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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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VI.

 

Ma nella sua giovinezza il Belli mirò anche a più alto scopo, che non fosse quello di ritrarre la vita e il carattere del popolo romano. Egli era conoscitore profondo di quel complicato organismo, che si chiama Governo de’ papi; e con una serie di sonetti satirici ne mise a nudo e ne flagellò senza pietà le vergogne e le infamie. Dal papa all’abatucolo, dall’inquisitore al birro, dalla Curia alla sacristia, dalla scomunica all’indulgenza, il Belli versò a piene mani il ridicolo su tutti e su tutto. Parecchi de’ suoi sonetti politici hanno perduto il pregio fatto loro dalla opportunità; e per gustarli oggi, bisogna riportarsi coll’immaginazione al tempo e alle occasioni in cui furono scritti; ma la maggior parte sono opportuni adesso, come lo erano cinquant’anni fa; perocchè il Papato è al presente quello che era allora, che fu e sarà sempre, la cancrena d’Italia.

I poeti satirici sono dimenticati dal popolo, quando il nemico da essi combattuto è stato interamente sconfitto. In altre parole: la satira è un’arma, che si spezza nella ferita. Quindi è che, essendo caduti tutti i Tiberî in diciottesimo flagellati dal Giusti, il culto popolare di questo poeta va scemandosi a poco a poco, nella stessa misura con cui s’impallidisce nella mente dell’universale la ricordanza degli uomini e de’ fatti che furono argomento alle sue satire. E quando siffatta ricordanza, non vivrà più che nelle storie, il Giusti sarà del tutto confinato nelle biblioteche e nelle scuole. Il Belli, al contrario, è poeta vivo e militante oggi, come mezzo secolo addietro; e lo sarà finchè duri la Roma de’ Papi. Le sue satire sono avidamente cercate e corrono per mille e mille bocche, perchè servono ancora a combattere il grande inimico d’Italia. Insomma, il Poeta toscano ha raggiunto il vertice, e adesso discende; il romano, all’opposto, cammina tuttora sopra una linea ascendente Per questo lato, il Belli merita, non meno del Giusti, un posto onorevole tra quegli scrittori, che da Dante a Mazzini precorsero al nostro risorgimento nazionale. Anzi, i nomi de’ due satirici andranno alla posterità accoppiati, come quelli che nel fecondo agitarsi del pensiero italiano contro i tirannelli di casa e l’oppressione straniera, a cominciare dal 1815 fino al ’48, rappresentano la parte più acre della lotta, e fanno presentire allo storico che se gli spiriti sono tanto esacerbati da inalzare il sarcasmo al sublime, la rivoluzione di popolo non tarderà molto a scoppiare.

Gli è ben vero che il Belli, qualche tempo dopo il 1831, mutò d’opinione, e dicono facesse ogni suo potere per ritirare tutte le copie manoscritte delle sue satire che circolavano per Roma; ma ciò non iscema di un ette il suo merito davanti alla critica, la quale ha l’obbligo di dividere lo scrittore dall’uomo. Il caso del Belli non è come quello di Orazio e di Sallustio, e di quasi tutti gli scrittori del secolo d’Augusto, che parlavano bene e ruspavano male nel medesimo tempo. Il nostro Poeta fu sempre onesto e sempre logico con stesso: finchè credette il Papato una piaga sociale, gli scrisse contro; quando lo credette un bene, se ne fece paladino. È il caso di una conversione bella e buona, e la critica non può entrare nel santuario della coscienza. Tutt’al più, ella può tentare di spiegarsi il fatto: ed io lo tenterò, perchè c’è chi nega persino che il Belli sia stato mai liberale, e chi attribuisce la conversione di lui a secondi fini di privato interesse, indegni d’un’anima onesta1.

Il nostro Poeta appartiene alla schiera di quei liberali, che trascinati dalla fiumana della Rivoluzione francese, si diedero a combattere il Papato, in cui vedevano il più potente ostacolo al civile progresso. Essi probabilmente non credevano al Papa e agli attributi sovrannaturali di lui; ma avevano la fortuna invidiabile di credere fermamente in Dio. Lo scetticismo della nuova letteratura, causa ed effetto ad un tempo della grande Rivoluzione, aveva appena appena sfiorato le loro coscienze. Odiavano i preti, ma andavano a confessarsi: condizione equivoca, fatta loro dai tempi poco maturi alle nuove idee, e che li portò poi ad aver paura dell’ombra propria. Pertanto, finchè videro attraverso la lente delle loro convinzioni religiose, che la Provvidenza favoriva il primo Napoleone e le riforme liberali con danno manifesto del Papato, se ne stettero fermi nella loro opinione; ma quando ad un tratto la scena si mutò, vennero, cioè, le restaurazioni del 1815, e poi la discordia tra’ liberali, e i moti italiani del ’21 e del ’31 miseramente soffocati nel sangue; e le recriminazioni codarde, le accuse reciproche, l’onta e il danno di tutti; allora si persuasero d’essere stati in errore sino a quel giorno: credettero che la Provvidenza fosse davvero col Papato, il quale era uscito salvo e trionfante da quella paurosa burrasca; si pentirono e rinnegarono, ma nobilmente, a viso aperto, la loro antica fede. Prima il papa e poi Dio; prima il papa e poi l’Italia, la cui indipendenza volevano sì, ma di buon accordo col papa, perocchè tutti i tentativi per ottenerla, fatti senza di lui e contro di lui, erano andati falliti. A codesta scuola di neoguelfi, che oggi è ridotta a pochi avanzi fossili, appartennero allora, come ognun sa, molti illustri del tempo, non pochi de’ quali, disingannati da dura sperienza, si rimutarono poi d’opinione, convenendo nell’idea del Machiavello propugnata da’ Mazziniani, che coi papi non si faceva l’Italia, e sono adesso altolocati e venerati fra noi. Il Belli non si rimutò; ma noi non dobbiamo adoperare due pesi e due misure, biasimando chi volle onestamente convertirsi ad una seconda fede politica e morire in quella, solo perchè codesta fede non è la nostra. Egli s’era legato in amicizia coi gesuiti Bresciani, Taparelli d’Azeglio, Pellico, Curci, Rossi, e Giganti, che era anche suo confessore: cattivi arnesi quanto si vuole, se si considerano come membri della Compagnia; ma tutti, più o meno, egregi uomini, se si pigliano individualmente. Costoro lo comprendevano, lo stimavano, lo amavano: è quindi facile immaginare quanto potessero sull’anima sua, che si trovò così rinchiusa in una cerchia di ferro, senza neppure avvedersene.

Nel 1846, parve per un momento che si risvegliasse in lui l’antico uomo. Gli eruppero dal cuore, riboccante di sdegno per le turpitudini del polititicato di Gregorio, quei due famosi sonetti: «Papa Grigorio è stato un po’scontento» e «Fr:...a! a cche ttempi semo, sor Cremente;» ma poi si quietò subito, anzi furono quelli gli ultimi strali lanciati da lui contro il Papato. Per noi sono preziosissimi: essi ci provano che la conversione del Poeta era stata sincera, dacchè egli conservava ancora tutta l’indipendenza del suo nobile carattere, non temendo di sfidare l’ira dei Sanfedisti (o Gregoriani, come li chiamavano allora), i quali erano tanto potenti, da spaventarne lo stesso Pio ix, l’idolo d’Italia. e del mondo, e da imporglisi poi nel modo che tutti sanno.

Il mutamento del Belli deve dunque attribuirsi ai tempi e al luogo in cui nacque e operò, agli uomini che lo circuirono, e non già a basse mire di vile interesse, ch’ei mai non ebbe; perocchè possedeva del proprio tanto da campare agiatamente la vita, e teneva per norma il «Vivitur exiguo melius» di Claudiano.1

Del resto, ei non riuscì a rimangiarsi come Saturno le proprie creature. Le sue satire erano troppo note e troppo care a’ Romani, perchè si potesse d’un tratto farle dimenticare. La freccia era uscita dall’arco, valeva il richiamarla; però che essa aveva ferito nel cuore del Papato. Il poeta se ne avvide, e nella sua timorata coscienza di cattolico n’ebbe grave e angoscioso rimorso. Dai fatti del 1848 e ’49, non solo si tenne in disparte, ma se ne afflisse moltissimo, e temendo che suo figlio Ciro venisse per legge ascritto al corpo mobile della guardia civica, lo fece precipitosamente ammogliare.

Dal nuovo trionfo del Governo pontificio il Belli ebbe cagione di riconfermarsi anche meglio nella sua fede, e si ascrisse alla Società di san Vincenzo de’ Paoli;2 pago di questo, per far quasi ammenda de’ giovanili trascorsi, dettò poesie di argomento religioso, e in difesa de’ gesuiti, sermoni ed epistole contro le idee moderne;3 tradusse gl’Inni del Breviario romano, e, pubblicandoli, li dedicava a Pio ix;4 finchè logorato dalle fatiche e dagli anni e da domestiche sciagure, moriva improvvisamente il giorno 21 dicembre del 1863.

Moriva il poeta, quasi ripudiando le sue migliori creature, quelle finissime satire politiche, le quali, opprimendo col ridicolo il Governo papale, avevano posto il loro autore nel novero di que’ pochi eletti, che fecero dell’arte non vano trastullo, ma terribile arme per combattere i nemici della civiltà e della patria.

Negli ultimi anni s’era fatto increscioso a e ad altrui: egli sosteneva una lotta terribile con l’antico stesso, il quale si ridestava in lui prepotente, poichè l’Italia risorgeva a nuova libertà, a nuova vita, a nuove e non fallaci speranze, e il Papato accennava oramai a certa e non tarda rovina. Dicono che vicino a morire raccomandasse come sua ultima volontà, quasi a pena di maledizione, che il figlio altri de’ suoi osassero pubblicare i sonetti politici; ma che nello stesso tempo li lasciasse aggiustati magnificamente di note e preparatissimi per la stampa, proibendo pur di bruciarli. Poveretto! Nella tempesta che gl’infuriava nell’anima, tentava di salvare almeno, come il naufrago Camoens, il parto prediletto della sua mente. E noi, davanti alle angoscie di questa nobile vittima, dobbiamo inchinarci e commiserare.

Il popolo romano prese la tutela di queste satire reiette dal padre loro; le fece cosa propria, poi che in esse udiva un’eco della sua coscienza, uno sfogo e una protesta contro la tirannia che l’opprime. E noi possiamo rispettare l’ultima volontà del poeta, considerando queste satire come creazione diretta del popolo romano, dal quale, alla fin fine, egli aveva attinto inspirazione e pensieri.1





1 In una strenna livornese del 1863, si leggevano queste gravi parole: «Gius. Belli, giace ora disteso nella tomba d’un ufficio papale… Il sacro Collegio gli gettò nelle fauci l’offa di un impiego lucroso, e il poeta uccise con una indigestione la musa! Dio gli usi misericordia nel mondo di . — Per noi G. Belli, morto come uomo, resterà vivo come poeta

A mostrare l’ingistizia di codeste accuse, basterebbe dire che il Belli aveva ottenuto l’impiego nell’amministrazione del Bollo e Registro, molti anni innanzi al 1831, e l’occupò per tutto il tempo in cui scrisse satire politiche. Soltanto verso il 1840 fu promosso, per diritto d’anzianità, a più alto incarico nell’ufficio del Debito pubblico.



1 Si veda la poesia La Mediocrità, nel vol. II, pag. 29, dell’edizione del Salviucci.



2 Tarnassi, Elogio citato, pag. 14.



3 Vedi i quattro volumi delle Poesie inedite, pubblicate della tipogafia Salviucci in Roma, nell’anno 1865-66. — Tutti codesti componimenti, a mano a mano che li scriveva, erano letti dal poeta nelle tornate della pontificia Accademia tiberina, di cui era socio fondatore.



4 Inni ecclesiastici secondo l’ordine del Breviario romano, volgarizzati da Giuseppe Gioachino Belli; Roma, tipografia della rev. Cam. Apostolica, 1856. — Questa traduzione fu molto lodata dalla Civiltà Cattolica, nel fascicolo del 22 gennaio 1857.



1 Ecco com’è adombrata la conversazione del Belli, dall’avvocato Paolo Tarnassi, che è una quintessenza di cattolico, e fu pompa di un odio poco cristiano contro la nostra Italia. — Alla pagina 24 di quella sua pappolata accademica, che intitola Elogio storico di G. G. Belli, scrive: «È a tutti noto come il nostro Belli desse un prodigioso saggio della rarissima facoltà imitativa, onde natura lo arricchì, nei duemila e forse trecento sonetti ch’egli compose in vernacolo romanesco, e dei quali molti corrono per molte mani commisti a moltissimi che a lui arbitrariamente si attribuiscono. L’intendimento ch’egli ebbe in tale suo lavoro fu, come dirò, senza sua colpa, malissimo interpretato, ed a siffatta interpretazione si deve appunto, credo io, la sola celebrità onde si volle illustrare il suo nome dalla dominante fazione del tempo. Non io intendo con ciò d’implicitamente affermare che indegno di fama sia codesto arduo lavoro: esso n’è anzi, a mio credere, degnissimo, sebbene, come pure dirò, non in tutto e per ben altro rispetto, il quale nulla ha certo di attinente alla trista rinomanza che il nostro Belli lungi da sé disdegnosamente respinse, con la stessa nobiltà d’animo, con cui rigettò pure il lautissimo prezzo che per ciascuno di questi sonetti gli si voleva offerire. Ma su tale avvertenza varrà meglio tornare più tardi… »

E infatti ci torna su, alla pagina 27, ma senza punto chiarire il negozio. Giudichi il lettore: «Se non che questa stessa sua rara valentìa gli fu cagione, con candore di storico il dirò, ch’egli cadesse materialmente in una colpa, dalla quale tanto lontano era il generoso suo animo, che non seppe, se non dopo vedutone l’effetto, avvertirla. L’arte ha certi suoi confini, nei quali sta appunto riposta la sua nobiltà, né ad essa conviene il ritrarre in tutto la verità delle cose. Ora, contro questo canone dell’arte peccò per un eccesso di genio il nostro Belli, il quale, volendo dare un immagine fedele del popolo romanesco, lo rappresentò, con una scrupolosità che doveva certo evitare, in tutta quella sua indipendenza che ne forma il carattere, e che lo porta a satireggiare su tutto, non rispettando nelle sue parole né la verecondia dell’onestà, né ogni autorità di cose o di persone. Fu questo, come ho già accennato, un peccato nell’arte piuttosto che una morale sua colpa, pure dovè, ahi, pagare con amarissimo fio. Imperocchè incominciatesi a diffondere molte copie manoscritte di alcuni de’ suoi sonetti, il suo scopo non venne che da pochissimi compreso, e se molti degli onesti, confessando pure il valore del poeta, gridarongli addosso la croce, tutto il partito che osteggia oggidì l’altare e il trono, e questo fu ciò che più dolorosamente il trafisse, portollo, quasi uno dei suoi, portarlo fragorosamente in trionfo, dando con implicita calunnia a credere che, presa la maschera del popolano avesse egli voluto o esalare o infiltrare massime di sedizione e di licenza. E così fu pure che venne profusa al nome di lui una celebrità, la quale, in opera non data alla luce, non saprebbe altrimenti spiegarsi. Chè la fama, o Signori, per una rete ben ordinata di segrete e di manifeste fila sta oggi sventuratamente in mano di questo poderoso partito, e chi prende a combatterlo è assai gan ventura se possa con la forza del genio superarne le astutissime mène, e recingere la meritata aureola della gloria. E il nostro Belli fu di cotal successo profondamente amareggiato e preso non da pentimento come calunniosamente o erroneamente si è detto di lui, il quale fu sempre il medesimo uomo, sempre probo, sempre onesto, sempre virtuoso cittadino, ma da uno sdegno che è il più bello dei suoi elogi, e desideroso di terminare la sua vita tanto ignuda di tal gloria, quanto monda d’ogni nota di vituperio, non solo le ricche offerte sprezzò che a lui per questo suo lavoro si fecero, ma moltissimi di tali sonetti diede alle fiamme, e ad altri molti, che forse senza pericolo avrebbe potuto dare in luce, volle negata, lui vivo, la stampa, e, chiusi e sigillati, consegnolli a autorevole persona, il cui nome ci è ignoto, come ignoto ci è pure il fine del pregevol deposito. »

Quante involontarie confessioni in codeste parole! — Essendo impossibile negare che il Belli scrivesse de’ sonetti satirici, si vorrebbe dare a credere che lo facesse senza la mira diretta di offendere il Papato. La pia menzogna è troppo ingenua perché valga la pena di confutarla con molte parole. Basta leggere uno solo di que’ sonetti satirici, che sono indubbiamente del Belli, per giudicare se il poeta , quando li concepiva e li scriveva, fosse un nemico o un puntellatore del trono e dell’altare. Gli è proprio vero l’adagio: Causa patrocinio non bona pejor erit: e il signor Tarnassi, avvocato, se lo ricorderà per un’altra occasione.






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