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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XII.

è mejjo pèrde un bôn’amico, che una bbôna risposta.1

 (13 settembre 1830)

Jjer’ar giorno, pe’ vvia de sto catarro
Der mi’ povero gozzo arifreddato,
Maggnat’appena du’ cucchiar’ de farro
Curze2 da quer cirusico arrabbiato.

 

Ma io ch’una ch’è una nun n’ingarro,3
Te lo trovai che ggià sse n’era annato
In frett’e in furia a rinnaccià uno sgarro,4
Co’ lo spezziale, er medico e ’r curato.

 

La mojje che mme vedde métte’ a sséde’,5
Disse inciurmata:6— Ihì! ppuro7 la ssedia!
Ve dà ffastidio d’aspettàllo in piede?»

 

— Che! vve la logro?8 (io fesce9 a la scirusica)
Pozziat’êsse10 ammazzata a la commedia!,
Accusì armanco11 creperete in musica. —

 

 

 

 

 




1 Proverbio. —

2 Corsi. —

3 Non ne indovino. —

4 A medicare una ferita. —

5 Mi vide mettermi a sedere. —

6 Inciprignita, accigliata: da ciurma, che in romanesco vale cipiglio.

7 Pure. —

8 Logoro. —

9 Dissi. —

10 Possiate essere. —

11 Almeno.




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