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Giuseppe Gioachino Belli Duecento sonetti in dialetto romanesco IntraText CT - Lettura del testo |
X.
Don Micchele de Portogallo.1
(1833)
—
Ce mancava pe’ nnoi st’antro
accidente! —
Doppo fatto ar Brasile er pappagallo,
Riècchete2 don Pietro a ffa’ er reggente,
Pe’ rróppe’ li cojjoni ar Portogallo
In fónno, a nnoi nun ce n’importa
ggnente;
Chè, grazziaddio, noi stamo a culo callo:3
L’Ebbreo cce dà cutrini alegramente,
E ssi cce maggna sopra,4 buggiaràllo!
Io me sento schiattà pe’ ddon
Micchele.
Je volevo dì’: — Ssei troppo bbono!…
Quanno vedi ch’er popolo è infedele,
Nu’ sta’ a ssentì nè angeli nè
ssanti:
Stàmpeje un bell’editto de perdono,
E ’r giorno appresso impicca tutti cuanti.5 —
Giovanni vi, re di Portogallo, dopo la rivoluzione scoppiata a Porto nel 1820, e divampata poi in tutto il regno, dovette mal suo grado giurare la costituzione che i rappresentanti del popolo gli proponevano, e tornato nel 1821 a Lisbona fra le solite acclamazioni, lasciava in qualità di reggente nei possedimenti brasiliani il primogenito suo don Pietro. Passò appena un anno, che mentre il Re studiava il modo di levarsi d’attorno l’incomodo delle Cortes, i democratici del Brasile, insofferenti della soggezione al Portogallo, gridarono la loro indipendenza, e sapendo il Principe reggente di spiriti liberali, lo incoronarono imperatore. Re Giovanni protestò e dichiarò guerra al figlio e a’ ribelli. Intanto il secondogenito suo don Michele, d’indole e di principii affatto opposti a quelli del fratello, s’affaccendava d’accordo coll’alto clero, colle corti di giustizia e cogli ordini privilegiati, a buttar esca sul fuoco; affinché i liberali portoghesi pagassero il fio de’ ribelli brasiliani. In conseguenza di tali maneggi, che non potevano essere ignoti al Re, scoppiò nel febbraio del 1823 una rivoluzione in senso reazionario a Villa Real, capitanata da un Conte di Amarante. Minacciò estendersi anche nelle provincie, ma i costituzionali riuscirono a soffocarla. Allora la reazione volse i suoi sforzi a corrompere e tirar dalla sua una parte dell’esercito, il che agevolmente le venne fatto. La notte del 29 maggio, dello stesso anno, il principe don Michele, tacitamente consenziente il padre, usci da Lisbona per Villafranca alla testa del 23° reggimento di fanteria, dando così il segnale della rivolta, che in brev’ora fu seguita da tutto l’esercito. A’ 2 di giugno, le Cortes costrette a separarsi, protestarono solennemente contro il Re spergiuro. Quasi tutte le corti d’Europa, e prima d’ogni altra, quella pontificia, mandarono congratulazioni e ringraziamenti a don Michele, e il padre lo nominò generalissimo dell’esercito. Ma se in Portogallo il vento spirava così propizio a’ retrivi, la guerra contro il Brasile non procedeva loro seconda: e nell’agosto del 1825, re Giovanni doveva finirla, riconoscendo l’indipendenza di quell’impero.
Morto il Re ai 10 marzo 1826, nel successivo mese il figlio, don Pietro, istigato dai liberali portoghesi, aggiunse al titolo d’imperatore del Brasile quello di Re di Portogallo ed Algarvia; e pubblicata una nuova costituzione, sulle norme di quella spergiurata dal padre, a’ 2 maggio abdicava il regno in favore della figlia Maria ii da Gloria, ch’era ancora bambina. La reazione dal canto suo non si stette inoperosa, e nel luglio e ottobre 1827 acclamò re don Michele. Parecchie corti d’Europa fecero rimostranze a quella di Rio-Janeiro. Allora don Pietro, per provare col fatto ch’egli aborriva quant’altri mai dalla guerra civile, nominò il fratello luogotenente de’ regni portoghesi. Don Michele accettò, e da Vienna recossi immediatamente a Lisbona, dove prestava giuramento solenne di fedeltà al fratello Pietro iv e alla nipote Maria ii, obbligandosi a rimetter questa nel governo, appena fosse giunta all’età maggiore. L’ebbe anche promessa in isposa e firmò il contratto nuziale. Ma tutto ciò non lo appagava, e nel prestar giuramento aveva forse, come il padre suo, avvisato al modo di spergiurare. Infatti, quando tribunali, clero, e nobiltà che incarnavano la reazione, e che in ogni modo la volevano finita co’ liberali, lo acclamarono re legittimo di tutto il reame, egli, simulando come tutti i suoi pari, convocò a Lisbona i tre Stati del regno, acciocchè provvedessero alla successione della Corona. Poi, per recitar bene la sua parte nella vieta commedia, presentòssi alle Cortes senza le insegne reali. Gli Stati (è inutile il dirlo) lo confermarono re legittimo, sciogliendolo dal giuramento. Allora il nuovo re, di agnello fatto lupo, ricominciò una feroce persecuzione contro i liberali, fautori di don Pietro. Il Papa e le Corti d’Europa plaudivano, meno Inghilterra e Francia, che protestarono contro l’usurpazione, richiamando i loro ambasciadori. In questo mezzo moriva a Roma Leone xii, e don Michele ordinava pubblico lutto e solenni funerali.
Don Pietro, dopo aver abdicato l’Impero brasiliano in favore del figlio, a’ 17 aprile 1831 venne alla volta d’Europa contro don Michele, e nel luglio del 1832 sbarcato a Porto con 7000 uomini, dopo varia vicenda di piccola guerra, aiutato efficacemente dai liberali, a’ 24 luglio dell’anno successivo, riuscì ad impadronirsi di Lisbona e a mettere la figlia sul trono, sotto la sua reggenza. Aveva già dichiarato che tratterebbe come ribelli i vescovi eletti da don Michele e riconosciuti dal Papa. Tenne la parola, e quindi ne nacque un battibecco colla Corte di Roma, la quale favoriva sottomano i Michelisti. Ma sconfitti costoro alla battaglia di Asseiceira (16 maggio), dieci giorni dopo don Michele capitolava a questi patti: che gli si lasciassero i beni privati, e gli venisse pagata un’annua pensione di 75 mila ducati; egli dal canto suo si obbligava a partir subito e a non più tornare nella Penisola iberica. Arrivato a Genova, si pentì, e protestò per salvare i suoi pretesi diritti. Così perdeva pensione e beni privati. Ma Gregorio xvi gli apriva a Roma le paterne braccia, accogliendolo con que’ riguardi dovuti a un caporale della reazione europea, e assegnandogli la bagattella di 1800 scudi al mese, da levarsi dal pubblico erario, il quale dopo i casi del 1831 era venuto in tali angustie, che poco prima si era dovuto contrarre un prestito con Rotschild al 65 per cento (Vedi il sonetto: Er zervitore de Monziggnor tesoriere). Di tal modo, i sudditi del Papa facevano la penitenza non solo de’ propri, ma anche dei peccati de’ liberali portoghesi: ed ecco perchè il romanesco di questo sonetto, a prima giunta esclama: Ce mancava pe’ nnoi st’antro accidente. —