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Giuseppe Gioachino Belli Duecento sonetti in dialetto romanesco IntraText CT - Lettura del testo |
II.
Ciò posto, ognun vede quanto propizio terreno sia Roma per la satira. Laggiù, essa può ferire a doppio taglio: sul dispotismo politico e su quello religioso. Il lusso smodato della corte, i privilegi, gli abusi, l’ignoranza di quell’immoralissimo governo, i birri, le spie, la censura, il servidorame, l’intolleranza politica e religiosa, il concubinato dell’alto clero, la feroce persecuzione contro ogni libera idea, l’aborrimento d’ogni cosa nuova, tuttochè utile e ragionevole, sono altrettanti argomenti che si presentano di per sè al poeta satirico. Ed infatti a Roma si nasce, per dir così, coll’epigramma sulle labbra. Il trasteverino non sa leggere, ma sa farvi una satira. E solo chi conosce il basso popolo di Roma, può avere un giusto concetto di quel garbo tutto romanesco, che è passato in proverbio. Forse anche gli avanzi dell’antica grandezza contribuiscono a rendere atte le menti a scovrire il lato piccolo e risibile delle persone e delle cose, e codesta attitudine si fa maggiore coll’esempio e coll’educazione di famiglia; forse anche il clima ci ha la sua parte; ma insomma, ogni romano è stoffa adatta per tagliarci un poeta satirico. E non mancano esempi per dimostrarlo.
Un giorno, presso all’ora in cui stanno per esser tolte dalla cassetta postale le lettere, molta gente si accalcava dintorno alla buca, e gli urtoni volontari e le scuse ipocrite e gli accidenti secreti si succedevano, come suole accadere in siffatti casi. Un vecchio aveva imbucata la sua lettera, e abbassando la testa, s’era per un tratto soffermato a guardare se ella fosse discesa, tardando un poco ad andarsene, per quella lentezza di movimenti che è retaggio della vecchiaia. Allora, un ragazzino di dieci o dodici anni, che gli stava dietro, avendo anche lui da impostare una lettera, impazientito del ritardo del vecchio, alzò il capo e gli disse seriamente: «A sor boccio! aspettate finente la risposta?» Uno scoppio generale di risa fece eco a codesta domanda, che in verità potrebbe darsi per modello di sublime ridicolo. Difficilmente un ragazzo di un’altra città avrebbe detto altrettanto.
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Pasquino è una creazione del popolo. Su di un angolo del palazzo Braschi, presso Piazza Navona, si vede appoggiato il torso di una statua, che il noto Bernini reputava uno de’ tipi più belli d’antiche figure. Si credette per molto tempo che quel torso fosse avanzo d’una statua rappresentante un gladiatore, o un guerriero di Alessandro Magno; ma più tardi, gli studiosi delle cose antiche parvero d’accordo nel giudicarlo frammento d’un gruppo figurante Menelao che solleva da terra il cadavere di Patroclo. Il lettore può scegliere a suo piacimento quella che più gli quadra di queste dotte opinioni; o lasciarle tutte, chè fa lo stesso; perocchè senza di esse può star l’istoria. Nella seconda metà del secolo xv, poco lunge da codesto avanzo di statua teneva la sua botteguccia un sartore nominato Pasquino, che era uomo molto allegro, d’ingegno pronto e arguto, e motteggiatore e satirico per eccellenza, noto e caro per queste sue doti a tutto il popolo di Roma, il quale, non entrando nelle sottili disquisizioni degli archeologi, e non sapendo come chiamar quella statua, è molto probabile che fin d’allora la chiamasse statua di Pasquino. E Lodovico di Castelvetro, nel suo libro Ragioni di alcune cose, ci dice che «Antonio Tibaldeo da Ferrara, il quale fu uomo di reverenda et grande autorità per le sue singolari virtù et per la sua rara dottrina; a’ suoi dì, essendo già pieno d’anni, soleva raccontare... che maestro Pasquino... et i suoi garzoni, chè molti ne avea, facendo vestimenti a buona parte d’artegiani, parlavano liberamente et sicuramente in biasimo de’ fatti del Papa et de’ cardinali, et degli altri prelati della Chiesa, et dei signori della corte: delle villane parole de’ quali, siccome di persone basse et materiali, non era tenuto conto niuno, nè a loro data pena niuna, o malavoglienza portata di ciò dalla gente. Anzi, se avveniva che alcuno, per notabilità o per dottrina o per altro riguardevole, raccontasse cosa non ben fatta d’alcun maggiorente, per ischiffare l’odio di colui che si potesse riputare offeso dalle parole sue et potesse nuocergli, si faceva scudo della persona di maestro Pasquino et de’ suoi garzoni, nominandogli per autori di simile novella.»
Quando il dabben uomo fu morto, il popolo battezzò addirittura col nome di Pasquino quel torso di statua; e quasi fingendosi che l’anima del sartore fosse passata lì dentro, attribuì a quello — come aveva attribuito a Pasquino vivo — tutti i lazzi, le celie, i motteggiamenti e le satire che correvano per la città.1 Di tal guisa, quel torso informe, per effetto d’una strana metempsicosi, divenne un essere animato. Ei non si muove, ma è vivo; non ha occhi nè orecchi, ma vede ed ascolta tutto; gli avanza appena un ultimo vestigio del naso, ma per finezza di odorato non la cede a Galateri e a Nardoni. Dio vi guardi da lui! Mille faccie rubiconde ha fatto impallidire, e mille pallide ne ha fatte diventare di fiamma. È capace di ferirvi anche in greco e in latino, lingue ch’ei sa a meraviglia, dacchè per la sua bocca hanno parlato e il Sannazaro e il Poliziano e l’Ariosto ed altri cosiffatti. La sua anima non è già quella del povero sartore, che pur troppo starà ora umbra levis sotto il caduceo di Mercurio; ma è l’anima del popolo romano, del vero popolo, s’intende, non dei sagrestani, e (con riverenza parlando) de’ bastardi de’ preti.
E Pasquino è rispettato e temuto dal Governo papale, che non rispetta e non teme questo nostro Regno d’Italia! Pasquino sta fermo come torre inespugnabile fra dense schiere d’impotenti nemici. Che varrebbe il dannarlo a morte? Egli risorgerebbe sotto forme mutate, ma più acre, più mordace, più terribile per la patita violenza: perciò lo si lascia in pace. Papa Pio v fece appiccare per la gola il latinista Niccolò Franco, che in un distico s’era beffato di lui; (1) Sisto v fece mozzare la mano destra all’autore di una pasquinata contro sua sorella, allettato a scovrirsi colla promessa di un premio;2 ma Pasquino non fu molestato. Soltanto nel 1592, pontificando Clemente viii, ei corse rischio di andare, fatto in pezzi, a prendere un bagno freddo nel Tevere, per sentenza di molti prelati e de’ cardinali Pietro e Cinzio Aldobrandini, nipoti del papa; ma a perorar la sua causa si levò l’uomo più illustre di quel tempo (chi ’l crederebbe?), Torquato Tasso! Egli stesso, il grande ed infelice poeta, sconsigliò il cardinal Pietro dal permettere che la condanna fosse eseguita; «perciocchè (gli disse) dalle polveri di Pasquino nella ripa del fiume nasceranno infinite rane, che gracchieranno la notte e ’l dì.» E avendo il Pontefice risaputo dal nipote le parole del Tasso, e mandato a chiamarlo, perchè gliene desse ragione, «Verissimo, padre santo (rispose il poeta); ma se la vostra Beatitudine vuol che le statue non favellino male, faccia che gli uomini ch’ella pone ne’governi operino bene.» Questo fatto è narrato da Giambattista Manso, amico sincero e confidente del cantore della Gerusalemme.3 Così Pasquino scampò da quella burrasca, e pochi giorni dopo egli stesso potè dire a’ Romani che la Poesia aveva salvato la Satira.4
Del resto, è da notarsi che Pasquino troverebbe caldi difensori fra i personaggi più eminenti di Roma, e perfino tra’ membri del Sacro Collegio, i quali più volte si sono giovati dell’opera sua, massime nell’occasione del Conclave. Per dirne una, fra le innumerevoli pasquinate di cui fu soggetto Alessandro vi, ve n’ha di quelle in cui potrebbe riconoscersi la mano o l’ispirazione di quel suo implacabile nemico, che apertamente lo chiamava papa marrano e simoniaco e traditore, il cardinale Giuliano della Rovere, che fù poi Giulio ii, sovrano funesto all’Italia più assai dello stesso Borgia, e al pari di lui violatore di fede.
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Pasquino ha un compare, un complice, come il nostro san Maurizio. Questo compare è Marforio, antica statua rappresentante l’Oceano, o come altri vogliono il fiume Nar, o il Reno, posta oggi nel cortile del Museo Capitolino o di Augusto. — Fu dissotterrata nell’antico Foro di Marte, Martis Forum, donde la corruzione popolare di Mar-forio.
Perché Pasquino potesse rispondere argutamente aveva bisogno d’essere interrogato; e il popolo affidò quest’ufficio a Marforio. Non bastando lui, entrano in iscena i pertichini, come l’abate Luigi e madama Lucrezia, avanzi anch’essi di statue antiche. Ma il vero demone tentatore che sa solleticare a meraviglia lo spirito caustico di Pasquino, è Marforio. Egli interroga, Pasquino risponde.
Andrebbe tuttavia errato chi credesse che Marforio si trovi vicino al suo vecchio compare. Essi, è vero, sono amici da quattro secoli, ma neppure si videro mai. Infatti Marforio, dopo che fu disseppellito, giacque lungo tempo dietro il Campidoglio, sul principio della via che da lui prese nome, e ne fa testimonianza la seguente iscrizione, che si legge sulla facciata di una casetta:
hic aliquando insigne
marmoreum simulacrum fuit,
quod vulgus ob martis forum
marforium
nuncupavit;
in capitolium ubi nunc est
translatum.
La casetta, e il Museo dove Marforio fu trasportato, sono vicinissimi fra di loro; ma distano entrambi un buon miglio dalla residenza di Pasquino. Gli è quindi fuori di dubbio che i due amici non si conoscono di persona; epperò non si può supporre che ne’ loro dialoghi le domande venissero affisse su Marforio e le risposte su Pasquino: sembra invece che domande e risposte si affiggessero un tempo sopra quest’ultimo; poichè, sin da quando ci fu collocato all’angolo del palazzo Orsini (oggi Braschi), essendo il luogo centrale e frequentato, i capi-rione vi appiccicavano su i manifesti municipali, gli avvisi sacri, le bolle, le indulgenze e simili: e quindi è ben naturale che anche il popolo vi affiggesse le sue proteste contro il Municipio e contro i preti. È così che il povero Pasquino, sparuto e allampanato, porta per tutto il corpo i segni onorati delle durate battaglie; mentre Marforio si mantiene allegroccio e pastricciano, che è un piacere a vederlo.
Coll’andar del tempo, quando l’esser colto nell’atto di affiggere una pasquinata, poteva costare una mano, si cominciò a tenere un modo più comodo e meno pericoloso. — L’autore della satira esce di buon mattino, e fingendo di averla trovata affissa qua o colà, la dice al primo sfaccendato che incontra per via: di tal modo, in capo a ventiquattr’ore, la satira è volata di bocca in bocca per tutta Roma.
Ecco alcuni saggi delle conversazioni de’ due vecchi compari.
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Ne’ primordi dell’invasione de’ Francesi rivoluzionari capitanati dal Berthier; quando il vincitore d’Arcole e di Rivoli bruttava la bella fama di guerriero, facendo spogliare questa Italia sua patria de’ codici più preziosi e de’ capilavori dell’arte, unica gloria, unico bene che omai le fosse rimasto in tante fortunose vicende; quando insomma il giovane Bonaparte provava coi fatti che la parola repubblica nel vocabolario francese è sinonimo di ladronaia, e che la libertà di tanto è pregevole a casa propria, in quanto può servire a portar la schiavitù e la desolazione a casa altrui; il compare Marforio domandava sonnecchiando a Pasquino: «Pasquino! che tempo fa?» E quello rispondeva: «Uh! fa un tempo da ladri!» E pochi giorni dopo, domandava ancora: «Pasquino! è vero che i Francesi so’ tutti ladri?» — «Tutti, no; ma bona-parte.»
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Quando papa Clemente XI spediva ad Urbino sua patria delle grosse somme di danaro, Marforio domandava:
«Che fai, Pasquino?»
«Eh! guardo Roma, chè non vada a Urbino.»
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Circa il 1656, papa Alessandro VII doveva consacrare la nuova chiesa della Pace, e dinanzi alla porta gli fu eretto un arco trionfale, su cui leggevasi la seguente iscrizione:
orietur in diebus nostris justitia et abundantia pacis.
Nella notte precedente il giorno della consacrazione, Pasquino aggiunse un M in capo a quelle parole. Nessuno si avvide dello scherzo, e al mattino venne il papa, e lesse con poca sua compiacenza:
morietur in diebus nostris justitia et abundantia pacis.
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Quando questo papa Alessandro passò a migliore o peggior vita, Marforio domandò a Pasquino: «Che ha detto er papa prima de morì?»
E Pasquino quella volta rispose latinamente, che il papa aveva detto:
Maxima de se ipso;
Plurima de parentibus;
Prava de principibus;
Turpia de cardinalibus;
Pauca de Ecclesia;
De Deo nihil.
Nel 1862, il giorno di san Pietro, corse voce che alcune pareti della Basilica vaticana, per difetto di arazzi, fossero state coperte alla meglio con carta colorata. In quell’anno s’era parlato molto della probabile partenza del papa da Roma, se questa città si fosse rivendicata all’Italia. Marforio ingenuamente domandava a Pasquino: «È vero ch’er papa fa fagotto?» — «E certo (rispondeva Pasquino), nun vedi che ha incartato San Pietro?»
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Qualche volta Marforio fa lo spiritoso anche lui; e non è meraviglia che da tanti anni, bazzicando con Pasquino, gli si sia appiccato un po’ del suo spirito satirico. Un bel giorno domanda al compare:
«Amico! indóve vai così de fuga?»
«Lasceme annà, che ho da fa’ un viaggio lungo, gnente de meno che ho d’arrivà a Babilonia!»
«E allora férmete, chè se’ arrivato!»
Si vede che Marforio non riesce ad essere originale. Egli aveva letto e fatto suo quel verso di Petrarca: «Già Roma, or Babilonia falsa e ria,» e l’altro: «L’avara Babilonia ha colmo il sacco,» ecc. Versi che dovrebbero ammonire i nostri neoguelfi, perocchè se a’ tempi del canonico don Francesco Petrarca, vale a dire cinque secoli addietro, il Papato era una Babilonia avara, falsa e ria, e tale si mantiene anche oggi, è vano omai lo sperare che la gran bestia muti pelo.
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Durante l’assedio di Roma del 1849, era Marforio che voleva andarsene a fare un viaggio; ma Pasquino lo sconsigliava: «Fijjo bello, e indóve passi? Pe’ terra ce so’ li Francesi; pe’ mare ce so’ li Tedeschi; per aria ce so’ li preti!»
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Abbiamo anche parecchi evangelii secundum Pasquillum, colla loro vulgata, fatta da nuovi san Girolami; non approvata, è vero, dal Concilio di Trento, ma approvata dal comune consentimento del popolo. Eccone uno:
evangelium
secundum pasquillum.
liber generationis anti-christi filii diaboli.
(Evangelio secondo Fasquino.
La genealogia dell’Anticristo figlio del diavolo.)
»Il diavolo concepì il papa, il papa la bolla, la bolla la cera, la cera il piombo, il piombo l’indulgenza.
»L’indulgenza concepì la carena,1 questa la quadragena,2 che fu madre della simonia ed avola della superstizione:
»La simonia partorì il cardinale e fratelli, durante e dopo la prigionia di Babilonia.
»Il cardinale ingenerò il cortigiano, il cortigiano il vescovo papista, il vescovo papista il suffragrante ed il prebendario, che ebbero la pensione per figlia.
»Questa diede luce alla decima, che partorì l’oppressione del villano.
»L’oppressione del villano ingenerò l’ira, e l’ira l’insurrezione, nella quale si rivelò il figlio dell’iniquità, che si chiama l’Anticristo.3»
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Spesso Pasquino e Marforio sono lasciati da banda, e la satira vien fuori in forma libera, senza dialogo.
Sopra il predetto Alessandro VII, cardinal Ghigi da Siena, fu scritto il seguente epitaffio:
Quel che sen giace in questa tomba oscura,
Già nacque in Siena povero compagno;
Gli diè nome di Fabio il sacro bagno,
E d’empio e scellerato la natura.
Entrò con pochi soldi in prelatura,
E vita fe’ da monsignor sparagno;
Fu fatto papa, e d’Alessandro magno
Si pose il nome, sì, non la bravura.
Che non fe’, che non disse, al trono
alzato?...
Parlò sempre da santo, oprò da tristo;
Entrò da Pietro, ed uscì da Pilato.
Fe’ di tant’alme al negro regno acquisto,
Che saper non si può s’egli sia stato
Del diavolo Vicario, oppur di Cristo.4
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Quando non so qual papa mise o aggravò l’imposta sul tabacco, un bel mattino fu trovato scritto sul muro del palazzo pontificio il versetto 25 del cap. xiii del libro di Giobbe: «Contra folium, quod vento rapitur, obstendis potentiam tuam, et stipulam siccam persequeris?» — Il papa, informato della satira, ordinò che non si cancellassero quelle parole, e disse che sarebbe stato lietissimo di conoscerne l’autore, che certo doveva esser uomo di buon ingegno. Codesto desiderio del papa fu soddisfatto, perché, poco dopo, si trovò che il versetto era stato firmato dal vero autore: Job. — Allora il papa fece spargere voce che avrebbe concesso un grosso premio al satirico, se si fosse rivelato; ma quello, ricordandosi forse del brutto giuoco fatto all’autore della pasquinata contro la sorella di Sisto v, andò di notte, e accanto alla firma di Job, scrisse: gratis. E così il buon papa dovette crepare colla voglia in corpo.
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La Censura romana, come tutti sanno, ha fatto sempre uno strazio, tanto crudele quanto ridicolo, delle opere destinate alla scena. Il conte Giovanni Giraud, poeta satirico e commediografo di non poco valore, vedendo i suoi drammi fatti segno costantemente agli scrupoli ipocriti di un abate revisore pedante e cocciuto, si vendicò indirizzandogli il seguente sonetto, che divenne molto popolare: