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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XIII.

Er Ricramo.1

(1833)

Ma a cquer cazzaccio der padron de Rosa
Sabbito a ssera nun je prese er ramo2
De portà ar Papa un fojjo3 de ricramo
Su li guai de la ggente bisoggnosa?

 

? che arispose er Papa?4 — “Ma cche ccosa!…
Che mmiseria!… li zoccoli d’Abbramo?!
Lei puro5 ha sstideaccia stommicosa?6
Noi però, ggrazziaddio, sce ne fregamo.7

 

E un’antra vôrta che Llei viè a ppalazzo8
Cossti sturbi9 in zaccoccia, signor tale,10
Io je so a ddi11 che Llei nnun entra un ca..o.12

 

Fino ch’er tesoriere nun ze sstracca
De fa’ ddebbiti e vénne13 er capitale,
Staremo sempre in d’un ventre di vacca.”

 

 

 




1 Reclamo, ricorso. —

2 Non gli prese l’estro. —

3 Foglio. —

4 è una dimanda fatta dallo stesso narratore, per accrescere efficacia al discorso. Variante: Che jjarispose er Papa?

5 Pure. —

6 Stomacosa. —

7 Il popolo ha trasposto i versi delle due quartine: ma il sonetto ci guadagna in forza e naturalezza. Variante: Noi, peggrazzia de Ddio, sce ne fregamo. —

8 Variante: E ssi Llei ’n’ antra vôrta viè a ppalazzo. —

9 Disturbi in zaccoccia chiama il foglio di reclamo; nota la vivacità del traslato, che fa di questo verso un vero capolavoro. —

10 Il Papa non conoscendo il padrone della Rosa, lo chiama per dispregio signor tale. —

11 Gli so dire. —

12 Variante: Io je so a ddi’ che cqui nun zentra un ca..o. —

13 Vendere.




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