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Giuseppe Gioachino Belli
Sonetti romaneschi

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1430. L’anima der Curzoretto apostolico

 

Er guarda-paradiso, ggiorni addietro
pregava Iddio pe uprí li catenacci
a SsuEccellenza er cavajjer Mengacci1


che strijjò in vita sua piú d’un polletro.2

 

Dio s’allissciava intanto li mostacci,
e ppoi disse co un ghiggno tetro tetro:
«Voi ci date in cotèdine,3 sor Pietro,
e cci avete pijjati pe ccazzacci.

 

Cqua nnun è er reggno de voi Santi Padri,
dove la frusta, er pettine e lo stocco
fanno sorte e ttrionfeno li ladri.

 

E ssi4 vvoi nun zapete er vostruffizio,
le vostre chiave le darò a Bbajocco5
e appellateve ar giorno der giudizzio».

 

15 gennaio 1835

 




1 Lorenzo Mencacci, famoso propagatore della scomunica di Pio vii contro Napoleone e compagni. Di uomo di stalla salì all’ordine equestre, e morì quasi milionario l’11 gennaio 1835. Come il Duca di Guisa, poteva egli chiamarsi il Balafré, portando a traverso la faccia una enorme cicatrice, guadagnata nelle gesta della sua giovinezza, quando nondum inter equites sed inter equos versabatur.

2 Puledro.

3 Ci sbalestrate.

4 Se.

5 Giovanni Giganti, soprannominato Baiocco, celebre nano del cosiddetto Caffè Nuovo di Roma. Noi ne diamo qui appresso una illustrazione storica, governandoci in ciò come la buona memoria del Chiarissimo Francesco Cancellieri, il quale cominciava a parlarvi di ravanelli, e poi di ravanello in carota e di carota in melanzana, finiva coll’incendio di Troia.

 

Alla onorata memoria di Giovanni, detto Baiocco *

 

Dal seme de’ giganti io nacqui nano,

e mi dier di Baiocco il soprannome.

Alto fui quattro palmi, appunto come

la mezza-canna al nostro uso romano.

 

Non ebbe il torso mio nulla di strano,

ma le gambe fur corte e fatte a crome:

grosso il capo, il pel nero, ampie le chiome,**

schiacciato il naso, e il piè bello e la mano.

 

Fui del nuovo caffè guardia e decoro,

di chiunque apparia pronto a’ servigi,

buono, saggio, e, a dir vero, un giovin d’oro.

 

Quanti venian da Londra e da Parigi

mi davan doni, e dir solean fra loro:

«Questo baiocco val più d’un luigi».***

 

* Sonetto attribuito all’avvocato-cavalier-conte-marchese-commendatore Luigi Biondi. ** Era piú conforme a verità il dire: irte le chiome. *** L’idea dell’equivoco fra le monete e i nomi non è nuova. Fra le molte citeremo un epigramma relativo al Re di Francia Luigi xviii:

 

L’Engleterre en son pays

A nourri un gros cochon,

Quon a estimé dix-huit louis

Et en vaut pas un napolén.

 

 

Baiocco di onorata memoria al suo benigno panegirista *

 

De profundis quaggiù, dove il Signore

per mancati suffragi hammi ristretto,

ti ringrazio, o vivente, del sonetto

onde tu fosti e me fingesti autore.

 

Il bello e ‘l buono che di me v’hai detto,

vero confesso e me ne faccio onore:

benché la verità saria maggiore

fingendo il torso mio meno perfetto.**

 

E dove tu desti ultimo loco

a quel pensiero che ti nacque avanti,

per far di sensi e di parole un gioco,

 

chiarir meglio era ch’io Giovàn Giganti,

fra gli altri miei servigi, a poco a poco

vi servii di zimbello a tutti quanti.

 

* Sonetto di uno stretto amico de nostri buoni Romaneschi. ** Difatti, Baiocco aveva il dorso gibboso a dismisura.

 

Come morette quer Rodomontone

der cavajer Lorenzo, sverto sverto

der paradiso se n’annò ar portone

credenno aritrovàne er passo uperto.

 

Ma san Pietro per nun èsse cojone,

ché quarche cosa aveva discuperto,

a Cristo domannò si sto campione

der su’ Vicario drento aveva imberto.

 

Cristo, temenno che quer galeotto

puro lassù facesse quarche stocco,

dicette a lui: De che? Me ne strafotto!

 

Si parli un’antra vota, t’aribocco.

Caccelo, ch’io si no te fo er botto,

e portinaro in cambio fo Baiocco.

 

Sonetto falsamente attribuito a G.G. Belli. Belli crede che non avrebbe mai fatta una simile babbuassagine. Né è qui la vera lingua del popolo di Roma, lo spirito che in queste dipinture si richiede. Il principal pensiero, rubato, vi si esprime in troppo goffa maniera. - Morette e dicette, voci arbitrarie dell’autore. - Der paradiso se n’annò, a Cristo domannò, drento aveva imberto, e portinaro in cambio fo, ecc., contengono trasposizioni tutte estranee alla favella popolare. - Aritrovàne non si può dire. L’aggiunzione della particella ne al fine degl’infiniti de verbi (che tutti debbono terminare in vocale accentuata, rimossa l’ultima sillaba del verbo) appena sarebbe tollerabile nella chiusa di un periodo, fissato dalla pausa del punto. - Il quinto verso è mal fabbricato. Quella specie di ritmo non procede sonante e non ha l’accento sulla quarta sillaba. - Discuperto e temenno dicansi voci che mai non si udiranno dalla bocca di un romanesco, il quale non conosce che scoprì e avé pavura. - Aveva imberto, per aveva ingresso, accoglienza, è frase di tutta invenzione del compositore. Oltrediché vi si desidera espressa l’idea del poter avere ingresso. - L’idea plagiaria espressa nello stocco non conviene al Mencacci, secondo il senso in cui lo stocco è qui preso. Mencacci non fece stocchi: se si vuole, fece furti. - L’ultimo verso rinchiude la principal prova del plagio. - Cosa povera di ogni spirito e verità. Vedi il mio sonetto di protesta, qui unito:

 

A’ miei amici

 

Poiché talora attribuita al Belli

va circolando alcuna porcheria,

io vengo a protestar che non è mia,

ma forse è roba del signor Granelli.

 

Non ch’io m’abbia pel capo la pazzia

di vantare il più grande fra i cervelli:

neppur credo però, cari fratelli,

di patirne assoluta carestia.

 

Il ripudiar ciò che ha total difetto

di spirito, di gusto e proporzione

spero da voi che non mi sia disdetto.

 

Così, fra gli altri aborti di stagione,

io vi dichiaro apocrifo il sonetto

che porta in rima un tal Rodomontone.

 

 






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