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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XX.

Er civico de corata.1

(1837)

Stamo2 immezz’a ’na macchia, Caterina,
E nnò in d’una scittà ddrent’a le mura.
T’abbasti a ddícch’a Ssan Bonaventura
Me sciassartònno3 a mmé jjer’a mmatina.

 

Pavura io?! de che! Ppecristallina!
Un omo solo m’ha da fa’ ppavura?
M’aveva da pijjà senza muntura
Lui, e ppoi ne volevo una duzzina.

 

Quanno me venne peinvestí, me venne,4
Io pe’ la rabbia me sce fesce5 rosso;
Ma ccosa vôi!6 nun me potei difènne’.7

 

E archibbuscio, e ssciabbola, e bbainetta!...
Co’ sta bbattajjerìa8 d’impicci addosso,
Com’avevo da fa’, ssi9 bbenedetta?10

 

 

 




1 Coraggioso. —

2 Stiamo. —

3 Mi ci assaltarono. —

4 La variante popolare è più naturale: Quanno me venne passartà, me venne.

5 Mi ci feci. —

6 Vuoi. —

7 Difendere. —

8 Con questa batteria, quantità. —

9 Che tu sia, ec. —

10 Questo sonetto fu pubblicato nella raccolta del Salviucci (vol. iv, pag. 357), e porta la data del 25 Aprile 1837; laonde è chiaro che si riferisce alla guardia civica di quel tempo, e non a quella del 1848, come comunemente si crede. Il Belli, secondo che noi abbiamo dimostrato, si tenne nel più assoluto riserbo durante gli avvenimenti del ’48 e del ’49. Tuttavia è probabile che questo sonetto tornasse alla mente dei più, nel vedere la grave uniforme della guardia civica del 1848.




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