in cui le forti impressioni lasciano nell’anima un’impronta indelebile) vide svolgersi tutto quel dramma meraviglioso che ha per protagonista il primo Napoleone; e fu spettatore, e fors’anco dal canto suo attore, della lotta gigantesca che s’andava combattendo tra il medio e il nuovo evo. Le libere idee che dalla Francia irrompevano in Italia, per quanto si tirassero dietro un brutto codazzo di crudeltà e di ruberie, dovevano far breccia nell’anima ardente di lui ch’era allora sul fiore degli anni. Quando s’è giovani, il cuore ha un palpito per ogni cosa nuova che abbia un lato generoso; si può esser sognatori, fanatici, rompicolli e peggio, ma codini, no, grazie a Dio! Il codinismo è una delle tante malattie che vengono in groppa agli anni, e que’ pochi fanciulloni castrati de’ nostri giorni sono rare e compassionevoli eccezioni.
Roma a que’ tempi era quasi in pieno medio-evo basti dire che vi si continuava a dare nel pubblico Corso il tormento della corda,1 e si tollerava ancora la barbara costumanza di evirare i bambini, per farli poi adulti cantare in chiave di soprano nella Cappella Sistina; non ostante che un papa, Clemente iv, verso il 1266, avesse fulminato la scomunica contro gli autori d’una speculazione tanto ladra e snaturata. — Un po’ di Censura e di Sant’Ufficio provvedevano a mantener fitte le tenebre; quindi la nova luce che veniva d’oltr’Alpi, doveva maggiormente commovere chi viveva laggiù.
L’essere stato costretto ad abbandonare le scuole, dopo avervi appreso quel tanto che basta per dare l’aìre al giovine che sente nell’animo l’inclinazione allo studio, deve reputarsi buona ventura del Belli; perchè così si avvezzò per tempo a studiare da sè, che sarà sempre l’unico modo di farsi uomo e non pappagallo; e doppia ventura fu per lui la miseria, madre provvidamente austera di grandi uomini e di grandi nazioni. Fu dessa che privandolo fin da giovinetto d’ogni comodità della vita, lo spinse al lavoro, e cagionandogli dolori ineffabili, gli aprì il cuore a’ nobili affetti; e ponendolo a contatto con ogni classe di persone, gli sviluppò quella naturale tendenza allo studio minuto degli uomini e delle cose, che doveva poi essere il carattere più spiccato del suo ingegno. Tant’è: senz’aver goduto e dolorato molto; senza aver letto molte pagine, e belle e brutte, di quel gran libraccio che si chiama mondo, non si diventa scrittori di qualche valore. A questo riguardo, i poveri son più fortunati dei ricchi, e il Belli per propria esperienza, in un’epistola al pittore bolognese Cesare Masini, scriveva:
Fra pompe ed ozi; che sol cerca e
prezza,
Credi, Cesare mio, che assai di rado
Consigliera di studî è la ricchezza.
Il giovinetto, il sai, quanto a
malgrado
Pieghi a’ travagli, sì che poi rimane
Di qua dal fiume per terror del guado.
Né il ricco ha presso da sera e da
mane
La sollecita madre che gli dica:
— Studia, figliuolo mio, buscati il pane. —
Mal per onor si adusa alla fatica
Ventre satollo; in sugli aviti campi
Il grande ha il poverel che lo nutrica.1
Divenuto marito d’una ricca e giovine vedova che s’era invaghita di lui, il nostro poeta ebbe agio di dedicarsi tutto agli studi prediletti; si perfezionò nella conoscenza del latino, dell’inglese e del francese; scrisse un gran numero di poesie italiane2 e più di duemila sonetti3 in dialetto romanesco, nei quali fece suo il linguaggio e il genio satiro del popolo romano; così che riusciva ad un tempo scrittore di dialetto da porsi allato al Meli, al Porta e al Brofferio, e poeta satirico non secondo a nessuno per lo scopo civile cui mirava con una parte de’ suoi sonetti.