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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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VII.

 

Ciò che abbiamo detto de’ sonetti che dipingono il carattere e la vita della plebe romana, vale anche per i satirici, che hanno la stessa forma e gli stessi pregî di quelli. È sempre un popolano che figura sulla scena, giudicando secondo le sue vedute la natura e gli atti del governo temporale e spirituale dei papi. Dobbiamo solo avvertire che ne’ sonetti satirici l’autore non ha badato, come negli altri, a schivare le molte scurrilità del vernacolo romanesco. Questi sonetti sono proprio un frutto proibito ai ragazzi (pei quali d’altronde non furono scritti); ma vincono di naturalezza tutti gli altri, perchè appunto ritraggono più al vivo il linguaggio e l’indole del popoletto di Roma, che non si cura molto di misurar le parole. L’oscenità della forma non porta però seco l’oscenità di concetto, e s’ingannerebbe assai chi mettesse in fascio queste satire colle sozzure del Casti. Anche in que’ sonetti (e sono più di un centinaio), che ritraggono con vivaci colori i turpi scaltrimenti delle male femmine, le coperte lascivie de’ chierici e le immondizie dei postriboli, si sente che il Poeta vuol far ridere, ma per castigare i costumi, non mai per adescare al vizio. Questa parte della poesia del Belli, della quale diamo qui pochi saggi, meriterebbe per più rispetti di venir pubblicata separatamente.

Come accade a tutti gl’ingegni originali, scrittori od artisti, il Belli creò in Roma una scuola ed ebbe un gran numero d’imitatori più o meno felici; sicchè molte satire che vanno sotto il suo nome, in verità non sono sua creazione diretta. Ad un occhio un po’esperto sarà tuttavia agevole discernere la mano del maestro da quella degli scolari.

Le poche edizioni che io conosco di questi sonetti politici, sono incomplete e scorrettissime, per una vergognosa negligenza de’ raccoglitori. Non v’ha dubbio che, mancando gli autografi, e bisognando fidarsi alla tradizione orale, è affatto impossibile ridurli alla vera lezione; ma le piccole diversità di forma (se non si stampano, come s’è fatto sinora, con versi storpiati o difettosi di senso) non alterano punto la sostanza: anzi talvolta possono offrire una lezione che in qualche punto superi di naturalezza l’originale; perchè il popolo, accentando e variando i versi a modo suo, li ha fatti più consonanti al proprio linguaggio e al proprio genio. E valga questo esempio. Uno de’ sonetti più popolari del Belli, è quello che va comunemente sotto il titolo Er dovere od anche Er zervitore umbro, il quale, perchè non politico, fu pubblicato colla guida dell’autografo nella raccolta del Salviucci. Ora a me sembra che la variante popolare sia più bella dell’originale. Giudichi il lettore:

 

 




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