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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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XXII.

Chi va la notte, va a la morte.1

 (21 gennaio 1832)

Come so’ lle disgrazzie! Ecco l’istoria:
Co’ cquell’infern’uperto de nottata,
Me ne tornavo da Testa-spaccata,2
A ssett’ora indóv’abbita Vittoria.

 

Come llì ppropio dar palazzo Doria
So’ pe ssalì ssanta Maria ’nviolata,3
Scivolo, e tte do un botto de cascata,
E bbatto apparteddietro la momoria.4

 

Stavo pe’ tterra a ppiàgne’ a vvita mozza,5
Quanno c’una carrozza da siggnore
Me passò accanto a ppasso de bbarrozza.6

 

— Ferma! — strillò ar cucchiero un zervitore;
Ma un voscino ch’escì da la carrozza,
Je disse: —Avanti, alò:7 chi mmore more.8

 

 

 

 

 




1 Proverbio. —

2 Via di Roma. —

3 Santa Maria in via lata, antico nome del Corso. —

4 È comune opinione del popolo che la memoria risieda nella parte posteriore del capo, la quale si chiama per ciò propriamente la memoria. —

5 A gocciole, come una vite recisa che dia umore. —

6 Baroccio, carretta da buoi. —

7 Dall’allons de’ Francesi. —

8 È una parte di quel proverbio insensato e crudele, che dice: «Pecora nera, pecora bianca; chi more, more ; chi campa, campa.»




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