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Giuseppe Gioachino Belli
Duecento sonetti in dialetto romanesco

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VIII.

 

In questo volume si trovano tutti i sonetti del Belli conservati dalla tradizione popolare, e insieme i migliori di quelli che vanno comunemente sotto il suo nome, ma che sono d’altri.

Io li ho raccolti quasi tutti dalla bocca di persone che li udirono più volte dallo stesso autore, ed ho in pari tempo tenuto conto di quelle varianti; che mi parevano risponder meglio al carattere del dialetto romanesco. Perciò non trascurai di consultare anche molte e molte delle raccoltine manoscritte, che ne corrono per tutta Italia, e che sono più o meno spropositate. Chi ebbe in mano qualcuna di queste raccolte, si meraviglierà forse vedendo che nel nostro volume spesso un intero sonetto è affatto mutato. Ma la sua meraviglia cesserà, se ripensi che questi sonetti, col passare per mille bocche e col venire trascritti da chi poca o nessuna conoscenza aveva del vernacolo romanesco, dovevano di necessità riuscirne storpiati maledettamente. Tale è la sorte di tutti i poeti, che acquistarono, come il nostro, una popolarità straordinaria. La lezione che io presento, se non è sempre la vera, è certo la migliore che se ne conosca.

Quanto al modo di scriverli, mi sono studiato di imitare, colla maggiore esattezza possibile, l’ortografia dell’autore, riscontrando pazientemente ogni parola sugli altri sonetti dell’edizione del Salviucci.

Taluni (non escluso qualche romano) avrebbero voluto che usassi un’ortografia più semplice, che si accostasse maggiormente a quella della lingua comune; massime perchè, dicevano essi, le diversità che sono tra questa e il dialetto romanesco, vanno oggi giorno più scomparendo. Altri mi consigliavano la stessa cosa, perchè, a loro avviso, certe inflessioni, certe consonanti appena accennate nella pronuncia, non si possono far intendere co’ segni dell’alfabeto comune il che in altre parole varrebbe che il nostro Poeta sbagliò nel modo di scrittura di quel dialetto.

Io non reputai conveniente di seguire questo consiglio, che pur mi avrebbe risparmiato una fatica lunga e noiosa; ma ringrazio que’ cortesi che me lo diedero, per avermi così pòrto occasione di liberarmi da ogni futura molestia, coll’esporre qui le ragioni, che m’indussero a tenermi strettamente all’ortografia dell’autore.

E per rispondere alla prima obiezione, non ricorderò che in regola generale i dialetti si scrivono come sono, o si lasciano dove stanno; ma dirò bene, che se il dialetto romanesco accenna già di voler scomparire fondendosi nella lingua comune, questo fatto pare a me una ragione di più per iscriverlo oggi fedelmente com’è, affine di tramandarlo nella sua genuina immagine a’ posteri, i quali altrimenti non potrebbero conoscere quello ch’ei si fosse realmente. In quanto alla seconda, riconosco di buon grado che ha sè molto di vero: e per fermo, chi pronunziasse giusta il valore che hanno nella lingua comune, alcuni modi ortografici usati dal Belli, com’è per un esempio lo sc, farebbe quasi una caricatura della retta pronunzia romana; ma non è meno vero, che non sarebbe più esatto chi mettesse la sola c al posto dello sc. Costui taglierebbe, non iscioglierebbe il nodo. Insomma quando si scrive un dialetto coll’alfabeto della lingua illustre (che val quanto dire scrivere una lingua co’ segni di un’altra), i modi ortografici hanno necessariamente un valore relativo alla pronunzia del dialetto; e per evitare, come meglio si può, lo sconcio che altri li pigli nel loro valore comune, non c’è che il mezzo di mettere sull’avviso i lettori con appositi avvertimenti. E questo io l’ho fatto, a quando a quando nelle note, e più particolarmente nelle avvertenze intorno al dialetto, premesse a’ sonetti, le quali ho prima sottoposto all’approvazione di due giudici competentissimi, il professore Ferdinando Santini e il deputato Giuseppe Checchetelli, che per questo lavoro mi furono larghi di amichevoli conforti e di aiuto efficace.

A queste considerazioni generali debbono aggiungersene alcune speciali al caso nostro.

E in primo luogo, se per consentimento dell’universale il Belli è sinora (e tutto fa credere che rimarrà sempre) il primo scrittore del dialetto romanesco, e se egli adottò costantemente per lo spazio di cinquant’anni quella ortografia, noi dobbiamo credere ch’ella sia la più adatta a significare il carattere speciale di quel dialetto: lo dobbiamo credere, almeno fino a tanto che non sorga un santo Padre colla barba più lunga, che ci dimostri il contrario.

Dovendo poi entrare nel presente volume anche un centinaio e più di sonetti non politici, scelti nell’edizione romana che fu fatta col riscontro dell’originale; e non potendosi, senza offendere ogni legge di letteraria convenienza, mutarne l’ortografia, era pur necessario di uniformarvi anche quella de’ sonetti politici, se non si voleva fare una brutta stonazione.

Nella prima edizioncella ch’io pubblicai di una trentina di questi sonetti1, c’era qualche doppia consonante soverchia nel principio di alcune parole; ma ora, questo ed altri piccoli difetti li ho emendati, e posso affermare con sicurezza, che se avessimo gli autografi, si vedrebbero scritti con una ortografia identica a quella da me adottata. Cosicchè, per dirla alla buona, l’asino è stato legato proprio dove voleva il padrone: e tale è appunto l’obbligo di un raccoglitore di scritti altrui.

Le note a’ sonetti conservati dalla tradizione popolare, son tutte mie. Prevedo che sembreranno troppe a chi ha un po’ di pratica del dialetto, e poche a chi non ne conosce punto; ma questo è lo Scilla e Cariddi, in cui si rompono il capo tutti i chiosatori; quindi non saprei che farci.

Le note a’ sonetti non politici, scelti nell’edizione del Salviucci, sono in parte dell’autore e in parte di me, che le ho messe dove mancavano affatto, e dove mi parevano insufficienti. In questi sonetti, la Censura romana, spigoiistra ed ipocrita secondo il costume, aveva tolto molte parole innocenti, come buggiarone, perdio, cazzotto, ecc., sostituendovi buzzarone, pebbìo, cacchiotto, ecc., che non sono del popolo, ma di quei santificetur che si scandolezzano molto delle parole e niente delle azioni disoneste. Io ho rimesso le parole popolari nella loro integrità di forma.

Nel fine del volume, quasi in appendice, mi è sembrato opportuno di mettere anche alcuni sonetti italiani del nostro autore, non perchè abbiano in se stessi un gran pregio e possano reggere al confronto di quelli in dialetto, ma perchè sono molto popolari.

Di altre piccole cose spettanti al modo tenuto nel compilare questo volume, il lettore discreto scoprirà da sè la ragione.

 

 

 





1 Sonetti satirici in dialetto romanesco, attibuiti a G. G. Belli, ecc. — San Severino (Marche) Tipografia Sociale editrice, diretta da C. Corradetti, 1869.




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