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Giuseppe Gioachino Belli Duecento sonetti in dialetto romanesco IntraText CT - Lettura del testo |
Un critico di professione, arrivato a questo punto, metterebbe fuori Dio sa quante parole sesquipedali, per dimostrare dove stia il bello poetico di codesti sonetti. Io andrò per la più corta, e dirò: —Signor lettore, conoscete il dialetto e il popolo di Roma?
No. — Dunque voi, leggendo i sonetti del Belli, vi trovate nel caso di chi osserva un ritratto, senza conoscerne l’originale: può giudicare del colorito, del disegno e d’altri accessori, ma non della prima dote, che è la verosimiglianza. — Ora supponiamo per un momento che voi andaste a Roma (con patto che ci andaste da voi, senza aspettare che vi ci conduca il Governo italiano). Passando per una via qualunque della nostra Capitale di diritto, v’imbattete in una povera accattona, e affrettate il passo per ischivarla. Ella se ne accorge, capisce il vostro debole, è già sicura del fatto suo: vi si affila dietro con un bimbo sul braccio sinistro e con due più grandicelli attaccati alla vesta, che la seguono a stento, non passibus æquis direbbe Virgilio; e tendendovi la destra e articolando le parole con prestezza e querula petulanza, vi recita questa litania, finchè non l’abbiate accontentata:
Bbenefattore mio, che la Madonna
L’accompagni e lo scampi da ogni male,
Dia quarche ccosa a sta povera donna
Co’ ttre fijji e ’l marito a lo spedale.
Me la dà? me la dà? ddica, eh?
rrisponna:
Ste crature so’ ignude tal’e cquale
Ch’el bambino la notte de Natale
Dormimo sott’a un banco a la Ritonna.1
Anime sante!2 se movessi un
cane
A ppietà! Armeno ce se movi lei,
Me facci prenne un bocconcin de pane.
Signore mio, ma ppropio me la merito
Sinnò, davero nu’ lo seccherei
Dio lo conzoli e jje ne renni merito.
Codesto, signor lettore, è un sonetto del nostro Belli, scritto in vettura dall’Osteria del fosso alla Storta, il 13 novembre 1832.1 E quale è il suo massimo pregio? Quello stesso d’un ritratto: la perfetta verosimiglianza. La poverella avrebbe detto niente più e niente meno di quelle parole; il poeta le ha ordinate, le ha costrette in quattordici versi, ma senza stirarle o snaturarle, e facendo uscire la rima da una combinazione tutta spontanea. Ecco il magistero del Belli. E questa può chiamarsi poesia? A me pare di sì, poichè i critici dicono che anche nella riproduzione del reale v’è creazione fantastica, dovendo il poeta ricreare coll’immaginazione le cose udite o vedute.
Quasi tutti i sonetti del Belli rappresentano una piccola scena, di cui è sempre protagonista un popolano; e però le osservazioni fatte sul sonetto della poverella, valgono per tutti gli altri, che sono ugualmente pregevoli. Ma meglio che isolati, giova riguardarli come parti di un tutto armonico, come altrettante scene di uno stesso dramma, il quale — potrebbe intitolarsi Carattere e vita della plebe romana. E perciò mi astengo dal recare in mezzo altri esempî, tanto più che il lettore, voltando poche pagine, può veder da sè il fatto suo.